Ieri sul Corriere della Sera c’era un interessante editoriale di Ferruccio De Bortoli che invita ad aumentare i salari per sostenere la domanda interna, sottozero da decenni.
Intanto c’è da dire che questo scenario è stato voluto dalla classe dirigente italiana, a partire dall’adozione dell’euro per imitare il “modello tedesco” export oriented, basato su salari bassi e su di un tasso di inflazione minore rispetto alla Germania per sostenere la competitività di prezzo.
A partire da Monti questo processo si è inasprito a tal punto da fare saltare parte del capitale industriale legato al mercato interno, causando l’esplosione dei crediti deteriorati e dunque incidendo negativamente sul sistema bancario italiano e sullo spread.
Aggiungere a questo il ventennale avanzo primario e una tassazione che pesa soprattutto su lavoratori e pensionati (questo de Bortoli lo dice), diminuendo via via Irap e Ires per protezionismo fiscale sempre legato al modello export oriented.
L’aspetto positivo è che la posizione finanziaria netta estera italiana è quasi in pareggio, cioè gli italiani hanno attivi finanziari all’estero quasi quanto i passivi finanziari legati all’acquisto di operatori esteri di titoli di stato italiani e investimenti esteri. Stiamo diventando creditori netti all’estero e, come sosteneva lo scorso anno Paolo Savona, avendo un surplus delle partite correnti di quasi 50 miliardi, l’Italia finanzia lo sviluppo degli altri paesi invece di finanziare il proprio.
La proposta di De Bortoli, sulla scia di Confindustria e della triade confederale, si basa sulla riduzione fiscale dei redditi medio bassi, come ha annunciato due giorni fa la stessa Germania, per sostenere i salari e il mercato interno tramite la riduzione del cuneo fiscale a carico dei lavoratori. Ciò però potrebbe provocare una stagione contrattuale che preveda miseri aumenti visto che è lo Stato a farsi carico dell’aumento del salario.
Diversamente, la proposta del Presidente dell’Inps Pasquale Tridico va ad incidere sul tasso di profitto, aumentando di netto il salario minimo, ciò che non fa la proposta di De Bortoli, che lo lascia intatto tutto a carico dello Stato.
Che una questione salariale enorme esista in questo paese è ormai appurato da tutti e l’eventuale recessione mondiale non lascia spazio agli esportatori (a giugno l’export italiano verso la Germania è diminuito dell’8%), dunque gli stessi industriali avvertono che bisogna rianimare il mercato interno.
Per farlo deve partire una stagione contrattuale che preveda adeguati aumenti salariali (Marco Fortis sul Sole 24 ore la settimana scorsa ha scritto che la produttività del settore manifatturiero italiano tra il 2015 e il 2018 è aumentata del 9,3% contro il 7,1% tedesco, produttività tutta andata a favore degli industriali).
Tradotto: i sindacati dopo decenni devono tornare a fare il loro mestiere, altrimenti lascino spazio nella contrattazione ai sindacati non allineati, sennò non servono a nulla, se non a riempire poltrone negli enti previdenziali e negli enti bilaterali, oltre che nel sistema della formazione.
Contemporaneamente, lo Stato deve ridurre le tasse sui lavoratori (su questo sono d’accordo con l’editorialista) e per farlo deve tagliare la marea di incentivi nazionali e regionali alle imprese.
Secondo uno studio di Mediobanca solo 2050 società monitorate hanno liquidità in cassa pari a 70 miliardi di euro. Per fare gli investimenti, i soldi gli industriali li hanno. Non hanno bisogno dello Stato per questo.
In più, come scrivevo la settimana scorsa, occorre incidere sul salario indiretto, vale a dire prestazioni sanitarie da Prima Repubblica (la gente non spende perché accantona denaro in vista di eventuali problemi sanitari), asili nido, scuole a tempo pieno, specie al Sud. Incidere cioè sul salario sociale globale.
L’aumento salariale deve essere accompagnato da un aumento della produttività totale dei fattori produttivi. Ripeto: la proposta di Paolo Savona è quella giusta, utilizzare il surplus delle partite correnti per fare investimenti pubblici, a cui aggiungere gli investimenti delle aziende pubbliche e semi pubbliche.
La Germania sta abbandonando il modello tedesco. Sarebbe ora che lo facessimo anche noi.
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