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04/11/2024

Contrordine, neoliberisti… torniamo al petrolio!

Da più parti, ma in genere con la partenza da qualche centrale economico-finanziaria, o da qualche politico di punta, sta insistentemente prendendo piede una retorica che funziona più o meno così: “vi hanno preso in giro, le politiche che puntavano a spegnere le centrali a gas e carbone, il nucleare, e sostituire i mezzi a benzina o a gas con mezzi elettrici e generazione rinnovabile sono state promosse per fare gli interessi di pochi e avvantaggiano solo la Cina. Bisogna tornare al nucleare e smettere di demonizzare le fossili”.

Come sempre la cosa si può guardare da molti angoli. Abbiamo avuto una prima fase, negli anni Settanta, in cui il Club di Roma era parte di una campagna per superare la industrializzazione e decentrarla (anche per ragioni politiche); una seconda, negli anni Novanta, in cui la crescente mondializzazione e la retorica della modernizzazione spingeva per il “piccolo” e le ragioni della natura e della salute sono venute in primo piano; una terza, negli anni Dieci, in cui si è affermata la retorica delle rinnovabili e della transizione energetica.

Nella tendenziale stagnazione post crisi 2007 si è trattato anche di una politica di impiego forzoso del capitale, una sorta di keynesismo verde. Supportato politicamente ed accompagnato dal capitale finanziario (che va come una mandria cieca dietro ai manzi di punta).

Poi ci sono state orde di propagandisti che in buona o cattiva fede hanno costruito nuvole comunicative. Quindi ci sono stati politici che ne hanno approfittato per dare addosso ai poveri e ignoranti (perché dovevano distinguersi, prendendo i voti nelle Ztl). Tutto vero, lo abbiamo detto per un decennio.

Però ora sta cambiando, e ancora una volta dall’alto. Abbiamo ancora orde di propagandisti che, però, questa volta spingono per tornare al ‘business-as-usual’. Perché? Come mai arriva il contrordine dagli alti piani di New York e della City?

I grandi fondi rinculano perché (diretti politicamente come sono) hanno “scoperto” che la filiera si fa in Cina e quindi bisogna tornare a Oil & gas (dopo averci tolto quello Russo). Si può dire così, semplificando, ma dicendo l’essenziale: “il sistema finanziario-industriale-militare anglo-americano, ora che ha deciso di precipitare il mondo nella Terza Guerra Mondiale (forse non solo “a pezzi”), sceglie di ritornare al vecchio caro Oil & Gas, con aggiunta del Nuke, con buona pace della nostra salute e di quella del pianeta, per non aiutare la crescita green della Cina”.

Insomma, La verità è che ora, in guerra, servono le fossili e serve il nucleare perché le rinnovabili si fanno in Cina. È mobilitazione di guerra.

Al suo punto zero il problema dell’Europa è che ha una bolletta energetica carissima, poche risorse energetiche fossili (e in esaurimento) e dipende interamente dai suoi vicini (Russia, Medio Oriente) o “amici” (USA). E il dramma, per certe centrali di potere economico-finanziario e politico-militare è che oggi la generazione da rinnovabili, grazie alle immense economie di scala cinesi, è il modo più economico di produrre energia, e con crescente distacco.

Naturalmente ci sono una serie di problemi: è energia a bassa densità, serve molto territorio; se non si fa idrogeno è difficile da stoccare (anche se si migliora su questo, ma ancora in Cina).

Ma il punto chiave è semplice: tutta la filiera è in Cina; usarla riduce la nostra dipendenza dagli Usa o dai posti da questi controllati. In secondo luogo, oltre al gas di fracking i nostri “amici” ci vogliono vendere le centrali nucleari (giocattolini costosissimi e sempre dipendenti dalla manutenzione).

Stando alla sostanza, al fondo, se oggi cambia la narrativa non è perché “si fa in Cina” (è sempre stato così), ma perché ora con la Cina vogliamo andare in guerra. Questo è il macrofatto. Gli altri restano, il clima cambia, le fossili da noi continuano a non esserci nella quantità e qualità necessaria, il contesto tecnologico resta. Ma siamo in guerra, bisogna cambiare discorso e, soprattutto, non comprare dai nemici.

Più in profondità, sono appena stato a Shenzen, Wuhan e Pechino (ospite di Huawei), e capisco bene il punto. Sono dieci anni avanti e dal punto di vista tecnologico anche di più, vanno quindi fermati. Peccato che così saremo solo noi a restare indietro (se sopravvivremo).

La Cina ha città enormi che noi ci sogniamo, una visibile ricchezza diffusa, nessun povero, campagne come quelle lombarde o emiliane, enormi infrastrutture energetiche molto più avanzate delle nostre, fabbriche che sembrano cliniche, società come la Huawei dove gli utili sono tutti distribuiti ai lavoratori ma il controllo è dello stato (una pseudo-cooperativa), etc. Vanno assolutamente fermati per i nostri “amici” (e soprattutto per gli ‘amici’ del grande capitale finanziario, dato che sono un pessimo esempio).

Quel che è cambiato, e ci porta alla guerra, è che è finita l’illusione di guidare l’innovazione e, tramite questa (i brevetti), l’estrazione di valore dalla periferia cinese. Ormai tutti o quasi i brevetti sono cinesi. Le macchine utensili sono per lo più cinesi, adesso anche i microprocessori; in tecnologie chiave come le batterie sono superiori sia sul prezzo sia sulla tecnica. E accelerano.

Quindi mentre prima le fabbriche erano in Cina, ma il valore aggiunto defluiva nei paradisi fiscali (via Hong Kong, Singapore o Taiwan, Irlanda, Svizzera o quel che vuoi), ora il valore aggiunto resta in Cina in gran parte.

Questo è inaccettabile per i nostri “amici” nelle alte torri.

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