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07/08/2019

Hong Kong, la normalizzazione non sarà un pranzo di gala


Non accennano a diminuire le proteste ad Hong Kong, anzi paiono radicalizzarsi.

È da ritenersi, come già fatto in precedenza che la chiave di lettura degli eventi da noi adottata non è quella consistente nel “popolo in lotta per la democrazia (ovviamente quasi sempre intesa in senso occidentale) contro il governo tirannico” di turno, propinata come un disco rotto da ambienti della sinistra occidentale in ogni episodio di scontro in Asia o in Africa; d’altronde, non è nemmeno possibile leggere quanto sta accadendo come una rivolta portata avanti da pochi elementi elitari e/o teppisti manovrati direttamente dall’Occidente contro il Governo di Pechino, espressione reale della maggioranza della popolazione di Hong Kong.

Quello che sta accadendo è una lotta vera tra segmenti importanti della popolazione di Hong Kong (una delle città più ricche del mondo secondo numerosi standard statistici) e il Governo di Pechino; i primi non vogliono rinunciare pacificamente ai privilegi accumulati per anni in quanto, da un lato, sono comunque legati alla locomotiva economica cinese e, dall’altro, beneficiano di ampi margini di autonomia riguardo le possibilità di legarsi al grande capitale finanziario di marca occidentale grazie al sistema politico/economico “Una Cina, due sistemi” in vigore nella città. Pechino, invece, è risoluta nel voler far rispettare la road map che prevede per il 2047 la fine di tali privilegi e il completamento del processo di decolonizzazione con il pieno ristabilimento della sovranità su Hong Kong.

Rispetto a ciò, con il radicalizzarsi dello scontro, stanno venendo rapidamente meno le congetture iniziali sui motivi della rivolta, i quali venivano propagandati come limitati al malcontento verso qualche singolo provvedimento di legge o amministratore sgradito perché troppo filo-Pechino; a questo punto è chiaro che l’oggetto del contendere riguarda direttamente quanto è previsto dovrà succedere nel 2047.

Con il passare del tempo, infatti, lo sfoggio dei simboli dell’era del colonialismo britannico (cui ultimamente si è aggiunta alche la bandiera yankee) si fa sempre più pressante, mentre le richieste “parziali” di ritiro definitivo della cosiddetta “legge sull’estradizione” e di dimissioni della Governatrice Cheng Yuet-ngor (alias inglese Carrie Lam) vengono relegate sempre più in secondo piano, per far posto, di fatto, a quella “definitiva” di autonomia totale, ovviamente travestita da “richiesta di democrazia”.

Le cancellerie occidentali alternano dichiarazioni di aperto appoggio alle proteste, come quelli provenienti da parte inglese, a dichiarazioni di neutralità apparente, come quella recente di Trump, il quale ha apertamente affermato che “le rivolte in atto ad Hong Kong sono un affare interno alla Cina”; al di là di ciò, lo sfoggio di simboli colonialisti in atto nelle piazze va visto più come una richiesta di aiuto che come una dimostrazione dell’eterodirezione delle dimostrazioni; al momento, dal punto di vista delle forze in campo, gli occidentali non costituiscono un fattore decisivo sul territorio della potenza cinese.

Per venire alla cronaca, il 5 agosto i vertici dell’Amministrazione di Hong Kong hanno tenuto una attesissima conferenza stampa, dalla quale ci si aspettava di carpire la cosa più importante in questo momento: ovvero se vi fosse l’intenzione, da parte loro, di chiedere l’intervento militare di Pechino per sedare le rivolte, aprendo un’altra fase dello scontro, gravido di conseguenze sia interne, sia internazionali. Fino ad ora, infatti, è intervenuta solo la polizia locale, la quale si è limitata ad utilizzare strumenti “convenzionali”, ovvero manganelli e lacrimogeni (non è chiaro se siano state utilizzate le pallottole di gomma) o, in molti casi, ha lasciato fare anche di fronte ad azioni di blocco e di occupazione prolungate.

