La vittoria sul “socialismo reale” è stata – non paradossalmente – un disincentivo all’innovazione del modello di sviluppo europeo, che anzi è stato parzialmente ridisegnato secondo i dettami dell’ordoliberismo teutonico: centralità delle esportazioni, bassi salari, precarietà contrattuale, taglio della spesa e degli investimenti pubblici, estromissione dello Stato dall’economia reale e sua funzione solo “regolativa” del libero gioco del mercato (l’”ordo” che accompagna, senza affatto temperarlo, il “liberismo”).
Il trentennio della “globalizzazione” si è ormai chiuso, la concorrenza tra macro-aree continentali capitaliste si accentua di giorno in giorno (la “guerra dei dazi” trumpiana ha anche Berlino nel mirino) e il modello di sviluppo continentale si scopre ancora incentrato sull’industria automobilistica a trazione diesel. In termini evolutivi, alla preistoria.
Tutta l’Unione Europea – il suo sistema di trattati e di sanzioni – è stato costruito su questo “modello di sviluppo ineguale” che ha accresciuto le distanze tra paesi forti e deboli, aree sviluppate e non, classi sociali favorite e penalizzate (i lavoratori di tutta Europa, tedeschi compresi, non vedono aumenti salariali reali – in termini di potere d’acquisto – da almeno venti anni).
Ora tutto trema, ma cambiare modello in corso è sempre complicato. Ancor più quando, invece di una struttura federale tendenzialmente unitaria e “compensativa”, si ha a disposizione solo una tecnostruttura costruita per esacerbare la concorrenza interna, comprimendo i consumi di massa. Qualcuno dovrebbe investire il proprio sovrappiù accumulato negli anni, ammodernando la propria struttura produttiva in termini di prodotto (non solo “di processo” tendente a risparmiare lavoro con l’automazione) e permettere così anche ai paesi o le aree più deboli di uscire dalla tenaglia di crisi e austerità.
Qualcuno dovrebbe insomma rinunciare ai vantaggi di cui ha goduto per 30 anni, prendendo a cuore il “bene comune” del Continente anziché il gretto interesse nazionalistico e di classe.
Vi sembra realistico? Vi sembra che l’attuale classe dirigente europea sia in grado di avere questo storico “colpo d’ala”?
L’editoriale di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza aiuta a chiarirsi le idee e sgombrare il campo dalle illusioni.
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Germania in recessione: per l’Unione è l’Anno zero
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
L’economia tedesca, già in rallentamento, è prossima alla recessione: dopo aver registrato una contrazione congiunturale dello 0,1% nel secondo trimestre di quest’anno, si prevede che ne segua una identica contrazione nel terzo. Ed è l’unico Paese dell’Eurozona ad avere questa performance negativa, seguito solo dall’Italia che alla fine del secondo trimestre è entrata in stagnazione.
Occorre approfondire ciò che sta accadendo in Germania per comprendere se si tratta di fenomeni congiunturali, evanescenti, oppure se sono il sintomo di modifiche strutturali del quadro interno ed internazionale.
Andiamo per gradi. In ordine ai fattori determinanti della crescita economica nel secondo trimestre dell’anno, Eurostat ha rilevato che l’Eurozona nel suo complesso ha subìto un contributo negativo da parte della componente estera: mentre l’export non ha subito variazioni apprezzabili, l’import è cresciuto dello 0,2%.
I dati diffusi da Destatis, l’Istituto di statistica tedesco, chiariscono le dinamiche che stanno caratterizzando le relazioni commerciali della Germania con l’estero: la contrazione del prodotto che è stata registrata nel secondo trimestre dell’anno deriva dal più consistente rallentamento dell’export rispetto a quello dell’import. Una volta aggiustato ai prezzi e destagionalizzato, l’export si è contratto dell’1,3% rispetto al trimestre precedente. Le importazioni sono invece diminuite solo dello 0,3%.
