Il disastro combinato al Senato, nel “giorno più lungo” della legislatura, è arrivato inatteso per tutti.
Per i protagonisti diretti, per gli analisti i servitorelli dei media che ci avevano ammorbato per oltre 18 mesi sulle grandiose doti dell’ex presidente della Bce (nonché della Banca d’Italia, ex vicepresidente di Goldman Sachs e prima ancora direttore del Tesoro sotto il governo di Giuliano Amato), per i poteri sovranazionali che nei giorni scorsi avevano fatto sentire la propria voce e già ieri hanno cominciato a “muovere” i mercati finanziari per sottoporre questo paese ad una “cura da cavallo” pronta da anni.
Ha sorpreso parzialmente anche noi, perché da dieci anni a questa parte (a far data dal governo Monti, installato di forza anche dallo stesso Mario Draghi, con la sua lettera dell’agosto 2011) ogni pressing del capitale multinazionale e delle istituzioni sovranazionali (europee e statunitensi) si era sempre concluso con la resa della classe politica nazionale, espressione particolarmente inconsistente di una classe sociale: la piccola e media borghesia, produttiva o commerciale o delle professioni.
Stavolta – almeno in apparenza – lo scontro è finito pari. La pressione esagerata avrebbe provocato una reazione di rigetto da parte di un Parlamento già ridotto a “bivacco di manipoli”. Ma è un’immagine troppo fasulla per essere attendibile.
Sarebbe infatti ridicolo parlare della crisi politica di un paese del G7 come di una faccenda di “psicologie individuali”, ripicche e ambizioni tra singoli uomini o consorterie clientelari. Chi viene “delegato alla politica” fa comunque parte di una classe o di una sua frazione, di un insieme di relazioni, ne rappresenta gli interessi e nel gioco politico deve riuscire a mediarli con quelli di altre frazioni.
Questa capacità di mediazione, ad alto livello, chiaramente non esiste in nessuno dei soggetti principali di questa “frittata”. Non c’è nel protagonista principale, quel Mario Draghi che avrebbe dato prova di non conoscere la differenza tra guidare una banca (centrale o d’affari) e dirigere un paese.
Troppo violenti i suoi due discorsi contro (quasi) tutte le forze politiche che hanno fatto parte del “governi di unità nazionale”. Troppo insistito il suo continuo indicare i punti su cui ha dovuto respingere (sempre con successo) le pressioni di singoli leader. Troppa ironia verso chi in tv solidarizza con le proteste contro i provvedimenti che ha controfirmato.
Toni che hanno ricordato le frustate distribuite da Giorgio Napolitano quando è stato ‘convinto’ ad accettare un secondo mandato temporaneo come presidente della Repubblica.
Discorsi che sono apparsi a molti mirati in modo intenzionale a farsi sfiduciare, e a consegnare a Mattarella un quadro talmente devastato da obbligarlo – se mai fosse stato riluttante – a sciogliere le Camere.
A vedere da fuori il penoso spettacolo si dovrebbe concluderne che Draghi è ed era inadeguato al compito, un uomo sopravvalutato e calato in un ruolo non suo. Oppure il killer mandato a “riscuotere i sospesi”, ovvero a dissolvere quel che restava della più ridicola classe politica d’Europa...
Nel giro di soli cinque giorni è infatti riuscito nel “miracolo” di trasformare una maggioranza apparentemente solidissima (pur senza la residua pattuglie grillina, dopo la scissione di Di Maio) in un pulviscolo, inutile pure per fare castelli di sabbia.
Fino all’assurda votazione di una richiesta di fiducia su una frase scritta da Pierferdinando Casini – Casini... – con cui il Parlamento avrebbe dovuto approvare la propria messa in mora. Meno di un terzo dei senatori gli hanno concesso questa “fiducia”, autodichiarandosi inutili.
E stamattina si replica alla Camera...
L’insistenza con cui ha cercato – fin dall’inizio – di sottrarre il suo governo dalle “pretese” di partiti senza grandi visioni o progetti avrebbe prodotto insomma, alla lunga, un’ostilità prima sorda e poi urlata. Dimostrando che un “governo di unità nazionale” può esistere solo se i partiti che lo compongono accettano di smaterializzarsi, accettando tutto in toto, come fa il PD.
Quella stessa incapacità di mediazione tortura del resto anche le cosiddette “forze politiche”, in realtà comitati elettorali ferrati solo nella “comunicazione” e nell’occupazione di posizioni di (relativo) potere. Chiunque abbia assistito al dibattito in Senato ha potuto cogliere i “ristretti orizzonti” con cui ogni formazione ha affrontato la frusta di colui che li aveva guidati per un anno e mezzo.
Nessuno che abbia colto qualcosa di più grande – e pericoloso – dei propri interessi particolari, già proiettati sulle prossime elezioni politiche. Nessuno che abbia saputo tenere conto (o denunciare) delle vere e proprie minacce “extra-istituzionali” che Draghi aveva seminato nel proprio discorso.
