di Michele Paris
Al fine di implementare le “riforme” di libero mercato ordinate dai
centri del potere economico-finanziario e osteggiate dalla gran parte
delle popolazioni, i governi europei continuano a mostrare una totale
assenza di scupoli nel calpestare o, quanto meno, forzare le regole
democratiche consolidate. Un caso esemplare di questa attitudine si è
osservato martedì in Francia, quando il governo “socialista” del primo
ministro, Manuel Valls, e del presidente, François Hollande, ha fatto
ricorso a una discussa norma costituzionale per fare approvare un
pacchetto di legge senza il voto dell’Assemblea Nazionale, ovvero la
camera bassa del parlamento di Parigi.
La manovra si è resa
necessaria in seguito alla probabile bocciatura che attendeva la
cosiddetta “Legge Macron” (“Loi Macron”), contro la quale avevano
dichiarato di voler votare contro anche svariati deputati del Partito
Socialista. La legge in questione prende il nome dal ministro
dell’Economia, l’ex banchiere d’investimenti Emmanuel Macron, e
contiene, tra l’altro, misure per liberalizzare il mercato del lavoro e
una serie di professioni, limitare alcuni diritti dei lavoratori
dipendenti e privatizzare numerose aziende pubbliche.
Contro la
legge, alcuni mesi fa erano state registrate varie proteste in Francia e
la sua presentazione da parte del governo ha contribuito al livello
infimo di gradimento goduto attualmente dal presidente Hollande e dal
suo partito.
Le politiche di austerity e di liberalizzazione
dell’economia perseguite dai governi “socialisti” succedutisi negli
ultimi tre anni non solo hanno provocato un’esplosione del conflitto
sociale in Francia ma, di riflesso, hanno aperto profonde divisioni
all’interno dello stesso partito al potere. Una consistente “fronda” è
infatti critica verso il nettissimo spostamento a destra del governo e
minaccia costantemente di negare il proprio appoggio alle iniziative di
legge d’impronta liberista presentate in Parlamento.
Nell’estate
del 2014 lo scontro interno al Partito Socialista era addirittura
sfociato nel licenziamento di alcuni ministri, tra cui quello
dell’Economia, Arnaud Montebourg, dopo che questi ultimi avevano
criticato pubblicamente la deriva reazionaria dell’esecutivo guidato da
Valls.
Le difficoltà e gli espedienti anti-democratici intrapresi
dal primo ministro e da Hollande per fare avanzare la propria agenda
ultra-liberista sono la conseguenza della crescente impopolarità della
loro azione politica. L’approvazione di iniziative come quella avanzata
forzatamente questa settimana è dunque possibile solo grazie a manovre
di più che dubbia legittimità, necessarie per piegare l’opposizione
dalla maggior parte dei francesi.
Per quanto riguarda la Legge
Macron, il governo sembrava inizialmente certo di ottenere i voti per la
sua approvazione ma, con l’approssimarsi dell’appuntamento in aula,
alcuni deputati della “fronda” socialista hanno manifestato l’intenzione
di votare contro il provvedimento invece di astenersi, come avevano
fatto finora sulle questioni più delicate per non mettere a rischio
l’esecutivo.
Secondo il quotidiano Libération,
Valls si è trovato di fronte al rischio di vedere bocciato il
provvedimento per una manciata di voti e ha deciso così di chiedere al
presidente Hollande di ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione
transalpina. Questo articolo consente al governo di far passare un testo
di legge all’Assemblea Nazionale senza un voto dell’aula e di inviarlo
direttamente al Senato.
Una “mozione di censura” può essere però
presentata dall’Assemblea per bloccare la legge, ma essa necessita del
voto della maggioranza assoluta dei suoi membri e, in caso di esito
positivo, determina automaticamente la caduta del governo.
Il
calcolo di Hollande e del governo è apparso subito evidente. Mentre i
deputati socialisti rivoltosi erano pronti a bocciare la Legge Macron,
essi non saranno con ogni probabilità disposti a prendersi il rischio di
mettere in crisi il governo e forzare nuove elezioni che
penalizzerebbero severamente il loro partito, favorendo in primo luogo
il Fronte Nazionale di Marine Le Pen.
Allo stesso tempo, il
presidente spera di ricompattare in qualche modo la sua maggioranza,
almeno momentaneamente, offrendo inoltre ai deputati “dissidenti” la
copertura politica necessaria per appoggiare il governo pur mostrandosi
contrari ad approvare la Legge Macron.
Una “mozione di censura” è
stata comunque presentata dai deputati dei principali partiti di
opposizione di centro-destra - UMP (Unione per un Movimento Popolare) e
UDI (Unione dei Democratici e Indipendenti) - ma, nel dibattito previsto
per giovedì, le possibilità che venga approvata risultano praticamente
nulle vista la maggioranza detenuta dai “socialisti” e dal loro partner
di governo (Partito Radicale di Sinistra, PRG).
La presa di
posizione delle opposizioni, in ogni caso, non comporta una critica al
pacchetto di legge Macron, ma è a sua volta una manovra politica per
provare a far cadere il governo o, per lo meno, acuire le divisioni nel
Partito Socialista.
In Francia, all’articolo 49.3 della
Costituzione viene fatto raramente ricorso da parte dei presidenti.
L’ultima volta fu nel 2006 con Jacques Chirac all’Eliseo e Dominique de
Villepin alla guida di un governo che cercava di imporre un’altra
“riforma” del mercato del lavoro nonostante le proteste di piazza. In
quell’occasione, lo stesso Hollande aveva condannato duramente
l’iniziativa, bollandola come “un atto di brutalità”, “la negazione
della democrazia” e un modo per “impedire il dibattito parlamentare”.
I
tre leader “socialisti” - Hollande, Valls e Macron - hanno ad ogni modo
difeso la decisione di fare appello all’articolo 49.3, motivandola con
la necessità di approvare a tutti i costi un provvedimento che
servirebbe “per il bene del paese”. Il presidente ha mostrato tutte le
sue inclinazioni democratiche mercoledì, affermando che il governo “non
aveva tempo da perdere né rischi da prendere”. Il ministro Macron ha
invece ricordato la presunta disponibilità del governo a discutere la
legge che porta il suo nome, alla quale sarebbero stati accettati “più
di mille emendamenti”.
Gli
sviluppi di questa settimana in Francia confermano l’aggravamento della
crisi in un cui si dibattono il presidente Hollande e il suo governo.
La leadership “socialista” ha scelto di rischiare uno scontro frontale
con i parlamentari “ribelli” del partito pur di riuscire a mandare in
porto un pacchetto di “riforme” profondamente impopolari ma chieste a
gran voce dai vertici europei, da Berlino e, più in generale, dagli
ambienti del business domestico e internazionale.
Leggendo tra le
righe di quanto ha scritto mercoledì il Wall Street Journal, risultano
chiare le forze che agiscono sull’adozione di politiche di destra a
Parigi come altrove in Europa. La testata americana ha ricordato come,
“da anni, Hollande sia esposto alle pressioni di Germania e UE per
implementare le riforme economiche”.
“Con una crescita ferma allo
0,4% negli ultimi tre anni e la disoccupazione in doppia cifra”, spiega
il Journal, “la Francia è in ritardo anche rispetto alla timida ripresa
economica dell’eurozona”. Il prossimo 27 febbraio, infine, “il ramo
esecutivo dell’Unione Europea [Commissione Europea] dovrà decidere se
applicare sanzioni contro la Francia per avere ripetutamente mancato le
scadenze fissate per la riduzione del deficit di bilancio”.
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