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06/09/2015

Note sull'Enciclica di Francesco, vescovo di Roma

L’enciclica “Laudato si’” è essenzialmente un documento sul mondo, sulla “città degli uomini”: non per niente nelle parti più squisitamente politiche scarne o inesistenti sono i rinvii alle Scritture o alla tradizionale dottrina sociale della Chiesa, ribadendosi, viceversa, l’apertura al “dialogo col pensiero filosofico” (proposizione n. 63) e, aggiungo io, poiché traspare inequivocabilmente dal testo, con le acquisizioni scientifiche. Un testo che indubbiamente si colloca in antitesi non solo al neoliberismo, ma, in qualche modo, al primato, oggi in auge, dell’economia, dell’homo oeconomicus, con una forte  accentuazione antiutilitarista: “si potrebbe parlare della priorità dell’essere  rispetto all’esser utili” (prop. n. 69). 

L’intreccio necessitato, la quasi identificazione tra crisi ecologica, di cui si riscontrano “sintomi di un punto di rottura” (prop. n. 61), e crisi sociale costituiscono il filo rosso che innerva coerentemente, almeno nella sua fase analitica, tutto il discorso. Il punto di rottura per quel che concerne l’“ecosistema umano” può far sì che “le nuove  forme di potere derivate dal paradigma  tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia” (n. 53). Tanto che “dobbiamo cambiare il modello di sviluppo globale” (prop. n.194), consapevoli altresì del fatto che “il salvataggio ad ogni costo delle banche […] riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi, dopo una lunga, dolorosa, apparente cura” (prop. n. 189).

Asserzioni forti, drastiche, come quella espressa, tra le altre, al n. 108: “non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse senza essere dominati dalla sua logica”. E’ il riconoscimento della non-neutralità della scienza e della tecnica (n. 114), e quindi delle forze produttive e del loro sviluppo: punto misconosciuto da certo marxismo volgare che viceversa si vorrebbe “ortodosso”.

Ma prima di procedere su questo terreno, va sottolineata altresì la valenza rivoluzionaria, per quel che capisco, sul terreno teologico, della “detronizzazione dell’uomo”, finora concepito (nei due millenni che abbiamo alle spalle) come scopo ultimo della creazione (“l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio”) e quindi padrone destinato a dominare la natura, a lui sottomessa. Si prende atto che è intervenuta, quasi una nuova colpa originaria (benché incardinata nella storia), una rottura del patto tra l’umanità e Dio. I cenni al riguardo sono ricorrenti, volutamente ribaditi, in parte già presenti nella catechesi (vedi anche prop. n. 61 exeunte). Il non volersi riconoscere come “creature limitate […] ha distorto anche la natura del mandato di soggiogare la terra [ciò che ha trasformato] la relazione originariamente armonica tra essere umano e natura in un conflitto” (prop. n. 66). (Qualcuno potrebbe ovviamente rilevare che questa visione, collocata nella notte dei tempi, è alquanto unilaterale, se non mitizzata: di per sé la natura è madre, ma sa essere anche matrigna).

Dall’analisi e dalla vibrante denuncia dello stato del pianeta e della “società di mercato” (privatizzazioni, sottrazione di beni comuni a vantaggio del profitto) discende una inequivoca denuncia del neoliberismo mercatista, come si è detto, e del ruolo delle multinazionali. E infine una presa di posizione radicale che si spinge fin dove neppure il pensiero della sinistra antagonista osa in genere avventurarsi: una ridefinizione dell’idea di progresso (soprattutto proposizione n. 46) sganciata dal mito tecnologico, fin quasi a sposare le teorie della decrescita (prop. nn. 191-193-194), non senza una stoccata polemica a certo ambientalismo “compatibilista” (prop. 59 e 197, penultimo capoverso).  “L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi di mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente” (n.190).

Tuttavia, quando si scende sul terreno degli obiettivi da perseguire, il carattere politico, oserei dire laico, del testo, traspare altresì, ma stavolta in una valenza negativa, da qualche aporia: come quella che immotivatamente avvalora, “sacralizza” una tendenza in atto (ma non credo nell’universo mondo) alla proprietà della casa (n. 152), il discorso valoriale cede il passo o, meglio, sussume il “realismo” della attualità italiana (occidentale?): l’abitare non si configurerebbe, anche nella prospettiva della lotta alla povertà, preferibilmente tra i “beni comuni”, sottratto dunque alla spirale speculativa della rendita fondiaria?

Le due crisi parallele, climatica e sociale, vengono tradotte sul piano operativo nella “cura della natura e dei poveri” (n. 237): un binomio, a mio avviso, problematico, perché, pur scontando l’accezione amplissima, polisemica, attribuita allo stato di povertà (malattia, disabilità, condizione di orfano ecc.), gli si attribuisce una natura “creazionista”, assumendo alla lettera Pr.22,2 “il Signore ha creato l’uno e l’altro” (il ricco e il povero).

Parimenti, si direbbe che è presente nell’enciclica la figura dello schiavo moderno, in qualche modo legato come vittima, all’illegalità e all’economia criminale (n. 123), mentre sfugge completamente la soggettività, sofferta e oppressa, del salariato. Affermare che, ai poveri, al di là dell’aiuto con il denaro, va offerta “una vita degna  mediante il lavoro” ci riporta ad un topos, tipico dell’età industriale/romantica, anzi della modernità, così generico ed ambivalente, da poter essere stato declinato storicamente tanto in chiave reazionaria (il lavoro come correttivo del peccato e del vizio insito nella plebe e nelle “classi pericolose”) quanto in chiave progressista (il lavoro come autorealizzazione, come mobilità ascendente).

In realtà, il lavoro dipendente (ma anche l’autosfruttamento tipico di tante attività autonome) di per sé non lo si può qualificare unilateralmente come salvifico quanto a conquista di dignità, considerando che nel quadro della globalizzazione competitiva e della deregulation è destinato, oggi come oggi, ad una progressiva compressione e degrado: mero flusso, pervasivo e intermittente ad un tempo, di forza-lavoro; dedizione coatta di corpo e anima.  Il lavoro va liberato, di per sé è anche “male”.

Di contro al valore della solidarietà, la violazione della giustizia distributiva genera sempre violenza (n. 157, penultimo capoverso), il che comporta disordine, nuoce alla coesione sociale: è un male, insomma, sempre e ovunque.  Giudizio sul quale si può convenire o divergere: ciò su cui non si può convenire è l’asserzione  che la violenza venga surrettiziamente assimilata al conflitto, che rompe con la pace sociale (e, ovviamente, con l’amore sociale: n .231), il che si configura come un  giudizio ideologico, non certo evangelico (“pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione”: Lc. 12). In questo senso, che cosa significa affermare che “l’unità è superiore al conflitto” (n. 198, ultimo capoverso)?   

Ciononostante, talora, contraddittoriamente, si fa riferimento alla “resistenza” (n. 111) di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico”. E a “lotte”: “camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (n. 244).

Rispetto alla radicalità e alla perentorietà dell’analisi, qui si manifesta un’aporia da sciogliere, ma anche uno spazio positivo da riempire: sarà la pratica di massa del “popolo di Dio”, cui il messaggio è indirizzato, a doversi incaricare di “oltrepassare il limite”.

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