Si può dire che proprio lo spappolamento voluto di tutte le forze politiche, con l’obiettivo di creare una “classe politica nuova”, ha finito per produrre l’impossibilità di trovare una qualsiasi ragione di coesione.
Ieri questo spappolamento è proseguito con una nuova semi-scissione dei Cinque Stelle (un po’ ridotta rispetto alle previsioni, perché il grosso del distacco dovrebbe riguardare i deputati, più che i senatori). Con annunci di rottura all’interno dei berlusconiani. Con divisioni nella Lega che solo un eufemismo può indicare come “diversità di vedute”.
Accettare o perseguire l’uscita di scena di Draghi, dal punto di vista delle varie frazioni borghesi minori, poteva avere un senso in presenza di una “fronda” organizzata, pronta a sostituirlo con un altro progetto, altri programmi, altri leader.
E invece è accaduto perché, in buona sostanza, nessun comitato elettorale vuole pagare per intero il prezzo di misure impopolari o apertamente indifferenti al malessere dei più (nulla contro l’inflazione, a parte una “mancia” una tantum di 200 euro; niente sugli aumenti salariali, solo fumo sul “cuneo fiscale”, ecc.). O magari perché si è sentito pubblicamente trattato per quel che è: un ammasso di “nani e ballerine” (citazione da ‘Prima Repubblica’), proiettati in ruoli di cui ignorano le funzioni di base.
Così non c’è più il governo dell’Unione Europea e della Nato, presieduto dal più autorevole “garante” indicato proprio da quei poteri. Ma non ce n’è neanche un altro. Né nessuno sa come e su cosa cucirlo insieme, e in quanto tempo.
Ma se vediamo lo scontro che si svolge sotto i nostri occhi come un conflitto interno alla classe dirigente – tra un grande capitale che si muove senza tener conto dei confini nazionali (al massimo di quelli della Nato) e figure “imprenditoriali” decisamente più “locali” (e marginali) – allora ci si accorge che dalla parte del primo un disegno di ampia portata esiste, e da anni, per nulla segreto o “inconfessato”.
Un disegno perseguito sempre – ma con alterni risultati – attraverso i trattati e le pressioni dei “mercati”, fino a consigliare direttamente la nomina di un proconsole come Draghi, incaricato di realizzare “con le buone”, dall’interno, quelle trasformazioni del modello economico e istituzionale altrimenti da imporre “con le cattive”, a suon di direttive e procedure di infrazione UE.
E infatti le tempeste che ora si addensano alle nostre porte sono infinite. Il debito pubblico è salito ancora, a circa il 160% del Pil. I conti con l’Estero, fin qui sempre positivi, sono in caduta libera a causa delle sanzioni emanate contro la Russia, ma tornate come un boomerang sulle economie che più scambiavano con Mosca.
L’inflazione è galoppante da ormai un anno, con sempre nuovi record, e l’aumento dei tassi di interesse che proprio stamattina la Bce deciderà potrebbe essere per l’Italia devastante.
Sempre su questo fronte, il promesso “scudo anti-spread” diventa aleatorio, in assenza di un “garante” affidabile per Francoforte, Bruxelles e Berlino.
C’è poi la crisi energetica, con l’Unione Europea che ordina di tagliare del 15% i consumi di gas nei prossimi mesi (lasciando ai singoli stati il compito di decidere come).
E su tutto incombe la guerra in Ucraina, che implica vincoli con Washington che nessuno sa al momento come gestire, se non obbedendo come al solito e più del solito.
Difficile trovare qualcuno che sappia come gestire questa situazione, oltretutto sapendo bene che in autunno tutta una serie di malesseri sociali arriveranno per forza di cose a manifestarsi nelle piazze e nei luoghi di lavoro.
Il peggio poteva arrivare anche prima e “l’ombrello di Draghi” aveva rinviato le strette peggiori. Ma adesso tutto procederà come doveva andare, magari con la consulenza dello stesso Draghi per fare più male là dove si può.
La classe dirigente nazionale – che comprende l’imprenditoria e la classe politica – è assolutamente al di sotto del livello dei problemi da affrontare.
Anche andare alle elezioni, in queste condizioni, è complicato. La riforma del Parlamento e la diminuzione dei parlamentari di un terzo richiede il ridisegno dei collegi elettorali (bisogna eleggerne 400, non più 630) e magari della stessa legge elettorale. Ma non ci sarà né il tempo, né un accordo per farlo. E il risultato – prevedibilmente – sarà un pasticcio che consegnerà un nuovo Parlamento senza forma e spina dorsale. Pronto – per evitare guai peggiori al paese – ad essere consegnato a un nuovo “governo tecnico”.
Magari ci sbagliamo. E magari tocca pure augurarselo...
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