Nonostante il superamento del marxismo
come ideologia “ufficiale” del campo delle sinistre non abbia portato
alla produzione di un altro “pensiero forte”, cioè strutturalmente
definito e abbastanza univoco nella sua interpretazione e applicazione,
non per questo le sinistre, tanto “di movimento” quanto
partitico-istituzionali, sono rimaste prive di una loro guida
ideologica. Almeno in Italia, il pensiero tendenzialmente dominante
all’interno delle sinistre radicali è scaturito dall’incontro tra il
post-strutturalismo francese (Foucault, Deleuze, Guattari), un pezzo di
scuola di Francoforte (Marcuse), e la speculazione politico-filosofica
post-operaista di Tronti e Negri (descrivendo una sorta di “decrescendo
rossiniano”: da Marcuse, uno dei più importanti filosofi del ‘900, a
Foucault, uno dei massimi critici del potere costituito e delle sue
articolazioni, a Negri, l’esegeta di Spinoza). Non c’è solo questo,
ovviamente, ma il cuore del pensiero radicale contemporaneo può situarsi
all’incrocio di queste tre “scuole” politico-filosofiche. La sintesi di
queste tendenze politico-culturali determina da quarant’anni abbondanti
la sostanza del pensiero radicale e conflittuale italiano. Tale
pensiero, al di là del giudizio che se ne voglia dare, è caratterizzato
però da una contraddizione decennale: sempre più egemone all’interno della
mobilitazione politica, fra i militanti, gli studenti, i dirigenti
della sinistra, ma sempre più minoritario per la società nel suo
complesso e all’interno delle classi subalterne.
Siccome ci troviamo all’apogeo di tale contraddizione (non staremo qui a
dimostrare quanto risulti ininfluente tale pensiero per i centri di
potere costituito, tanto economico quanto politico), comprendere le
ragioni di questo minoritarismo diventa parte della riscoperta di
strumenti politici all’altezza dei tempi. Lungi dall’essere un discorso
esclusivamente intellettualistico, filosofico o astratto, la definizione
di questo problema concerne direttamente la quotidianità politica, le
lotte di ogni giorno e le loro prospettive. Perché oggi risolvere la
questione di come tornare ad esprimere un pensiero maggioritario, almeno
interno alla classe, è il problema principale onde evitare la
marginalizzazione sub-culturale verso cui stiamo tendendo.
A differenza del pensiero marxista, la
sistematizzazione di questo pensiero radicale nasce nelle università, e
ci nasce non determinando ma seguendo la crescita della mobilitazione
studentesca. Una serie di intellettualità accademiche vengono “tirate
per la giacchetta”, costrette a misurarsi con una predisposizione alla
rivolta generazionale, alla mobilitazione costante, alla partecipazione
politica, che impone agli intellettuali meno imbolsiti la “questione
movimento”. Tra il 1942 e il 1951 Herbert Marcuse lavorerà prima all’Oss
poi alla Cia; Foucault nel 1966 pubblica il suo libro fino ad allora
più importante, Le parole e le cose, che è una resa dei conti
con Marx e il marxismo, un libro giudicato “di destra” per la violenza
della critica a Marx; Antonio Negri un cattolico militante poi iscritto
al Psi. Sono solo esempi, non esaustivi ma significativi non per svelare
un “pedigree politico” non conforme alle loro successive evoluzioni
(peraltro Marcuse negli anni Venti era comunista spartachista), quanto
per chiarire come gli autori principali di questo pensiero non “formano”
il movimento studentesco ma vengono da questo formati tramite
l’incontro sconvolgente con la soggettività studentesca. Una
soggettività che esplode nel 1968 ma che ha i suoi prodromi almeno
dall’inizio degli anni Sessanta, quando il definitivo decollo
dell’economia europea post-bellica garantisce la creazione di
un’università di massa nella quale accedono non più solo i figli del
direttore di banca ma anche quelli di una piccola borghesia in ascesa e
financo i primi figli di operai. La composizione sociale studentesca
cambia forma, producendo contraddizioni che poi sfoceranno
nell’eccezionale fenomeno del ’68 e degli anni Settanta in Italia.
