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06/12/2019

Frantz Fanon come metafora della liberazione

I.

Il 6 dicembre 1961, a soli 36 anni, moriva Frantz Fanon, per una leucemia allora incurabile. Poco prima era stato pubblicato il suo libro fondamentale, esplosivo, letterariamente e contenutisticamente un capolavoro. I dannati della terra è il prodotto della grande stagione della liberazione e dell’emancipazione, del moto storico della decolonizzazione, e al contempo rappresentò un punto di svolta, carico di una enorme spinta propulsiva.

Il colonialismo e la decolonizzazione fenomeni giganteschi della storia globale.
Oggi, nel pervicace eurocentrismo e occidentalocentrismo, nel solco della visione onnipresente della “superiorità bianca”, rimossi, cancellati. Parte di quel generale processo di rincretinimento globale a opera della necessaria “destoricizzazione”, della cancellazione della dimensione storica, della coscienza storica. Nella cultura e nella subcultura diffuse. A vantaggio dei dominanti.

Un libro, un autore, una persona (psichiatra-filosofo-rivoluzionario-negro-martinicano-algerino) che ci costrinsero e ci costringono a prendere posizione, a non essere indifferenti. Ci costrinsero e ci costringono a cambiare prospettiva. Non più “noi” e poi “loro”. Non più la storia e il pianeta visti dall’Europa, dagli Usa, dall’Occidente, dai dominanti globali. Bensì, la storia e il pianeta visti, come diceva e dice la Teologia della Liberazione, dal “rovescio della storia”, dagli oppressi, dai colonizzati, dai subalterni, dalle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, del sistema capitalistico su scala mondiale.

Si trattava e si tratta di un salutare, radicale riorientamento, di una necessaria “rivoluzione copernicana”. Da “noi e poi loro” a “loro e poi noi”. Si trattava allora, e si tratta oggi, di accettare di buon grado che il proscenio della storia vedesse protagonisti altri continenti, altri popoli, altre culture, altri esseri umani. Frantz Fanon e I dannati della terra hanno espresso al massimo grado questo riorientamento. Hanno dato voce a questi protagonisti.

Hanno anche espresso impietosamente tutte le contraddizioni che quel moto storico conteneva. Soprattutto nell’altra metà del compito storico della decolonizzazione. Vale a dire la costruzione della nuova storia, della costruzione del nuovo stato-nazione, della coscienza nazionale, del nuovo assetto, democratico, popolare, partecipativo. Che tendenzialmente operasse una cancellazione delle sperequazioni e delle ingiustizie sociali, che prefigurasse un nuovo assetto sociale e politico. Che evitasse quello che, con la sua solita efficacia, Marx chiamava “il ripresentarsi della vecchia merda”, in una società sedicente socialista, ma in realtà riproponente vecchie e nuove classi, vecchi e nuovi privilegi, vecchie e nuove gerarchie.

Fanon partiva dalla rivoluzione algerina, dall’esperienza dei primi stati postcoloniali, soprattutto in Africa, e già intravedeva la degenerazione, “il ripresentarsi della vecchia merda”. A causa di un processo endogeno, all’interno dei nuovi stati-nazione, e di un processo esogeno, a opera del neocolonialismo e dell’imperialismo, sempre attivi, letali, micidiali. Ricordiamo, tra le innumerevoli porcate, endogene ed esogene, soprattutto esogene (Belgio, Union Miniere, Cia ecc.), Fanon ancora in vita, l’assassinio di Patrice Lumumba, legittimo capo di stato del Congo postcoloniale.

II.

