di Chiara Cruciati
“No agli accordi
economici con Israele, visto che il rapporto è tra occupante e
occupato”: questo il messaggio inviato dalla società civile palestinese
all’Autorità Nazionale che da un anno lavora con compagnie israeliane ad
un accordo per la vendita di gas naturale del famoso bacino del
Leviatano.
Mentre la Casa Bianca avverte del timore di un definitivo collasso
dell’Anp a causa del congelamento del trasferimento delle tasse
palestinesi da parte di Israele (che secondo il Protocollo di Parigi del
’95 raccoglie per Ramallah le tasse dei palestinesi), a premere
sul presidente Abbas sono le organizzazioni palestinesi e politici,
anche di Fatah. Pietra dello scandalo è l’accordo che l’Anp ha firmato
con Israele, 1,2 miliardi di dollari per la vendita di gas alla
Cisgiordania per i prossimi 20 anni.
L’appello arriva ad un mese dalla decisione della Giordania di
sospendere le trattative (dopo una petizione firmata a dicembre da 8mila
giordani) con due compagnie, la statunitense Noble Energy e
l’israeliana Delek Group, per la vendita di gas naturale dallo stesso
bacino marino, il ricco Leviatano, sul quale aveva messo le mani anche
la Turchia con un accordo che prevedeva la costruzione congiunta
turco-israeliana di un gasdotto che giungesse direttamente in Europa.
Le due compagnie a gennaio 2014 avevano strappato una firma
anche alla società Ppgc, Palestine Power Generation Company. Il gas
dovrebbe arrivare direttamente nell’impianto elettrico di Jenin. Ma oggi
il comitato palestinese del Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e
Sanzioni) alza la voce: martedì in conferenza stampa politici e
attivisti hanno accusato Ramallah di aver stretto un accordo segreto
che non tiene in considerazione le legittime aspirazioni palestinesi
all’autodeterminazione e il controllo che Israele esercita sulle risorse
naturali palestinesi, sotto il controllo di Tel Aviv.
Si tenga conto delle alternative, chiedono: prima gli accordi
per la vendita di gas con paesi come Qatar e Venezuela avevano una
durata di uno o due anni, ma ora si parla di un contratto di 20 anni con
compagnie israeliane. Un accordo che ha mosso anche le
organizzazioni anti corruzione palestinesi: “Pensiamo ci sia dietro un
caso di corruzione perché non esiste una legge che monitora il settore,
un settore altamente corrotto”, ha detto Azmi Shuaibi di Aman, watchdog
palestinese.
“Questo accordo peserà sul popolo palestinese per un periodo lungo –
ha aggiunto Khalida Jarrar, esponente del Fronte Popolare e membro del
Consiglio Legislativo Palestinese – La gente non è partner di questo
accordo”. Non si tratta, ha aggiunto la Jarrar, di un passo
verso la pace ma di una normalizzazione delle relazioni tra palestinesi e
israeliani che non tiene conto dei reali rapporti sul terreno.
Non sarebbe la prima volta che business palestinesi optano
per la via comoda della “pace economica”, promossa dal segretario di
Stato Usa Kerry e rilanciata negli anni scorsi dall’iniziativa “Breaking
the Impasse”, formata da 200 imprenditori palestinesi e israeliani.
Fare la pace, facendo affari. Così si era giunti a gennaio 2014
alla firma dell’accordo da 1,2 miliardi di dollari per la vendita di
538 miliardi di metri cubi di gas israeliano all’impianto di Jenin, la
cui costruzione costerà 300 milioni di dollari e dovrebbe coprire l’8%
del fabbisogno energetico della Cisgiordania.
All’epoca non erano mancati i plausi da parte delle compagnie
israeliane coinvolte: “La cooperazione economica condurrà verso la
prosperità e la crescita – aveva detto Yitzhak Tshuva, azionista di
controllo della Delek Group – Contribuirà alla promozione del rispetto
reciproco e della fiducia tra palestinesi e israeliani, vera base per la
pace”.
Alla campagna Bds e a sacche di politici palestinesi la pace
economica appare, invece, come un altro trucco per togliere dal tavolo
del negoziato, inesistente, questioni centrali per il popolo palestinese:
il diritto al ritorno dei profughi, lo status di Gerusalemme, la
questione dei prigionieri politici e ovviamente il controllo di risorse
naturali e frontiere.
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