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06/09/2015

Non ho che te – Critica politica a un testo da radio


Di Inchiostro

E’ un po’ che manco da questo posto, quindi buongiorno.

Lavorando capita di ascoltare la radio, e capita di ascoltare, volenti o nolenti, i nuovi singoli che vengono spinti dalle case discografiche.
A me della musica – insomma, io ascolto punk, in una canzone non cerco gli arzigogolii di Joe Satriani – importa relativamente, mi piace invece ascoltare il testo.
E’ un paio di giorni che mi soffermo, ogni volta quando la passano, sul testo dell’ultima canzone di Ligabue.
E, devo confessarvelo, mi fa incazzare.
E’ una canzone che parla di un uomo che perde il posto di lavoro.
E ne parla in un modo che a me non piace.

Ho notato due o tre cose – lo so, sono un rompicoglioni – e volevo presentarvele, e magari sapere anche cosa ne pensate.

Ordunque.

Facciamo così, vi incollo qui il testo, e poi lo analizzo.
Così sapete di cosa si sta parlando.

Prima cosa da dire: è l’elogio dell’uomo moderno.
Perché? Chiederete voi.
Perché tutto il testo, tutta la struttura argomentativa è incentrata sul personale e solo su quello.
L’inferno è solamente una questione personale, si dice nella seconda strofa.
Ma perché personale? Perché solo personale? Perché non anche collettiva?
L’inferno è anche dei colleghi licenziati, di chi ti sta accanto. Non sei tu, solo, contro il mondo.
Però, ve lo concedo, in questo caso possiamo ancora accettarlo. Alla fine ogni crisi è personale e ognuno se la vive a proprio modo.

Andiamo oltre.

Terza strofa: che cosa te ne fai di un uomo che non ha un lavoro?
Questa è la parte in cui mi incazzo davvero.
Cosa me ne faccio? Magari lo amo, magari me lo sono scelto quand’ero pischella perché mi regalava, dal punto di vista umano, cose che altri non mi regalavano.
Se un uomo dev’essere solo il suo lavoro, cosa ne rimane, dal punto di vista umano, quando il lavoro viene meno? Mi terrorizza questo concetto. Mi terrorizza e mi fa incazzare.
In questa frase, anche, si può vedere il cambiamento di prospettiva, di percezione politica che gli anni novanta hanno portato con loro: oggi, se perdi il lavoro, la colpa è fondamentalmente tua.
Ogni difetto della struttura, del costrutto, viene fatto passare come difetto dell’individuo.
I giovani sono choosy perché rifiutano contratti da schiavi, i lavoratori di EXPO sono viziati perché osano chiedere di essere pagati, chi perde il lavoro è inadatto al ruolo.
Tutto, sempre, sull’individuo.
Se hai sette master e novantordici specializzazioni, e comunque continuano a non firmarti una merda di contratto, sono capaci di dirti che la colpa è tua, tua che non ti impegni, che non produci.
Io dico fanculo a sto concetto malato.
Dico che bisognerebbe prendere autocoscienza delle situazioni, sapere quanto si vale, saper riconoscere le proprie mancanze, quando ci sono, e le mancanze degli altri.

Cosa te ne fai di un uomo che non ha un lavoro è una prospettiva puramente capitalista.
Tradotto suona come cosa te ne fai di un uomo che non produce?
Tradotto suona come chi non produce è inutile.

Poi, sempre nella terza strofa, viene detto vedessi quanto buio sotto questo sole, ma è molto meglio se non vedi niente.
E questo è il trionfo dell’individualismo emotivo. La concezione malata che si è soli, sempre.
La distorta convinzione di non vivere in una collettività, in un contesto fatto di relazioni.
E’ una spoliticizzazione del personale, un inno all’impotenza.
Eh, è successo, m’ammazzo potrebbe essere la traduzione.
Poi, cazzo, mettiamoci anche il concetto malato dell’uomo che, per forza, dev’essere forte, dev’essere imperturbabile, una roccia inscalfibile. Dell’uomo che deve portare il pane a casa, perché lui è l’uomo e quello è il suo ruolo.
No, non mi piace per nulla questo eroismo costruito per luogo comune.

E veniamo al ritornello.

Non ho che te, non ho che te, che cosa ho fatto per meritarmi tanto?
Folla in visibilio, verrebbe da dire.
Nel mondo di oggi la concezione è che la salvezza la si ottiene tramite la coppia. Due persone contro il mondo. Due persone, sole, contro tutto il mondo.
Non ho che te.
Non è vero, cazzo. Stessi un po’ più attento, ti accorgeresti che hai i tuoi colleghi, che stanno come te. Ti accorgeresti che i sindacati sono una merda, ma che in piazza ci si può scendere lo stesso. Che l’immobilismo in cui ti sei rintanato è un immobilismo che ti hanno indotto, perché ti hanno convinto che collaborare, condividere, dividere non serva a nulla.
Ti hanno convinto che sei solo, togliendoti piano piano i punti di riferimento politici.
Non ho che te è un concetto basato sul fatto che debbano essere gli altri a salvarci, quando invece nessuno salva nessun altro, in questo giochino. Ci si salva da soli, prendendo coscienza di se stessi, delle cose, dei fatti che ci accadono intorno.

Io non capirò mai come cazzo sia possibile dare al sentimento un ruolo che non può avere.
L’amore non risolve le cose, l’amore non cambia la situazione, non porta il pane in tavola, non ti salva.
Credere che l’amore possa fare tutto ciò è il modo migliore per distruggere le relazioni, perché si danno ad altri responsabilità che non possono avere.
Io mi salvo da solo, e posso amarti proprio per questo motivo. Perché non ho bisogno d’essere salvato, ma solo accompagnato, mentre mi impegno per tirare giù tutto.

Credo, in modo confuso, d’aver detto la mia.

Vi lascio una canzone che, allo stesso modo, parla di miseria.
Io la preferisco di gran lunga.
E’, a mio parere, una canzone d’amore sincera, vera.
Forse la più bella mai scritta.
Perché in questa canzone nessuno deve salvare nessun altro.
Vi allego il testo, vi lascio alla musica.

Vostro, in modo verecondo

Inchiostro


Fonte

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