di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Almeno 76 morti,
oltre 200 feriti: questo è il bilancio dell’ultimo massacro
compiuto dallo Stato Islamico nel cuore dell’Iraq. Ieri a violare
Baghdad è stata un’autobomba, fatta esplodere in mezzo al mercato
Jameela di Sadr City, quartiere sciita della capitale.
Subito dopo la strage, la più sanguinosa da un anno a questa
parte, in rete l’Isis ha rivendicato l’attacco: quel camion
frigorifero imbottito di esplosivo, si legge nel comunicato, era
diretto ai miliziani sciiti che nel quartiere di Sadr City hanno la
loro roccaforte. Non solo le Unità di Mobilitazione
Popolare, legate all’Iran, ma soprattutto le Brigate della Pace, il
nome con cui è stato ribattezzato l’Esercito del Mahdi guidato dal
noto religioso sciita Muqdata al-Sadr.
Una carneficina: il giovedì il mercato cittadino è affollato
di famiglie che fanno la spesa in vista del venerdì. Le immagini che
arrivavano ieri raccontavano il terrore: pezzi di corpi portati
via con buste di plastica e cassette della frutta, residenti –
sunniti e sciiti – accorsi per portare in salvo i feriti, ambulanze
e automobili private che facevano la spola con gli ospedali.
Nelle stesse ore, secondo fonti mediche, oltre 20 civili morivano a Fallujah sotto le bombe governative:
il raid compiuto dall’aviazione di Baghdad contro le postazioni
Isis, che da un anno e mezzo controlla buona parte della città –
avrebbe centrato un ospedale pediatrico. Quello che viene
definito dalle cancellerie mondiali uno spiacevole danno
collaterale in Iraq, dove i settarismi interni crescono
a dismisura alimentati da poteri interni e esterni, significa
ulteriore benzina sul fuoco della divisione. Fallujah,
come il resto della provincia sunnita di Anbar, è oggi teatro di
scontro tra i due fronti, quello islamista e quello
governativo-sciita dopo il lancio della vasta operazione per la
riconquista di Ramadi, caduta a maggio. Sul campo, però,
i sunniti sono ancora pochi e male armati: molte comunità non negano
di preferire alla discriminazione del potere centrale la barbara
legge dello Stato Islamico.
E sul fuoco dei settarismi iracheni soffia chi sogna un Iraq diviso:
non è un mistero che gli Stati Uniti accarezzino da tempo l’idea
della trasformazione dell’Iraq in uno Stato federato, diviso per
etnia e per religione. Lo ha ripetuto mercoledì Raymond Odierno,
capo di Stato maggiore uscente dell’amministrazione di Washington: la
riconciliazione tra sunniti e sciiti, ha detto, sta diventando
sempre più difficile da archiviare e la partizione del paese
«potrebbe essere la sola soluzione».
La possibilità di una frammentazione dell’Iraq sembra seguire
i piani di molti attori regionali e globali che vedono nella
divisione del mondo arabo – già spezzettato con gli accordi di
Sykes-Picot – la migliore delle occasioni per controllare meglio una
regione strategica dal punto di vista politico, militare
ed economico. Meglio tanti staterelli a grandi paesi.
In Siria tregua tra Hezbollah e islamisti
Tra chi rischia di più c’è la Siria, oggi solo per un terzo sotto l’effettivo controllo del governo di Damasco.
E tra i poteri che si oppongono alla divisione c’è l’Iran che,
attraverso il sostegno militare e quello diplomatico, tenta ancora
la via della soluzione politica. Mercoledì il ministro
degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, è volato a Damasco
dove ha incontrato il presidente Assad. L’obiettivo è spingere la
comunità internazionale verso la proposta inviata all’Onu da
Teheran (cessate il fuoco, governo di unità e elezioni sotto la
supervisione Onu). Poche ore prima una tregua di 48 ore per
ragioni umanitarie era entrata in vigore a Zabadani, città alla
frontiera con il Libano, tra i combattenti di Hezbollah e i gruppi
islamisti presenti al confine.
A tali proposte nessuno presta attenzione.
Nemmeno la Russia: ieri il ministro degli Esteri di Mosca, Lavrov, ha
ospitato una delegazione della Coalizione Nazionale Siriana per
«aiutare tutti i siriani ad unirsi per preservare il loro paese,
garantirne la sicurezza e impedire che diventi roccaforte del
terrorismo». Un invito che la Coalizione in passato non aveva mai
accettato. Ora si vola a Mosca perché Mosca non ritiene più Assad
intoccabile: dopo averlo difeso, bloccando con il veto risoluzioni
Onu anti-Damasco e impedendo l’attacco militare Usa nel 2012, ora la
Russia siede al tavolo con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, ovvero
coloro che vogliono vedere la testa di Assad saltare. E con la sua la
tenuta dell’asse sciita.
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