Il presidente, che per la prima volta dal post-11 settembre ha
chiesto al Congresso poteri speciali contro la minaccia islamista, per
ora continua a infilare l’elmetto sulla testa degli altri. Obama sperava
in un ritiro militare (non certo di influenza politica) dal Medio
Oriente ma si trova davanti una regione nel caos, a causa delle scelte
scellerate compiute negli ultimi dieci anni, trascorsi a rafforzare
gruppi che ora armi in pugno stanno stravolgendo Iraq, Siria, Libia.
L’Iraq è ormai un non-Stato, grazie alla distruzione delle
istituzioni del post Saddam. Mosul, seconda città del paese, è caduta a
giugno in meno di due giorni, l’esercito addestrato e imposto da
Washington fuggì a gambe levate. Il nuovo governo guidato da
al-Abadi tenta di combattere i settarismi interni e per farlo sta
creando una nuova forza militare, composta anche dalle milizie sunnite
delle tribù anti-Isis. Ma a dettare l’agenda è ancora l’America: pochi
giorni fa il premier iracheno aveva prospettato il lancio di una
controffensiva per riprendere Mosul entro l’anno. Oggi la Casa Bianca
accorcia i tempi: tra aprile e maggio si parte.
Sul campo 12 brigate dell’esercito iracheno, 25mila uomini, fa sapere
il Commando Centrale Usa, che saranno addestrati in basi statunitensi
nelle prossime settimane. Le 12 unità saranno affiancate da tre brigate
di peshmerga, il cui compito sarà chiudere la strada all’Isis a nord e
ovest. Infine, un’ultima unità combattente direttamente da Mosul, ovvero
polizia e forze militari tribali pronte (pare) a tornare in città. A
sostegno delle truppe di terra, Washington metterà a disposizione raid
aerei e intelligence. Per ora nessuno stivale sul terreno, seppur più di
un rapporto parli di marines già attivi sul campo.
Un’operazione di vasta scala volta a estirpare da Mosul
l’Isis, che secondo dati ufficiali, oggi ha in città tra i mille e i
duemila combattenti, un numero che appare irrisorio per la macchina da
guerra Usa. Eppure sono a Mosul, dettano legge, massacrano la
popolazione e controllano i vicini confini con la Siria, da cui passano
indisturbati miliziani e armi. E conoscono da tempo le intenzioni di
Baghdad e Washington, che pubblicamente discutono della controffensiva.
Grandi discussioni sono state intavolate da tempo anche in merito
all’addestramento e l’armamento delle opposizioni moderate siriane al
presidente Assad. Ora arriva l’accordo definitivo tra Turchia e Usa, a
cui si è affiancato anche il Qatar, dopo il sì di Giordania e Arabia
Saudita. Mezzo Medio Oriente, insomma, che si impegna a sostenere ancora una volta quei ribelli che sul campo non sono quasi più presenti:
la Siria è oggi divisa tra aree controllate dal governo di Damasco,
zone in mano ai qaedisti di al-Nusra e altre sotto lo Stato Islamico (un
terzo del paese, da Raqqa alla frontiera con l’Iraq). Mezzo Medio Oriente che condivide un obiettivo: la caduta del presidente Bashar al-Assad e l’indebolimento dell’asse sciita
che, ad oggi, con Iran e Hezbollah attivi sul campo di battaglia sia
siriano che iracheno appare il solo a contrastare in qualche modo
l’avanzata del califfato.
A poco valgono gli appelli inascoltati dell’inviato Onu de Mistura
che continua a sottolineare come il presidente Assad debba essere parte
della soluzione per venire a capo di una guerra civile lunga 4 anni,
terreno fertile all’avanzata del califfato. Eppure si insiste a
puntare sull’Esercito Libero Siriano, braccio armato della Coalizione
Nazionale, quella che la comunità internazionale ha eretto a unico
rappresentate legittimo del popolo siriano ma priva di potere politico e
militare nel paese.
Ieri i dettagli del piano di addestramento sono stati resi pubblici:
la Giordania è pronta all’addestramento, la Turchia quasi, l’Arabia
Saudita aprirà i campi entro tre mesi e il Qatar tra 6-9 mesi. Ieri
l’accordo definitivo è stato siglato con Ankara, come annunciato dal
ministro degli Esteri turco Cavusoglu che non poco filo da torcere ha
dato negli ultimi mesi alla coalizione. Dopo la presa di Kobane
da parte dell’Isis, Washington ha chiesto alla Turchia un impegno
concreto, dopo le accuse giunte da più parti di un sostegno indiretto di
Ankara all’Isis. Dateci almeno le basi, supplicavano gli Usa.
Ma Erdogan non ha ceduto: basi e impegno militare solo in cambio
della testa di Assad. E ha vinto: i ribelli anti-Assad saranno formati
(5mila il primo anno, 15mila in tre anni), ma di azioni militari turche
contro lo Stato Islamico non se ne sono viste. Al contrario, attivisti
kurdi al confine tra Turchia e Siria hanno documentato con video e foto i
rapporti amichevoli che le truppe turche mantenevano con i miliziani
islamisti.
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