Questi dati congiunturali potrebbero essere considerati trascurabili se non ci fosse una corrispondente tendenza di più lungo periodo, visto che il commercio internazionale ha contribuito al rallentamento della crescita tedesca anche su base annua: in termini reali, dunque aggiustato ai prezzi, l’export si è contratto dello 0,8%. Le importazioni di beni e servizi, invece, sono cresciute dell’1,8%.
La manifattura tedesca, fin qui una gloriosa macchina da guerra, si è inceppata: in termini reali, rispetto al secondo trimestre del 2018, ha registrato una contrazione del 4,9%. Ed è un comparto di enorme rilievo, visto che pesa per un quinto dell’intera economia tedesca.
Se nei dodici mesi il valore aggiunto prodotto in Germania si è contratto complessivamente solo dello 0,1%, lo si deve all’andamento particolarmente dinamico dei settori delle costruzioni (+2,8%) e dei servizi di comunicazione ed informazione (+3,3%). Ci sono stati dunque due andamenti negativi: la caduta dell’export e quella della manifattura.
Sul versante della distribuzione del reddito, che in Germania in questo stesso periodo annale è aumentato in termini monetari complessivamente del 2,7%, si sono verificati due andamenti tra loro completamente opposti: mentre la remunerazione del lavoro è cresciuta del 4,5%, le rendite ed i profitti di impresa sono calati del 1,9%.
Sembra dunque che il successo del mercantilismo tedesco di questi ultimi anni, basato sulla crescita costante delle esportazioni manifatturiere e su un contemporaneo rigidissimo controllo dei costi salariali, sia arrivato al capolinea.
C’è un altro aspetto che va considerato: l’accumulazione di saldi strutturali attivi sull’estero comporta, alla lunga, una esposizione debitoria insostenibile. All’interno dell’Eurozona, dopo la crisi del 2010, un default del debito sovrano o del sistema bancario di uno dei tanti Paesi strutturalmente deficitari sul piano della bilancia dei pagamenti correnti e delle relazioni finanziarie con l’estero avrebbe portato al collasso dell’euro.
All’interno dell’area è stato realizzato un processo di generale riequilibrio nelle relazioni commerciali e finanziarie che ha ridotto lo spazio per una crescita tedesca fondata su un attivo strutturale: il saldo per merci è infatti crollato dai 128 miliardi di euro del 2007 ai 56 miliardi del 2018. Di converso, numerosi Paesi, tra cui Polonia, Grecia e Spagna, hanno ridotto drasticamente il loro passivo. Solo la Francia e la Gran Bretagna hanno ingigantito, più che raddoppiandolo, il loro passivo commerciale infra-Ue: la prima è passata da –53 a –103 miliardi di euro, la seconda da –51 a –107 miliardi.
L’Italia, pur con qualche violenta oscillazione al ribasso, è rimasta in attivo attorno agli 8-10 miliardi di euro annui. La Germania ha però recuperato ampiamente il suo attivo commerciale strutturale, focalizzandosi sui Paesi non appartenenti all’Eurozona.
Ora, però, la prospettiva della Brexit, il nuovo corso politico americano che implica relazioni commerciali non solo libere ma anche equilibrate, ed il completamento della trasformazione della economia cinese nel comparto manifatturiero, rappresentano altrettante incognite per l’economia tedesca e per il modello mercantilistico su cui ha prosperato.
C’è dunque una morsa che sta bloccando strutturalmente la dinamica economica tedesca: il meccanismo mercantilistico della crescita fondata sugli attivi commerciali strutturali è stato azzoppato sia sul versante dell’export, per via dei processi di riequilibrio delle relazioni commerciali, sia all’interno dell’Eurozona che nei confronti degli altri principali partner extra europei, sia su quello dell’import per via dell’aumento delle retribuzioni interne.
Ci sono tre ulteriori questioni, sempre strutturali. In primo luogo, l’economia tedesca è fortemente legata alla manifattura tradizionale ed in particolare al settore dell’auto, che è in profonda trasformazione per la trazione elettrica e la guida autonoma: le nuove tecnologie abbatteranno il vantaggio competitivo accumulato in decenni di investimenti nelle tecnologie meccaniche.
