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06/08/2023

Lo stato innovatore in Italia

Di Simone Gasperin

Considerate la seguente serie di asserzioni. La scoperta del polipropilene, la plastica più prodotta al mondo, trova le sue radici presso un laboratorio di ricerca pubblico italiano. La principale azienda europea di semiconduttori (STMicroelectronics) fu sviluppata da un’impresa pubblica italiana. Lo standard di codifica digitale MPEG, da cui deriva l’MP3, fu elaborato dal centro di ricerca e sviluppo di un’impresa italiana delle telecomunicazioni a controllo statale (CSELT). La prima centrale a concentrazione solare al mondo a immettere elettricità in una rete nazionale fu progettata e costruita in Sicilia da imprese pubbliche (ENEL e Ansaldo). Un’impresa pubblica italiana sviluppò un modello commercializzabile di auto ibrida (Alfa Romeo 33 ibrida) quasi 10 anni prima di Toyota. Un’altra impresa pubblica italiana ideò il sistema di pagamento dinamico più utilizzato in Europa (Telepass).

Queste non sono farneticazioni di qualche eccentrico predicatore dello Speakers’ Corner di Hyde Park, bensì affermazioni veritiere. Infatti, anche il nostro Paese ha avuto un suo “Stato innovatore” e questo è stato perlopiù incarnato dalle imprese pubbliche, in particolare da quelle appartenenti all’IRI.

A dispetto della sua fama di “carrozzone”, negli anni Settanta l’IRI diventò il principale soggetto nazionale per la ricerca e l’innovazione. Pur rappresentando il 3% del PIL, nel 1992 l’IRI pesava per il 15% della ricerca e sviluppo nazionale (il 26% del settore delle imprese). Un valore cresciuto nel tempo rispetto al 4% del 1963. Le imprese IRI investivano più di quelle non-IRI nella R&S: a fine anni Ottanta l’intensità di ricerca (R&S su fatturato) delle imprese IRI era superiore al valore nazionale in tutti i settori comparabili. Inoltre, la R&S dell’IRI contribuiva al riequilibro territoriale, poiché nel Mezzogiorno pesava per circa il 40% del totale delle imprese.
Allo stesso tempo, l’attività di brevettazione dell’IRI era relativamente inferiore, con una media del 4,2% sul totale nazionale nel periodo 1969-1987. Ciò era in parte dovuto alla specializzazione dell’IRI in settori strutturalmente a bassa intensità di brevettazione, ma anche alla scelta di non ostacolare i flussi di conoscenza all’interno del sistema nazionale di innovazione. Questa peculiare “apertura” del sistema di ricerca e innovazione dell’IRI rispetto all’economia italiana è confermata anche dall’alto valore dei ricavi di R&S commissionata da terzi (circa il 40% di quanto spendesse l’IRI) e dalla diffusa messa a disposizione delle strutture di ricerca ad aziende non-IRI.

L’interazione pubblico-privata del sistema di ricerca IRI si fondava poi sul lavoro dei centri di ricerca “interaziendali” specificatamente creati dall’IRI (lo CSELT di Torino), accessibili a imprese terze e talvolta pure co-partecipati (il Centro Sperimentale Metallurgico di Castel Romano). Inoltre, negli anni Ottanta l’IRI lanciò i cosiddetti consorzi “Città-ricerche”, dei partenariati locali in nove città universitarie italiane fra IRI, Unioncamere, CNR, Università e imprese locali per favorire l’avvicinamento fra ricerca di base e applicazioni industriali.

