Forse, se il caso è di quelli in cui le news aderiscono un minimo alla realtà, la buona notizia viene da Barletta: vendita della locale squadra di calcio, con un passato in B, che è stata affidata al leader storico della curva. Comune, imprenditoria locale, cosiddetta società civile: tutti si erano defilati di fronte alla situazione drammatica del Barletta, le cui trasferte ci risultano essere finanziate anche dal tifo, non è rimasto che affidare la procura per la vendita al leader storico della tifoseria. Auguri comunque, ci mancherebbe.
Il punto è che il calcio di oggi è lo specchio dell’Italia renziana e liberista: ai proclami diffusi a reti unificate, alle (sedicenti) dichiarazioni energetiche davanti alle slide corrisponde, fuori dal set, il consueto mucchietto di macerie. Dirigenti improbabili, squadre in mano ad avventurieri come la cordata russo-cipriota che aveva preso il Parma, raddoppiato i debiti in bilancio prima di passare la proprietà ad un’altra società, senza pagare gli stipendi. Per non parlare del Milan dove un signore riesce a farsi pubblicità parlando di un fantomatico miliardo per acquistare la società. Miliardo che, al Milan, farebbe benissimo se solo esistesse da qualche parte.
Ora, se c’è una parte del patto del Nazareno che ha funzionato è sicuramente quella legata allo sport in generale e al calcio in particolare. Parte del patto che, evidentemente, assegnava al centrodestra il governo del Coni e della Federcalcio. E allora vai con Malagò, uno che sembra più attento alla forma personale che alla riforma dello sport, e con l’ormai abbondantemente mitico Tavecchio. Uno che con la battuta sul calciatore nero che fino al giorno prima dell’ingaggio in Italia "mangiava banane", si è guadagnato fama imperitura nella storia del trash sportivo. Solo che, dopo i fiumi di critiche all’attuale presidente della Federcalcio e le scuse di rito di Tavecchio, proprio questa storia dei calciatori di colore deve essere rimasta indigeribile ai dirigenti del calcio italiano. Infatti anche Arrigo Sacchi, parlando delle giovanili ha detto che “ci sono troppi calciatori di colore”. Sacchi è noto, a chi segue il calcio, per essere uno che abusa del concetto di “cultura calcistica”: te la infila per spiegarti tutto, dal mancato posizionamento difensivo sul calcio d’angolo al tasso di affluenza negli stadi. La frase di Sacchi ha uno scopo evidente: dire che ci sono pochi italiani nei vivai. Ma probabilmente l’Arrigo nazionale, noto per tanti trionfi ma anche per aver perso una partita della nazionale contro il Pontedera (C2 all’epoca), vede solo partite dei vivai anni ’80 e ’90. Se magari desse un’occhiata a quelle di oggi vedrebbe che calciatori italiani di colore ce ne sono tanti. E, prima che frequentasse qualche discoteca di troppo, anche il centravanti della nazionale era di colore. Per non dire che Belgio e Germania, incidentalmente campione del mondo, hanno fatto fortuna naturalizzando migranti nelle giovanili.
Il problema non sta, ovviamente, nella pigmentazione della pelle dei calciatori giovani ma nell’assenza di una reale strutturazione del calcio giovanile italiano a tutti i livelli. Si guardi a Francia e Germania, alle proliferazione di centri federali dedicati ai migliori giovani. E i risultati si vedono: la Germania lo scorso anno ha fatto più spettatori di media in B che della A italiana. E in Germania c’è tutto: neri, stadi pieni, nazionale campione del mondo, stranieri nel campionato e competitività in Champions League. Non sarà che nel calcio del Nazareno, ultimo bastione del centrodestra, qualcosa non torna?
Per non parlare, appunto, delle frasi di Lotito, da sempre più un personaggio di culto televisivo che un presidente (di un paio di società ma non sia mai che si parla di conflitto d'interesse). Anche qui ci vuol poco a capirsi: televisivamente il calcio italiano vende meno perché lo spettacolo, salvo rare eccezioni, è pessimo. Non è colpa del Carpi in tv, oggi primo in classifica in B, ma del disastroso livello dello spettacolo, in A come nel campionato cadetto, che si pretenderebbe la gente acquistasse in abbonamento. Perché in Cina, come in India, possono acquistare anche il Carpi, c’è fame di brand italiano. Ma almeno che si tratti di partite vere non di sgambate di fronte a pochi intimi infreddoliti. E in un calcio in cui i procuratori hanno interesse a muovere trasferimenti, per le loro provvigioni, è difficile costruire quell’amalgama che fa spettacolo. Per non parlare di stadi in cui i residui delle tifoserie esistono solo in casa e i cui posti vuoti dominano ad ogni match ad ora assurda (un Empoli-Udinese alle 19,00 di lunedì non lo vendi né in Cina né in Italia né ad un pubblico pagante). E per non parlare dei nuovi stadi, come il progetto della Roma, che sembrano più fatti come pretesto per cambiare la faccia ad una città, risolvendo il destino di un investimento, che per riportare tifosi veri, e non piccoli fan, alla partita.
E così il calcio renziano, specchio di un modo più complessivo di governare, mostra le proprie crepe ben oltre la propaganda: personaggi da circo, dirigenti disconnessi dal mondo, avventurieri della finanza fai da te. Ci aspettiamo, prima o poi, qualche dichiarazione roboante, in materia, del Presidente del Consiglio. Le risate, almeno quelle, non mancheranno.
Redazione - 19 febbraio 2015
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