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16/07/2018

Iraq - Manifestazioni di piazza duramente represse

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Hanno bloccato l’aeroporto di Najaf, minacciato di fermare la produzione di greggio. Sono scesi nelle piazze di Bassora per arrivare fino a Baghdad: a due mesi dalle elezioni parlamentari, gli iracheni portano in strada la frustrazione che quel voto non ha assorbito.

Senza governo e senza vie d’uscita dall’impasse politica, con il prezzo dei beni di prima necessità che cresce insieme al tasso di disoccupazione, i continui blackout elettrici che rendono impossibile sopportare i 48 gradi dell’estate irachena, da una settimana migliaia di persone stanno protestando nelle grandi città sciite, Bassora, Nassiriya, Najaf, Baghdad, Karbala, Dhi Qar.

Ieri è stato il giorno peggiore: nella provincia di Maysan le forze irachene hanno aperto il fuoco sulla folla che aveva preso di mira gli uffici del partito di governo Dawa e quelli dell’organizzazione sciita filo-iraniana Badr, uccidendo due manifestanti. Un’altra vittima si era registrata venerdì.

A Dhi Qar i manifestanti hanno tentato di entrare nella casa del governatore. E ieri il governo, ancora guidato dal primo ministro al-Abadi, ha allertato l’esercito. Uomini del controterrorismo sono stati dispiegati a Bassora a protezione dei giacimenti petroliferi, nei giorni scorsi minacciati dalle tribù locali: o assumono i giovani disoccupati al posto degli impiegati stranieri, è la richiesta dei capi tribali della città, o fermiamo la produzione.

Lo hanno fatto per qualche ora: hanno bloccato le strade per il porto di Umm Qasr e da giorni presidiano i giacimenti a Bassora, un’area dove 800 società petrolifere producono tre milioni di barili di greggio al giorno ma dove non esiste una rete fognaria.

La risposta è debole: alla rabbia per l’assenza di intervento, di elettricità nonostante le ricchezze energetiche, di lavoro nonostante la presenza di compagnie petrolifere, Baghdad replica oscurando internet per impedire alle persone di organizzarsi e inviando l’esercito.

A dare solidarietà ai manifestanti è stato nei giorni scorsi l’Ayatollah Ali al-Sistani, massimo leader sciita del paese: «Non è giusto né accettabile che questa generosa provincia sia una delle aree più miserabili dell’Iraq», ha detto tramite il suo portavoce per poi chiedere al governo «di prendere seriamente le richieste dei cittadini». Secondo produttore di greggio dell’Opec, sull’Iraq pesa un tasso di disoccupazione di oltre il 20%, che si alza soprattutto tra i giovani: un dato importante tenuto conto che il 60% della popolazione ha meno di 24 anni.

E mentre le autorità sono impegnate dalla scorsa settimana nel riconteggio dei voti delle elezioni del 12 maggio, bloccando di fatto i tentativi di coalizione del vincitore (momentaneo) Moqtada al-Sadr, il paese resta appesantito dalle politiche degli ultimi 15 anni, quelli post-invasione Usa: corruzione diffusa, mancanza di servizi, carenze infrastrutturali.

Non va sottovalutata la geografia della protesta: sta investendo l’Iraq sciita, la maggioranza della popolazione che non ha subito la stessa marginalizzazione della comunità sunnita dopo il 2003 ma che è pienamente consapevole della disuguaglianza che attanaglia il paese. Aveva provato a denunciarla con il voto. Ma per ora è tutto congelato.

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