La crescente mobilitazione politica di
questa soggettività necessitava però di un pensiero radicale capace non
soltanto di porre una critica assoluta al sistema capitalista, ma anche
di prendere le distanze dal socialismo reale sovietico, di cui i partiti
comunisti nazionali erano espressione e principale problema per questo
spirito di rivolta. A parte rari esempi (e il Pci, nonostante tutto,
rimase uno dei partiti più propenso alla dialettica con il ’68), quella
tra partiti comunisti e movimento studentesco è la storia di una rottura
immediata e non più risanata, una conflittualità a volte latente a
volte plateale. Impossibile servirsi del pensiero marxista “ufficiale”,
leninista-staliniano di stampo sovietico, quando nei vari contesti
europei la rottura portava la soggettività studentesca a confliggere in
primo luogo con quella storia. Servivano strutture di pensiero,
ideologie, forme culturali o contro-culturali capaci di prendere le
distanze tanto dal capitalismo quanto dal socialismo realizzato, tanto
da Washington che da Mosca, tanto dalle democrazie cristiane quanto dai
partiti comunisti. E questo fatto è ancora più evidente in Francia per
la presenza di un partito, il Pcf, ancor più chiuso del Pci nella sua
dialettica interna e nella comprensione dei fenomeni sociali eccedenti
la soggettività operaia. Non sarà per caso dunque che proprio dalla
Francia verrà lo stimolo decisivo alla rottura con una tradizione
politica e la sistematizzazione di nuove forme ideologiche. Una rottura
non determinata solo dalla presenza del Pcf, ma dall’egemonia del
pensiero cartesiano-razionalista, dal “dominio hegeliano” nei
dipartimenti universitari, e via dicendo, che per reazione produrrà il
rifiuto del pensiero positivista e storicistico ottocentesco.
All’inizio degli anni Sessanta viene scoperto il pensiero di Mao. Un pensiero utilizzato soprattutto per portare la lotta dentro al partito comunista e contro
i dirigenti politici comunisti. Nonostante determini la storia della
Cina da un trentennio e ne sia presidente da più di un decennio, è solo
dal ’60 in avanti che Mao viene preso a modello di un pensiero
rivoluzionario alternativo al socialismo sovietico e al suo marxismo
ortodosso. Questo fatto avviene perché di Mao interessa la sua capacità
di portare la lotta di classe nel partito, perché anche nel partito,
cioè nella supposta avanguardia politica del proletariato, può annidarsi
il germe del riformismo, della controrivoluzione, della borghesia. E’
il pensiero che legittima la lotta degli studenti tanto alle destre
quanto alle sinistre ufficiali. Il maoismo costituirà parte del
retroterra culturale di una serie di autori che poi prenderanno il largo
recidendo completamente l’originaria appartenenza al movimento
comunista ufficiale, di cui Mao (purtroppo per loro) fa ancora parte. E,
ancora una volta, sarà dalla Francia che verrà introdotto questo
“maoismo occidentale” quale arma intellettuale anti-sovietica.
Accomunati capitalismo e socialismo
reale in un’unica categoria avversa, quella del potere autoritario da
combattere prescindendo dalle forme che questo assume, tanto di destra
come di sinistra, il cuore del ragionamento politico teorico si sposta
dall’anticapitalismo – utile a spiegare solo una parte del problema –
all’antiautoritarismo, meglio in grado di cogliere il rifiuto verso ogni
imposizione gerarchica e, non secondariamente, utile anche alla lotta
quotidiana verso le istituzioni sociali emblema del potere autoritario:
in primis l’università, secondo poi tutte le “istituzioni totali” quali
il carcere, gli ospedali psichiatrici, eccetera, ma anche i partiti e i
sindacati. Il rapporto dialettico tra studenti in cerca di un sistema di
pensiero “anti-potere” e autori volti all’indagine del meccanismi del
potere stesso, produrrà quel milieu culturale favorevole all’affermazione di una “critica del potere” che non assumerà più i contorni della critica al potere capitalista, quanto
di una critica filosofica ai meccanismi del potere, qualsiasi essi
siano. E’ in questo tornante filosofico-politico che si situa la
riscoperta di Nietzsche “da sinistra”, come autore in grado più del
marxismo stesso non solo di spiegare l’intima organizzazione del potere,
ma di legittimare la rivolta individuale alle organizzazioni
gerarchiche, qualsiasi esse siano: rimandiamo a questa nostra analisi l’analisi del ruolo di Nietzsche e dei nietzscheani nelle correnti di pensiero radicali contemporanee.
Se il marxismo individuava nei rapporti di produzione il cuore del problema, indicando nel capitalismo un insieme di rapporti sociali da
ribaltare di segno attraverso la presa del potere, il nuovo pensiero
radicale metteva in discussione questa presa del potere. Anche se non
esplicitamente, la decostruzione intima delle microfisiche del potere,
delle sue caratteristiche sempiterne, delle sue articolazioni
necessarie, rendeva il potere qualcosa di autoritario di per sé,
qualcosa da cui discostarsi, da combattere qualsiasi forma questo
prendesse. La questione non era più chi controllava i rapporti
di produzione, ma l’avversione totale, conflittuale, senza mediazioni,
al potere costituito. Se il marxismo voleva sostituirsi al capitalismo,
il pensiero post-strutturalista/marcusiano non voleva più avere niente a
che fare col potere stesso, elaborando una forma di individualismo
anti-autoritario che non poteva non incrociarsi col pensiero libertario e
anarcoide soprattutto nel porre l’individuo contro la società organizzata.