Nel libro la conclusione di Fanon è netta. È un accorato appello ai compagni, ai fratelli, ai dannati, affinché si ricerchino vie nuove, un pensiero nuovo, e si crei “un uomo nuovo”. Liberazione, indipendenza, ma anche una “rivoluzione del Soggetto”. Si parlò di appello apocalittico, palingenetico, estremo. Di lirismo, di profetismo, di romanticismo rivoluzionario. Ma quale forza proveniva da quelle parole, da quella prosa. Lasciare l’Europa al suo destino, “nella folle corsa” di un preteso progresso, di un consumismo sfrenato, di un autocompiacimento, di un narcisismo letali, rovinosi. E lasciare quell’Europa concentrata e distillata, il vero e proprio mostro rappresentato dagli Stati Uniti d’America.

Molti libri hanno un valore in sé. E I dannati della terra ne ha alla grande. Ma poi molti diventano libri fuori di sé, libri “per noi”, assumono significati a misura della ricezione che hanno, in contesti storici, spaziali, antropologici diversi. Così per le generazioni successive, quest’opera, nei centri sviluppati e nelle periferie “sottosviluppate”, ha rappresentato qualcosa addirittura di sovrastorico. Soprattutto per le generazioni, come la mia, come la nostra, di giovani impegnati, tra la fine degli anni '60 e gli anni '70, nei movimenti dei cristiani di base, nei movimenti antisistemici, studenteschi e operai, nei movimenti di emancipazione in generale.

Uno dei libri del ‘68. Il manifesto del terzomondismo, dell’internazionalismo, della nuova cultura che quella grande stagione ha suscitato. Assieme naturalmente ad altri libri e a personaggi storici che qui è superfluo citare.

Fanon ha dato altri contributi enormi nella sua breve vita. L’alienazione, anche nella dimensione antropologica e filosofica della nozione, il disagio psichico, fino alla vera e propria malattia mentale, del colonizzato, la questione fondamentale della violenza, il ruolo decisivo della cultura, non come semplice sovrastruttura ecc.

Un “essere eccezionale” disse di lui Simone de Beauvoir, la quale con Jean Paul Sartre, autore della famosa prefazione al libro, lo incontrò in varie occasioni.

III.

Il contesto globale del pianeta è oggi completamente cambiato. E tuttavia i “dannati” esistono sempre, il neocolonialismo-imperialismo imperversa in Africa, Asia e America Latina. Il neocolonialismo-imperialismo imperversa nella stessa Europa, in Usa, in Occidente.

I migranti ci riportano in casa quel “loro” di cui si diceva sopra. Razzismo, xenofobia, fascismo, culture e subculture della sopraffazione, chiusure identitarie, le belle (per i dominanti) guerre tra poveri ecc. rappresentano il corredo nefasto di questo contesto.

IV.

A mo’ di conclusione. Apparentemente una digressione. Fanon si adoperò, quale rappresentante del movimento di liberazione nazionale algerino, per un’alleanza continentale africana. Una sorta di “panafricanismo”, senza chiusura identitaria tuttavia. Cancellare il “bianco”, ma cancellare anche al contempo il “negro”. Per un nuovo universalismo, per un vero internazionalismo delle nazioni, dei popoli, delle persone (la dimensione individuale mai cancellabile).

Noi italiani abbiamo una macchia, un orrore ancora in atto, a proposito di Africa e di colonialismo. Il maresciallo Rodolfo Graziani, militare-fascista-razzista, criminale di guerra riconosciuto da una commissione delle Nazioni Unite, viceré dell’Etiopia conquistata dall’Italia fascista e nella quale compì massacri e crimini di ogni genere (gas, lanciafiamme, impiccagioni ecc.) non fu mai condannato per questi crimini. L’Italia negò la sua estradizione all’Etiopia, finita la seconda guerra mondiale. Fu solo processato per “collaborazionismo” con i nazisti e scontò solo quattro mesi di carcere. Repubblichino e fucilatore di partigiani. Morì nel 1955, servito e riverito nella sua confortevole casa.

A lui è stato dedicato un sacrario ad Affile, suo luogo di nascita. Il sindaco e due assessori condannati per apologia del fascismo. Ma il sacrario è ancora lì. Monumento all’infamia e all’orrore e monumento della orribile espressione “italiani brava gente”.

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