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12/02/2012

Benetton: dall'imprenditoria alla rendita

Il ritiro dalla Borsa della Benetton, l'azienda simbolo della famiglia trevigiana che ha inondato il mondo di maglioni colorati, ha un significato che va oltre le vicende finanziarie della ricca dinastia creata dai quattro fratelli veneti. Le vere ragioni dell'addio alla Borsa, dopo 26 anni, del marchio simbolo dei Benetton non sono state spiegate.
La famiglia fa trapelare che c'è bisogno di ristrutturare l'azienda tessile presieduta da Luciano Benetton e smentisce che sia prevista la vendita. In realtà l'obiettivo dell'operazione potrebbe proprio essere una cessione, forse mascherata da fusione con un gruppo straniero. Operazioni che potrebbero essere compiute con maggior tranquillità se l'azienda non è quotata e non ci sono piccoli azionisti che possano disturbare il manovratore.
Ma il significato autentico dell'annunciato ritiro della Benetton da piazza Affari è quello di una crisi della famiglia nell'attività originaria, un abbandono dell'industria e una preferenza per le attività legate alla rendita. I segni di questa tendenza erano visibili già da anni.
I Benetton hanno da tempo diversificato, cioè investito in attività lontane dalla produzione di maglioni e abbigliamento, il cui peso è rimasto inchiodato a circa due miliardi di euro di fatturato all'anno, sugli 11.638 milioni di ricavi del gruppo nel 2010, con 260 milioni di utile netto.
Il cuore dei Benetton batte per gli Autogrill, che svolgono attività di ristorazione di massa lungo le autostrade, negli aeroporti di tutto il mondo, nelle grandi città, per le autostrade con Atlantia, che gestisce più di tremila chilometri di rete a pedaggio in Italia e il primo gennaio di ogni anno aumenta inesorabilmente le tariffe a carico degli automobilisti, anche se gli investimenti per migliorare la rete vanno a rilento.
Basta ricordare che la costruzione della terza corsia tra Bologna e Firenze, un tratto di 70 chilometri, non è ancora completata malgrado questo impegno sia stato assunto dai Benetton quando l'ex gruppo Autostrade è stato privatizzato dall'Iri, alla fine del 1999. Andare da Firenze a Bologna è come affrontare una pericolosa gimkana.
L'intera autostrada del Sole, un tracciato di 754 chilometri da Milano a Napoli, è stata costruita dall'ex società Autostrade quando apparteneva allo Stato, all'Iri, dal 1956 al 1964, in soli otto anni. Ad essere maliziosi, ma neppure tanto, si potrebbe osservare che più Gilberto Benetton ritarda gli investimenti e quindi le spese nelle autostrade, maggiori sono i profitti che porta a casa perché i pedaggi aumentano lo stesso.
Gli interessi dei quattro fratelli di Treviso si estendono alla gestione delle grandi stazioni ferroviarie, dove sono alleati del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, della Pirelli e delle ferrovie francesi (Sncf), fino al controllo degli aeroporti: Fiumicino, il primo scalo italiano, è controllato attraverso Gemina, come Ciampino, altre partecipazioni sono possedute negli aeroporti di Firenze, Torino, Bologna. A Roma è pronto il piano per il raddoppio di Fiumicino. Quando decollerà lo Stato dovrà comprare i terreni agricoli di Maccarese, che appartengono ai Benetton. Per la famiglia trevigiana sarà un affare gigantesco. Hanno comprato la tenuta agricola in una lontana privatizzazione, nel 1998, al prezzo equivalente a quasi 47 milioni di euro: oggi si stima che i terreni valgano almeno il quadruplo.
I Benetton hanno aderito, senza entusiasmo, anche all'invito di Silvio Berlusconi nel 2008 a partecipare alla Cai, la cordata dei patrioti guidata da Roberto Colaninno e da banca Intesa di Corrado Passera (ora superministro dello Sviluppo economico) che ha comprato la polpa dell'Alitalia a prezzi stracciati dallo Stato. Atlantia ha investito 100 milioni, un investimento in perdita già svalutato per 25 milioni dalla società autostradale.
Ma il sacrificio è stato ampiamente ripagato dagli aumenti dei pedaggi e da altri vantaggi. Nel portafoglio dei trevigiani c'è anche il controllo di Impregilo, il primo gruppo di costruzioni italiano, insieme a un altro signore dei pedaggi, il piemontese Gavio, mentre è uscito di scena a causa dei debiti il terzo socio di comando, il discusso immobiliarista e finanziere Salvatore Ligresti. Tutti e tre sono tra i capitani coraggiosi intervenuti nella discussa operazione Cai-Alitalia.
Lontani dalla tradizione industriale delle origini sono anche gli investimenti nella finanza. I Benetton sono entrati nel salotto buono in cui siedono i protagonisti del fragile potere finanziario italiano. Archiviata, in forte perdita, l'avventura in Telecom Italia dove approdarono nel 2001 insieme alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera, i Benetton possiedono il 2,16 per cento di Mediobanca, lo 0,94 per cento delle Assicurazioni Generali, il 4,77 della Pirelli. Sono presenti in forze nell'editoria, possiedono il 5 per cento della Rcs, editore del Corriere della sera e il 2 per cento del gruppo Il Sole 24 Ore, che pubblica il quotidiano economico controllato dalla Confindustria: questi investimenti sono in perdita, ma assicurano potere e rispetto alla famiglia di Ponzano Veneto. Che ha appena spalancato le porte del consiglio di amministrazione di Atlantia a Monica Mondardini, amministratore delegato del gruppo L'Espresso, che pubblica il settimanale omonimo e il quotidiano la Repubblica. C'è un conflitto d'interessi in tutti questi intrecci?
Ai Benetton questa obiezione non interessa. Con le manovre nell'alta finanza, pensate che ai piani alti dell'impero, nella loro holding per le infrastrutture, la lussemburghese Sintonia, hanno imbarcato azionisti come la Goldman Sachs, Mediobanca e il fondo sovrano di Singapore Gic, cosa volete che gli importi dei maglioncini colorati? Una produzione che li ha resi famosi nel mondo ma che ormai è in larga parte delocalizzata all'estero, nei soliti paesi a basso costo della manodopera, all'insegna del declino dell'industria (e del capitalismo) italiani.

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