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09/02/2012

Lavoro, verso una società frammentata

Mentre il confronto sulla riforma del lavoro sembra avvitarsi attorno all’articolo 18, discutiamo della prima fase della trattativa con il sociologo torinese Marco Revelli. In particolare, ragioniamo del ruolo del sindacato.
 
Qual è lo stato dei rapporti tra governo Monti e mondo sindacale?
Dai primi passi, la posizione del governo rappresenta un neoliberismo integrale: il lavoro è una variabile dipendente dal quadro finanziario globale. Anche questo governo esprime il senso comune che misura l’affidabilità dei Paesi in base alla debolezza del mondo del lavoro.
La trattativa sulla riforma del lavoro si è aperta con questi presupposti e non può che esserne condizionata: il governo di fatto vuole fare da sé e non esiste trattativa vera. In questo ha ragione la Camusso.
Cisl e Uil negli ultimi anni hanno dimostrato un’arrendevolezza totale sia al governo Berlusconi – basti ricordare il sodalizio di fatto con il ministro Sacconi – sia all’ala dura del mondo imprenditoriale, ben rappresentata da Marchionne, fatto che poi conduce direttamente all’accordo Fiat. Forse sono convinti di una “subalternità necessaria” per via delle condizioni oggettive dell’economia e del lavoro. Sta di fatto che resta solo la posizione d’orgoglio della Cgil e, soprattutto della Fiom. Con tutte le difficoltà del caso, anche interne alla Cgil stessa, che però rimane l’unico soggetto sindacale che fa il proprio mestiere: negoziare.
Rispetto al governo precedente, nell’esecutivo di Monti c’è una discontinuità di stile. Prima si puntava agli accordi sotto banco e non c’era trasparenza. Questo è invece un governo esplicitamente liberista che rende chiaro il rapporto capitale-lavoro. Per cui ci sarebbero le condizioni per un vero conflitto. Il lavoro può finalmente confrontarsi con il liberismo di mercato e non con la corte dei miracoli di prima.
L’altra novità consiste nel fatto che mentre il governo precedente non era credibile neanche per i mercati, questo lo è. Probabilmente è questo il motivo per cui ci siamo salvati dal default.

Perché l’articolo 18 sembra così importante?
L’articolo 18 è un simbolo. In realtà conta abbastanza poco dal punto di vista della crescita e della creazione di occupazione. Quello che importa, invece, è la totale liberalizzazione del mercato del lavoro. Così il Paese diventa più affidabile e lo spread può scendere, senza nessun nesso con l’economia reale ma nel quadro di vincoli finanziari, non politici.
Vogliono dimostrare che in Italia c’è il potere discrezionale assoluto del datore di lavoro. La creazione di più posti di lavoro non c’entra niente, anche perché con i contratti di apprendistato le imprese potrebbero tranquillamente assumere gente senza le tutele dell’articolo 18. La realtà è che se non si assume è perché non c’è domanda.

Come cambierà il ruolo del sindacato se si andrà verso la fine della concertazione e del contratto unico, rendendo sempre più frequenti gli accordi separati?
Gli accordi separati sono devastanti, non solo per il sindacato ma anche per la società, che è già frammentata. Qui si va verso un’ulteriore frammentazione del mondo del lavoro e questo dovrebbe capirlo anche l’impresa, perché a questo punto diventa difficile la governabilità dei processi. Ho l’impressione che le stesse oligarchie che lavorano a questo scenario non se ne rendano bene conto.

Fonte.

Al solito gli opinionisti sono sempre troppo teneri coi sindacati, quanto al salvataggio dell'Italia dalla bancarotta, io aspetterei ancora qualche mese prima di cantar vittoria.

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