Quando si deve affrontare un problema “fisico” e non finanziario, l’Unione Europea diventa prodiga in fatto di compromessi ed esenzioni.
È il caso eclatante delle “riduzioni dei consumi di gas” – obiettivo: 45 miliardi di metri cubi in meno – per far fronte ai tagli alle forniture provenienti da Mosca come “contro-sanzioni” a quelle euro-atlantiche. Ovviamente narrate come “volontà di colpire Putin” quando è evidente che si è stati colpiti in un punto sensibile.
Inizialmente la Commissione aveva fissato l’obiettivo di risparmio al 15% uguale per tutti, come fa di solito per le sforbiciate “consigliate” alla spesa pubblica dei diversi paese. Solo che ha dovuto fare subito i conti con l’opposizione generalizzata, spesso molto ben sostenuta da ragioni fisiche inoppugnabili come la diversa “connessione” con i gasdotti provenienti da Est.
E dunque è cominciata la sagra delle “eccezioni” che rendono il provvedimento – comunque emesso dopo lunghe trattative – poco più di buone intenzioni affidate alla buona volontà.
Nessuno ha trovato nulla da eccepire al fatto che i tre paesi-isola (Malta, Cipro e Irlanda) dovessero ricevere un trattamento meno invasivo, viste le difficoltà di garantire con continuità il rifornimento.
Ma subito dopo si sono fatti avanti praticamente tutti con le motivazioni più varie. L’Italia, per esempio, si è vista riconoscere un diritto a una riduzione inferiore in quanto paese che è anche “esportatore di gas” (sul nostro territorio passano gasdotti che vanno anche altrove), col ministro Cingolani gongolante perché la rinuncia sarebbe ora a solo 7%, più o meno quanto programmato autonomamente.
In cambio, se altri paesi si troveranno a corto, Roma dovrà assicurare un “contributo” a chi ne avrà bisogno.
Poi ci sono i Baltici, quelli fisicamente “attaccati” alle tubature o alla rete elettrica russa che, ovviamente, non sono in grado di ridurre alcunché (se non spegnendo la luce).
Ma possono pretendere una esenzione anche tutti quei paesi che dimostrano di usare il fossile per la produzione di energia elettrica, per alcune industrie critiche, ma anche per riempire gli stoccaggi che tornerebbero utili per la solidarietà in caso di stop di fornitura dalla Russia.
In pratica, nessuno sarà effettivamente in condizione di rispettare la soglia del 15%. Ma comunque – per le popolazioni e in parte anche per le industrie – ci sarà da “fare sacrifici”, riducendo il riscaldamento e quant’altro i singoli governi si faranno venire in mente.
L’Ungheria si è comunque opposta (non ha alternative al gas russo), ma non ha potuto mettere il veto perché su queste materie basta la maggioranza dei due terzi.
Naturalmente i vertici UE assicurano che le esenzioni “non sono automatiche”, ma dovranno essere “dimostrate”. Giochi di parole senza effetti pratici.
Lo dimostra anche un secondo cambiamento importante rispetto al provvedimento proposto in un primo momento: la legge durerà solo un anno (e non due) e lo stato di allerta, che rende obbligatoria la riduzione, potrà essere approvato (su richiesta della Commissione o di almeno cinque Stati) solo dal Consiglio a maggioranza qualificata.
Ci sarà insomma grande margine per aggirare una misura più utile alla propaganda che non al raggiungimento degli obiettivi dichiarati: “L’approvazione di oggi è stata un passo decisivo contro la minaccia di Putin. Faremo tutto il necessario (in inglese ‘whatever it takes‘) per garantire la sicurezza di approvvigionamento e proteggere i nostri consumatori”.
E ovviamente a nessuno viene in mente la soluzione più semplice: avviare un’iniziativa di pace smettendo di seguire le indicazioni (e gli interessi) di Washington...
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