di Sonia Grieco
Da quando l’Isis ha
intrapreso la sua avanzata in Iraq e in Siria, la sorte delle donne,
persino delle bambine, che hanno avuto la sciagura di incontrare i
jihadisti è stata raccontata dai media di tutto il mondo. Abusate e
vendute come schiave in veri e propri bazar, sono diventate l’immagine
più atroce dell’oscurantismo del sedicente Stato Islamico,
particolarmente spietato e vigliacco con le “infedeli”.
Ma per i jihadisti, la tratta delle donne non è un affare
vantaggioso soltanto dal punto di vista economico, ma anche
propagandistico, considerato che la promessa di una vergine contribuisce
ad attirare le centinaia di stranieri che sono diventati la
spina dorsale delle milizie dell’autoproclamato califfato. Ed è parte
integrante dell’affermazione di una visione del mondo che ormai tanti
definiscono medioevale, in cui la donna è un oggetto e basta.
Una donna, infatti, può essere venduta anche al costo di un “pacchetto di sigarette”, o per centinaia o migliaia di dollari,
ha detto Zainab Bangura, inviata speciale dell’Onu per la violenza
sessuale nelle zone di guerra. “Questa guerra è combattuta sul corpo
delle donne”, ha detto all’Afp, spiegando che al momento non si hanno
cifre precise su quante siano cadute nelle mani dei jihadisti.
Di storie, però, ne sono state raccontate tante in questi ultimi 18 mesi, da
donne e ragazze che sono riuscite a fuggire dai propri aguzzini.
Adolescenti di 12-14 anni vendute a uomini adulti, donne bruciate vive
perché si sono ribellate allo stupro, umiliazioni e sevizie: la
schiavitù sessuale in tutte le sue forme. Alcune yazide, tra le
più prese di mira dai jihadisti, hanno raccontato di essere state
rinchiuse in cento in una casa, spogliate e lavate e, infine, messe in
fila per essere “valutate” da un gruppo di miliziani, che ha attribuito
loro il prezzo a cui poi sono state vendute.
Per le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi, ogni territorio conquistato
in Iraq e in Siria è un bacino di rifornimento di nuove donne che
diventeranno concubine o schiave, o saranno destinate al business della
prostituzione.
Per chi riesce a fuggire, oltre al trauma e alle conseguenze
fisiche delle violenze, c’è il complicato rientro nella comunità e
talvolta la stigmatizzazione. Quella yazida sta accogliendo le
ragazze riuscite a scappare, ha detto Bangura, auspicando che altri
seguano l’esempio del leader religioso Baba Sheikh che ha dichiarato
pubblicamente che le donne che riescono a tornare devono essere comprese
e sostenute. Ma non è sempre così.
E comunque la ferita della schiavitù è indelebile per una generazione
di ragazze che ha bisogno di assistenza e sostegno. Intanto, in Iraq e
in Siria infuria la battaglia e la questione delle donne catturate
dall’Isis non è una priorità. Bangura porterà la questione delle donne
al Consiglio di Sicurezza per approntare un intervento di assistenza a
coloro che sono riuscite a fuggire. Questo, però, non fermerà i
rapimenti dell’Isis.
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