Nel 1992 l’IRI disponeva di un “esercito” di circa 13 mila addetti nella ricerca, di cui quasi 8 mila ricercatori. Questi operavano in 114 laboratori aziendali, 7 centri specializzati (con 9 distaccamenti locali) e 9 consorzi “Città-ricerca” attivi in 16 regioni italiane. L’IRI aveva sviluppato un’infrastruttura nazionale di ricerca pubblica, aperta e coordinata dai piani quadriennali di gruppo per la R&S. Le successive privatizzazioni e lo smantellamento dell’ente pubblico gettarono in mare uno strumento per le politiche dell’innovazione unico nel nostro Paese. I principali centri di ricerca sono stati chiusi o fortemente ridimensionati, con il risultato che nel 2007 la spesa in R&S delle imprese italiane era inferiore a quella del 1991 (scesa dallo 0,64% allo 0,59% del PIL).
Dove si trova oggi in Italia lo Stato innovatore che in molti Paesi rimane centrale per la scoperta e la diffusione delle tecnologie? Forse sarebbe meglio chiedersi “se” vi si trova. Non c’è quella rete di agenzie pubbliche del governo federale USA che Mariana Mazzucato ha individuato come cruciali nell’emergere delle tecnologie dei semiconduttori, di internet, delle energie rinnovabili. Non esiste un sistema di ricerca applicata come quello tedesco degli Istituti Fraunhofer, centri pubblici per il trasferimento tecnologico in cui le imprese si scambiano conoscenza. Manca una tradizione dirigista-pianificatrice come quella che permane in Francia e che le permette di adottare decisioni coordinate con gli attori privati su settori e tecnologie strategici. È poi venuto meno uno Stato che realizza politiche nazionali di innovazione e ricerca attraverso società a controllo statale, come avviene ancora oggi nel caso delle imprese di Stato cinesi, ma in parte anche in Paesi come Svezia e Finlandia (con Vattenfall, LKAB e SSAB) per quanto riguarda la decarbonizzazione dell’industria siderurgica e in Danimarca rispetto allo sviluppo di un ecosistema industriale e infrastrutturale attorno all’industria eolica (orchestrato da Ørsted).

Le nostre attuali imprese a partecipazione statale pesano ancora molto per quanto riguarda la R&S nazionale, circa il 18% del totale delle imprese (stima sul 2018). Queste detengono tecnologie di notevole importanza per il sistema di innovazione nazionale. Leonardo è fra i pochi soggetti nazionali che ha investito nell’intelligenza artificiale, Eni possiede il più potente calcolatore industriale non governativo al mondo (l’HPC5) e sta investendo nella fusione nucleare, Enel detiene una tecnologia unica (celle fotovoltaiche a eterogiunzione) per il suo impianto di pannelli solari a Catania, Ansaldo Energia e Snam stanno investendo negli elettrolizzatori, Fincantieri nelle navi a idrogeno, Invitalia con DRI d’Italia nel preridotto per la siderurgia, Industria Italiana Autobus ha sviluppato l’unico autobus elettrico interamente italiano.

Ma come su altri aspetti, anche per quanto riguarda l’innovazione e la ricerca, ciascuna impresa gioca la sua partita. Non vi è una coordinazione o una messa a sistema delle attività di ricerca fra le imprese pubbliche. Ma nemmeno tra queste e la ricerca delle imprese private e delle strutture pubbliche (Università e altri enti pubblici di ricerca).

Non è un caso se fra le principali 1000 società europee per spesa in R&S, l’Italia ne conti solo 50 (incluse quelle con sede legale all’estero). Si tratta del 5% del totale, rispetto al 12% del peso del PIL italiano nell’Ue. Senza considerare le 285 della Germania, la Francia ne ha 149, la Svezia addirittura 152. Solo 9 società italiane investono più di 500 milioni di euro l’anno in R&S (fra cui Stellantis, che però ha in Italia solo una parte marginale delle attività di ricerca). Va notato come almeno 8 fra le prime 15 italiane siano (o siano state) imprese a partecipazione statale.
La lezione IRI ci ricorda l’importanza di una politica nazionale dell’innovazione e della ricerca, in cui le grandi imprese pubbliche giocano un ruolo essenziale. Un eventuale ente pubblico di coordinamento delle partecipate potrebbe facilitare i flussi di conoscenza fra le imprese e promuovere progetti di ricerca comuni. Ancora meglio, potrebbe propiziare la creazione di centri di ricerca applicata per il trasferimento tecnologico, particolarmente strategici per una struttura produttiva nazionale caratterizzata da piccole e medie imprese prive di risorse da investire in ricerca e innovazione. Sarebbe la dimostrazione, anche in un Paese imbevuto di retorica anti-statalista, che lo Stato innovatore può lavorare con e per il settore delle imprese, non contro di esso, ma solo se motivato da fini di interesse pubblico generale.

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