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16/09/2019

Lega a Pontida, poche idee e confuse

La Lega per ora si tiene Matteo Salvini e gli offre una platea osannante per confermarne la periclitante leadership.

Non ci soffermiamo “sulle note di colore” che tanto appassionano i media mainstream (le aggressioni al videomaker di Repubblica e a Gad Lerner, la rabbia cieca contro “gli altri” senza distinzioni, la paura di essere finiti in un cul de sac, “i ladri ci hanno rubato in casa”, ecc). Sono manifestazioni “logiche” per una folla di attivisti fidelizzati, chiamati a ribadire il sostegno a scelte che sono cadute loro addosso come macigni, a sorpresa, che devono per forza collocare l’errore e la malvagità (il “tradimento”) fuori del proprio cerchio. Salvando il Capo, magari “ingenuo”, ma comunque zattera cui aggrapparsi. In mancanza di meglio... Ossia di idee e progetto-paese.

Ci concentriamo invece sui pochi accenni di “programma” elencati dal Truce sul palco di Pontida.

Un elenco assolutamente neoliberista, perfettamente in linea con le scelte europee che si dice contemporaneamente di voler contrastare, ma condite con schizzi di ideologia parafascista a tenere insieme il tutto.

I punti forti, come presa sull’immaginario di chi si è trascinato fino al pratone bergamasco, sono stati ancora l’autonomia differenziata e la flat tax. Due idee assolutamente classiste, che privilegiano i ricchi – come territori e come reddito personale – ma che vengono vendute come “interclassiste”, capaci di mettere insieme “lavoratori ed imprese”. Come se pagare il 15% di tasse su un milione di euro (invece dell’attuale 43%) o su mille (proprio come ora) fosse una misura “egualitaria”, che mette “sullo stesso piano” ciò che sta in angoli opposti.

L’autonomia differenziata, a sua volta, è in linea approvata dalle politiche di Bruxelles, che hanno fatto della differenziazione e della conflittualità interna il tratto caratteristico dell’evoluzione dell’Unione. Una differenziazione gestita principalmente a livello di Stati nazionali, ma che è nel dna costitutivo dei trattati.

Già oggi, del resto, le regioni avanzate del Vecchio Continente sono i baricentri che attirano investimenti, commerci, infrastrutture, popolazione in cerca di lavoro, a scapito di aree che si vanno invece spopolando. Nord e Mezzogiorno esistono in ogni paese (basti pensare alla distruzione voluta dei land tedeschi dell’Est, l’ex DDR), e viene accuratamente vietata qualsiasi politica di riduzione delle disparità nello sviluppo.

È la visione ordoliberista classica (il più forte cresce, il più debole si mette a disposizione o sparisce), impostasi grazie alla leadership economica tedesca (anche questa in crisi, oggi). Ma il leghista medio l’ha fatta propria, come ogni “padroncino” che fa fatica a cavar fuori un sovrappiù soddisfacente dalla propria attività e quindi prova a rifarsi riducendo il salario dei dipendenti, evadendo le tasse (la flat tax è la versione “legale” di questa pretesa); sognando di diventare “un magnate”.

Un tempo si sarebbe detto piccola borghesia, produttiva o speculativa, che vede rapidamente svanire le condizioni fondamentali su cui aveva costruito il proprio benessere (la crisi del “modello europeo”) e cerca “colpevoli” alla sua limitata portata (i migranti, i meridionali – chiunque sia più a Sud di me).

È indicativa, in questo senso, la traduzione di questi obbiettivi in termini di “riforme istituzionali”: sistema elettorale assolutamente maggioritario (“chi prende un voto di più governa senza rottura di scatole”) e presidenzialismo, col ricorso al referendum su richiesta delle Regioni leghiste. Il peggio degli anni ‘80 e ‘90 riproposto come novità, in grado di “rispecchiare il popolo” mentre ne esclude parti crescenti dall’agone politico.

Ma queste due idee – molto “renziane”, berlusconiane o piduiste – nei venti anni che abbiamo alle spalle miravano a una riduzione della rappresentanza politica per rendere più efficiente la procedura decisionale. Di fronte al trasferimento di “poteri sovrani” (in economia, conti pubblici, politica estera, politica industriale e commerciale, ecc.), quelle “riforme” dovevano escludere “le ali estreme” dello schieramento politico e favorire la “convergenza al centro”, verso decisioni già prese in altra sede.

Oggi, nella versione leghista, dovrebbero invece servire ad eliminare qualsiasi condizionamento, qualsiasi opposizione effettiva, nell’eterna illusione dell’omuncolo impotente (“se avessi i pieni poteri, potrei fare tutto quello che voglio”).

Il resto – il pantheon della destra di fine millennio, con la Thatcher, Woytila e Oriana Fallaci, un pizzico di fascismo tra Mussolini e Le Pen – serve solo a dare l’impressione di possedere una “cultura politica unitaria” a un mondo, e a un ceto sociale, che non va al di là del proprio spaventato individualismo.

Se fossimo in un gioco politico serio, e in una fase economica migliore, tutto ciò sarebbe una barzelletta evidente anche agli occhi di chi riempiva il pratone bergamasco. Ma in tempi di crisi crescente, e con una “classe politica” miseranda (tra i Di Maio, gli Zingaretti, gli “scissionisti renziani”, i “furbettini del condominio” che imitano gli statisti di un tempo finito, ecc.), quella rabbia fangosa e cieca resta lì a fermentare. A sognare di tornare “ipotesi politica vincente”.

E se trovasse interpreti migliori del Truce, potrebbe persino diventarlo. Trasformando a quel punto la farsa in (breve) tragedia.

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