La Cancelliera Angela Merkel, che con tanta forza in passato aveva ribattuto alle richieste ultimative del Presidente americano Donald Trump di procedere ad un riequilibrio commerciale nel settore automobilistico, vantandosi dell’eccellenza impareggiabile dei prodotti tedeschi, ha dovuto ammettere in questi giorni, inaugurando a Francoforte il Salone dell’automobile, che questa industria vitale per la Germania deve sviluppare nuove tecnologie e riconquistare la fiducia persa tra i consumatori. Soprattutto dopo il dieselgate, che ha visto il colosso Volkswagen truccare i test delle emissioni di 11 milioni di veicoli circolanti in tutto il mondo.
Ci si muove su un crinale assai delicato, anche per le industrie dei Paesi partner come l’Italia.
In secondo luogo, in Germania la percentuale di produzione energetica da fonti fossili, tra cui il carbone, è ancora molto alta e richiederà sforzi assai consistenti per realizzare la transizione verso le fonti rinnovabili ed il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2.
Infine, il segmento dei servizi è ancora molto debole: nel periodo gennaio-luglio di quest’anno, la bilancia dei pagamenti correnti della Germania ha registrato in questo settore un passivo di 11,4 miliardi di euro, in peggioramento rispetto a quello dello stesso periodo dell’anno precedente, quando era stato di 9,9 miliardi.
La Germania si trova ad affrontare con enorme ritardo una serie di problemi strutturali. Ed è stato lo stesso Governatore della Bce, Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa tenuta giovedì scorso al termine della riunione del Board, ad invitare i Paesi che hanno “spazio fiscale” a farne subito uso per contrastare le tendenze recessive: da sola, la politica monetaria accomodante non basta.
Il riferimento alla Germania è stato chiaro a tutti, e trapelano indiscrezioni sulla decisione del governo tedesco di intervenire in modo deciso, mediante istituzioni e strumenti che si muovano in parallelo rispetto al bilancio pubblico.
Una strategia strumentale, per non rimettere in discussione il Fiscal Compact. Questo Trattato è stata una gabbia per tutta l’Europa: non solo ha impedito gli investimenti pubblici infrastrutturali, ma soprattutto il sostegno alle innovazioni in campo ambientale ed al progresso tecnologico su cui ora scontiamo un ritardo irrecuperabile.
Alla Germania è servito per mantenere un assetto produttivo tradizionale ed un modello di competizione mercantilistica che oggi la penalizzano per prima, e più degli altri. È servito a tenere sotto controllo debitori e competitor.
Il rischio, ora, è che il Fiscal Compact venga utilizzato ancora, per consentire solo alla Germania di procedere in solitaria alla riconversione ed alla ristrutturazione produttiva. Sarebbe comunque un impegno immane, considerando lo sbilanciamento strutturale della economia tedesca.
Ritornano sempre gli stessi nodi da sciogliere, primo tra tutti il divario tra i diversi paesi dell’Eurozona in termini di debito pubblico e di oneri connessi al suo servizio, che risalgono ai tempi del Trattato di Maastricht e che si sono vieppiù aggravati dopo dieci anni di crisi dell’Eurozona.
Non è solo il Fiscal Compact che va rimesso in discussione, ma l’architettura finanziaria, fiscale e monetaria europea che si è andata stratificando a partire dal Trattato di Maastricht. Non si tratta solo di rimuovere i tanti divieti disseminati dappertutto, che ad esempio impediscono alla Bce di assumere la funzione di prestatore di ultima istanza o di intervenire sul mercato per stroncare sul nascere la speculazione sui titoli di Stato, quanto di preordinare le istituzioni e gli strumenti idonei a sostenere una fase nuova, di crescita sostenuta ed equilibrata in tutto il Continente europeo, e non solo nei Paesi tradizionalmente più forti.
C’è in gioco, ormai, non solo la coesione sociale e la stabilità economica e finanziaria dell’Eurozona, quanto la stessa sopravvivenza politica dell’Unione. Dalla deglobalizzazione in corso alla disgregazione, il passo è davvero piccolo.
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