di Roberto Prinzi
La richiesta libica ed egiziana di armi per combattere lo Stato islamico – presentata mercoledì al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CSNU) - sembra al momento non trovare sponsor.
Mohammed ad-Dair – il ministro degli esteri del governo di Tobruq,
quello riconosciuto dalla comunità internazionale – era stato chiaro due
giorni fa: “se non ci vengono fornite le armi, verrà fatto il gioco
degli estremisti”. Parole che, finora, non hanno convinto nessuno. Gli
ultimi a unirsi pubblicamente al gruppo degli scettici sono stati
gli Usa e la Gran Bretagna. Più armi in circolazione, secondo
Washington e Londra, e più aumenta il rischio che le armi possano finire
in “mani sbagliate”.
Durante una visita ufficiale in Spagna, il titolare del dicastero degli esteri inglese, Philip Hammond, lo ha detto esplicitamente:
“il problema è che non c’è un governo in Libia che abbia un controllo
effettivo del suo territorio. Non c’è un esercito libico che la comunità
internazionale può effettivamente sostenere”. Prima che il
governo di Tobruq possa ricevere armi, bisogna, secondo Hammond, formare
un governo di unità nazionale e accettare la presenza Onu nel Paese.
“Dare armi ad una fazione o ad un’altra, che è in pratica quello che è
stato chiesto, non risolve la crisi libica e non renderà l’Europa più
sicura. Anzi, la metterà più a rischio”. Un ragionamento corretto che
però appare assai vago: con quali parti e voci islamiste del parlamento
di Tripoli (non riconosciuto) si può arrivare a patti?
E soprattutto elude ipocritamente le responsabilità occidentali sul caos libico:
se ingenti quantità di armi circolano nel Paese è perché Washington,
Bruxelles e Paesi del Golfo quattro anni fa le hanno distribuite a
gruppi di “ribelli”, salvo accorgersi ora trattarsi di “pericolosi
terroristi”. La devastazione del Paese nasce dal fallimento
dall’operazione Nato del 2011 anti-Gheddhafi il cui fiasco (o “missione
non compiuta” come l’ha definito il presidente egiziano al-Sisi) è ormai
inconfutabile. Nelle ore in cui la Libia ritorna a fare notizia in
Occidente, c’è da chiedersi perché solo ora la comunità internazionale
si mostra preoccupata per le sorti libiche e parla di crisi. I
segnali che la deposizione del “rais” fosse stata controproducente erano
apparsi da tempo. Due eventi in particolare avrebbero dovuto destare
dal torpore la comunità internazionale: l’uccisione del console
americano John Christopher Stevens a Bengasi in un attacco rivendicato da Ansar ash-Sha’ria (12 settembre 2012) e il rapimento (conclusosi poi con il suo rilascio) dell’ex premier libico Ali Zeidan a Tripoli
(ottobre 2013). Una volta liberato, proprio il primo ministro aveva
lanciato un allarme rimasto inascoltato: “la Libia è a rischio
collasso”. Nessuno si preoccupò allora di parlare di governo di
unità nazionale. Né di arrestare il flusso di armi (e di jihadisti) che
continuava a scorrere indisturbato in Libia e da qui verso la Siria per
combattere il “macellaio” al-Assad.
Il rischio, espresso ieri anche dalla portavoce del
Dipartimento di Stato Usa Jen Psaki, che le armi possano finire tra
“attori non-statali” è giusto, ma tardivo e ipocrita perché gli “attori”
che ora preoccupano l’Europa (l’Italia in primis) sono gli stessi
alleati protagonisti della “rivoluzione libica” che anche tanta parte
della sinistra europea ha appoggiato. E se gli uomini dello
Stato islamico sono ormai noti per essere pericolosi, le milizie che
imperversano in Libia e la saccheggiano da 3 anni non lo sono di meno.
Gruppi come il Libya Shield Force, la “Stanza delle operazioni dei
rivoluzionari libici”, Ansar ash-Sha’ria non necessitano di molte
lezioni in termini di barbarie dai presunti affiliati dello Stato
islamico. Non parleranno di “califfato”, ma la loro idea esclusivista di
stato islamico non è meno preoccupante di quella degli uomini di
al-Baghdadi.
E mentre prosegue la coordinazione “ad alti
livelli” tra il parlamento di Tobruq e il Cairo nella guerra contro le
postazioni Is nel Paese, il Pentagono – tramite il suo portavoce
l’Ammiraglio John Kirby – ha fatto sapere ieri di non essere stato
avvisato dall’alleato egiziano della sua intenzione di condurre raid
aerei in Libia. “Non abbiamo partecipato né abbiamo sostenuto
[i bombardamenti, ndr]. Né abbiamo preso una posizione su questo
[aspetto]”. Nonostante la mancata cooperazione, Kirby ha voluto ribadire
che l’Egitto è un partner regionale strategico riguardo al “terrorismo,
la stabilità della regione inclusa la pace con Israele”. Insomma, lo
sgarbo tra alleati c’è stato, ma “niente è cambiato”.
Ma se procedono (apparentemente) immutati i
rapporti tra egiziani e statunitensi, continuano a restare tesi quelli
tra Doha e il Cairo. Ieri l’emirato ha deciso di richiamare il
suo ambasciatore in Egitto a causa delle parole di un diplomatico
egiziano che aveva accusato i qatarini di sostenere il terrorismo. A
differenza della Lega Araba che aveva espresso mercoledì la “sua totale
comprensione” per la risposta militare egiziana al barbaro assassinio
dei prigionieri copti, il Qatar non ha nascosto le sue riserve. Il suo
ministro degli Esteri, Saad bin Ali al-Muhannadi, ha infatti dichiarato
che le azioni unilaterali (come i raid egiziani in Libia) potrebbero
colpire dei civili innocenti e avvantaggiare una sola delle parti
coinvolte nel conflitto. La risposta risentita egiziana, affidata al suo
rappresentante presso la Lega Araba Tareq Adel, non si è fatta
attendere: “Il Qatar supporta il terrorismo”.
A provare a calmare le acque ci ha pensato (invano)
il capo del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) che ha preso le
distanze dalle parole di Adel cercando di non riaprire il dissidio
scoppiato lo scorso anno in seno al Consiglio quando Arabia Saudita,
Emirati Arabi e Bahrein decisero di ritirare i loro ambasciatori da Doha
a causa del sostegno di quest’ultima ai Fratelli Musulmani.
E mentre miliziani legati allo Stato Islamico hanno preso controllo dell’università di Sirte e di alcuni edifici governativi, continua l’esodo degli egiziani. Secondo quanto ha riferito all’Agenzia stampa Mena il Maggior Generale al-Anany Hamouda, negli ultimi giorni più di 1.770 persone hanno lasciato il territorio libico per ritornare in Egitto. Per anni la Libia è stata la principale destinazione per i lavoratori egiziani a causa dell’abbondante presenza di petrolio, per la sua vicinanza geografica e per i suoi confini aperti. Fino ad aprile del 2011 (in pratica fino all’inizio delle operazioni militari della Nato), infatti, gli egiziani potevano entrare e risiedere in Libia senza alcun visto. Secondo stime non ufficiali i lavoratori egiziani – impiegati soprattutto nel settore edile e delle costruzioni – erano al tempo di Gheddafi un milione e mezzo.
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