Tradotta nella quotidianità, tale
tendenza si concretizzava abolendo ogni divisione organizzativa
riproducibile nei rapporti di gerarchizzazione formale. L’assemblea, simbolo
di organizzazione orizzontale, senza rappresentanti, senza cariche
precostituite, senza dunque quelle formalità in grado di riprodurre
rapporti di potere anche all’interno dei movimenti, veniva posta ad
emblema di una nuova prassi. L’aspetto organizzativo della
mobilitazione, inaggirabile anche per gli studenti del ’68, doveva
fondarsi sull’informalità tanto delle cariche e dei rappresentanti,
quanto dei meccanismi decisionali. L’obiettivo di impedire al proprio
interno quelle tendenze che si combattevano all’esterno, quel potere
costituito divenuto la questione principale dei movimenti studenteschi,
imponeva per coerenza di smantellare al proprio interno ogni forma di
gerarchizzazione, di divisione del lavoro non liberamente accettata,
ogni rappresentanza indiretta. Una condizione facilitata dall’estrema
potenzialità di mobilitazione del soggetto studentesco, disponibile alla
partecipazione totalizzante, all’assemblearismo permanente, all’estrema
orizzontalità, ad ogni ora del giorno e della notte.
Se per la condizione studentesca, nonché
per gli intellettuali “organici” al movimento, il potere era qualcosa
da rifiutare “a prescindere”, così non sembra essere per la società nel
suo complesso. Giungiamo allora al centro della contraddizione ancora
oggi attuale. La società nel suo complesso – non questo o quel gruppo
ristretto – ha bisogno di organizzazione, di divisione dei ruoli, di
articolazione politica ed economica: in sintesi, ha bisogno di un
potere. Il pensiero marxista, cioè la critica rivoluzionaria al potere
capitalista, non chiedeva l’abolizione di ogni potere ma la conquista di
un potere popolare, dei lavoratori, capace di ribaltare il rapporto di
produzione determinato in forma alienata e fondato sul profitto privato.
Era un discorso immediatamente capace di divenire maggioritario, perché
esprimeva il bisogno dei lavoratori non di liberarsi dal potere, ma di
conquistarlo. E in effetti, in una società divisa in classi, l’ipotesi
di una lotta per il potere di una di queste classi non poteva che
egemonizzare ogni orizzonte politico. Direttamente o indirettamente,
tutte le forze politiche che avessero voluto interagire e rappresentare
le classi subalterne dovevano in qualche modo accettare il piano
marxista del discorso, anche per distaccarsene. Il marxismo esercitava
cioè un’egemonia culturale nel vero senso della parola, cioè influenzava
e determinava anche senza volerlo ogni piano del discorso politico,
perché capace di tradurre politicamente un istinto sociale storicamente
determinato, quello della riappropriazione cooperativa della produzione.
Il pensiero post-strutturalista
francese, una parte della cosiddetta scuola di Francoforte, nonché
l’operaismo italiano (sebbene in forme diverse e sebbene stiamo parlando
principalmente delle teorie al servizio del movimento studentesco),
rifiutando il piano del potere, produssero nei fatti una cesura storica
con le classi subalterne, a cui non gli si proponeva più una presa del
potere ma un conflitto continuo e indeterminato con esso, qualsiasi
potere fosse, perché, come recita il verso di uno dei più grandi poeti
italiani del ‘900, non ci sono poteri buoni. Ci sembra allora
situarsi qui la contraddizione filosofica centrale che determina il
minoritarismo congenito di tale pensiero, che purtroppo egemonizza
ancora oggi il discorso politico dei movimenti. Nonostante tutte le
decostruzioni possibili dei meccanismi di potere – alcune peraltro
notevoli e capaci di arricchire il bagaglio teorico del pensiero
rivoluzionario – rimane inevasa la domanda di potere che deriva
dall’organizzazione sociale nel suo complesso. Se la società ha
necessità di un qualche tipo di potere, rispondere a questo bisogno
collettivo rifiutando il piano del discorso costringe il pensiero
conflittuale ad una incomunicabilità di fondo con le masse subalterne.
Capace di convincere i militanti costantemente mobilitati, quindi
predisposti in certo qual modo alla partecipazione politica
totalizzante, tale pensiero non riesce congenitamente ad interloquire
con la popolazione e con le sue fasce popolari, impossibilitate alla
continua partecipazione politica e dunque esigenti forme di
organizzazione sociale basate sulla divisione dei compiti formalizzata.
Parlare di organizzazione allora non comporta solo ragionare della
propria di organizzazione, ma anche di quella generale una volta
conquistato il potere. Comporta, in altri termini, chiarire quale tipo
di alternativa politica rappresentare, come movimenti di classe. La
difficile comprensione di questa alternativa ci sembra essere uno dei
motivi profondi dell’incapacità delle sinistre attuali di andare al di
là del proprio bacino militante, peraltro sempre più ristretto.
Fonte
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