Ebbene, né Cheng Yuet-ngor, né gli altri due funzionari intervenuti hanno fatto cenno all’eventualità della richiesta d’intervento al governo centrale; i tre hanno concentrato gran parte della conferenza stampa nell’enumerare i disagi portati dagli innumerevoli blocchi stradali, voli cancellati e collegamenti saltati: la città è stata descritta come completamente ostaggio “delle rivolte di elementi radicali”, che stanno mettendo in ginocchio i trasporti pubblici, impedendo ai lavoratori di recarsi al lavoro e commettendo azioni di vandalismo, anche mediante l’uso di esplosivo; di conseguenza, i datori di lavoro sono stati invitati a non sanzionare i dipendenti che non dovessero riuscire a recarsi in tempo al lavoro.

Al momento, particolare non di secondo piano, solo i media occidentali motivano il collasso dei trasporti con gli scioperi che sarebbero in corso; in realtà, esso pare dovuto esclusivamente ai blocchi.

Un altro passaggio rilevante della conferenza stampa è riferito allo stato di difficoltà in cui verserebbe l’economia di Hong Kong, già cresciuta soltanto dello 0,6% nel primo trimestre, risultato che costituisce un record negativo degli ultimi dieci anni. Ebbene, a causa delle proteste, il Ministro dell’Economia di Hong Kong prevede addirittura un decremento del PIL nei prossimi semestri, andando a gravare su una situazione già incerta per via di altri fattori esterni, come la politica dei dazi di Trump, con la relativa risposta del Governo Cinese, e una possibile hard-Brexit. In questo caso, il rappresentante dell’amministrazione di Hong Kong, cerca, come si vede, di marcare una certa neutralità rispetto a Pechino e occhieggia alla piazza finanziaria.

Accanto a questo cahiers de dolence, rivolto, al di là dei passaggi sui lavoratori, soprattutto agli investitori internazionali, affinché richiamino all’ordine i settori ad essi legati che costituiscono il nerbo della protesta, Cheng Yuet-ngor ha comunque alzato il tiro per quanto riguarda gli avvertimenti, pur non facendo menzione della possibilità di appellarsi a Pechino: ha messo da parte la retorica della comprensione delle ragioni della protesta e gli accenni alle possibilità di dimettersi e si è detta pronta a lavorare affinché nelle strade venga ripristinata completamente l’autorità dell’amministrazione; ha, inoltre, chiarito, di essere consapevole che le proteste hanno lo scopo di minare alla base la giurisdizione “Una Cina, due sistemi” e non hanno richieste parziali ragionevoli.

Da questa conferenza l’impressione che se ne ricava è quella del possibile instaurarsi di una situazione di stallo, in cui le proteste, non conosceranno una risacca, ma potrebbero durare a lungo, perpetuando l’attuale condizione in cui versa la città. Questo perché l’amministrazione di Hong Kong da la sensazione di volersi giocare una partita in parte autonoma non solo apparentemente, ma anche sostanzialmente rispetto al governo centrale, al quale farà di tutto per non appellarsi.

Tuttavia, in questo momento esso non pare in grado di ristabilire la propria autorità sulla città, in quanto, come i manifestanti, è in ultima istanza subalterno alla piazza finanziaria.

Da parte sua, il governo centrale interviene sulla questione mediante dichiarazione di esponenti di secondo piano, dalle quali traspare comunque la possibilità di poter intervenire con la forza sulla città nel caso in cui l’amministrazione autonoma ne facesse richiesta, come previsto dalla Costituzione; neanche gli organi del Partito Comunista Cinese più noti vanno al di là di tali enunciazioni di principio. È, comunque, da verificare per quanto tempo Pechino potrà sopportare una situazione di stallo del tipo di quella sopra menzionata, prima di dover forzare sui governatori di Hong Kong per chiedere l’aiuto militare.

Quel che appare evidente è che si allontana pericolosamente la possibilità che le proteste abbiano una risacca spontanea o vi sia una soluzione dialogata almeno con una parte di essa.

Insomma, neanche il sacrosanto completamento del processo di decolonizzazione di Hong Kong per il partito Comunista Cinese si rivelerà un pranzo di gala...

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