In Italia, da tempo, il “watchdog journalism” si è tradotto in cane da guardia del potere costituito, una prassi che ormai pervade la Rai nell’era di TeleMeloni, calco delle reti berlusconiane.
Entrambi i network ormai sono diventati il circolo ricreativo di redattori dei giornali di destra, di proprietà di Angelucci, ovviamente finanziati col denaro pubblico.
La loro missione è spostare il dibattito dalle cause agli effetti, e da questi alle conseguenze.
Decontestualizzare gli episodi dal quadro generale per piegarli alle necessità politiche contingenti è sempre stato il sestante della propaganda della destra.
Un maledetto trucco col quale si sono giustificate le nefandezze della storia e dell’attualità politica: dal fascismo al colonialismo, dal revisionismo storico all’imperialismo, dallo sfruttamento alla repressione, dal razzismo al sessismo.
Il discorso pubblico viene forzato, eterodiretto e gestito dall’alto di specifici interessi lobbistici.
“Non è più il capitalismo, ma qualcosa di peggio – dice McKanzie Wark – La classe dominante del nostro tempo non governa più grazie al possesso dei mezzi di produzione, come facevano i capitalisti. Né attraverso il possesso della terra, come facevano i proprietari terrieri. La classe dominante del nostro tempo possiede e controlla l’informazione”. (“Il capitalismo è morto, il peggio deve ancora venire”, Mackenzie Wark, Nero 2021).
Questo spiega perché la politica oggi si fa sui social e sui mass media, invece che nelle istituzioni democratiche e nella realtà sociale.
È, dunque, una forte tentazione quella di ribattere colpo su colpo ai latrati di quella muta di giornalisti cani che fanno la guardia alle nefandezze del governo, della Ue, della Nato, di Israele.
Ma in questo groviglio di personalismo, narcisismo e servilismo, il dibattito è sceso a un livello talmente basso da rendere inutile ogni possibilità di dialogo.
Anche perché il metodo si è specializzato, ha mutuato dai social il famoso paradigma del “bene o male purché se ne parli”, metodo che consiste nell’ingaggiare la polemica, alimentarla con la contrapposizione in modo da tenere impegnata l’attenzione il più a lungo possibile sulla polemica stessa, invece che sulla realtà dei fatti.
I cani da guardia del potere sono affamati di polemica, che è la chiave del successo del talk show: odio e audience.
D’altronde, è lo stesso livello che esprime il committente, vale a dire la macchina propagandistica del governo. Livello ormai assunto come linea di condotta anche dall’opposizione parlamentare, nonché dai rappresentanti delle cosiddette parti sociali.
Tuttavia, ci sono urgenze politiche che non possono aspettare, segnali economici che vanno compresi, ricchezze sociali che vanno raccolte. I partiti hanno chiuso le sezioni, i loro dirigenti vanno in tv.
Se il sistema politico italiano avesse avuto in sé i tanto decantati anticorpi, gli eredi del Msi non sarebbero andati al governo, a braccetto con i reduci del berlusconismo e del leghismo.
Fuori dai polveroni, la situazione sociale, la condizione materiale, il lavoro povero, i livelli di strapotere corporativo, la neutralizzazione dei diritti per liquidare gli ultimi residui di stato sociale, devono mantenere saldo il loro posto in cima alla nostra agenda.
Non solo perché su questi terreni la propaganda del neo-regime è flaccida, gli specchi sono difficili da essere arrampicati, le bugie vengono presto a galla.
Soprattutto, perché sono essenziali a guardare avanti, a puntare l’attenzione sugli aspetti critici di un sistema che sta sbandando nel fango reazionario, diventando ogni giorno più ferocemente classista, corporativo, intollerante, bellicista.
“Meglio i tagli ai servizi pubblici che la vittoria di Putin”, si è sentito dire a Londra. “L’Europa deve diventare una potenza militare”, hanno fatto eco da Parigi. Il neoliberismo in affanno, si alimenta di bellicismo.
Siamo a un salto di qualità dei fattori che spingono alla famigerata “distruzione creativa”. Sul piano internazionale, il capitalismo finanziario occidentale in declino vuole sottomettere l’economia reale in ascesa in oriente, manu militari.
Contemporaneamente, il bellicismo spinge all’aggressione delle regole politiche, economiche e sociali, attacca le stesse consuetudini democratiche.
Le guerre in atto sono dunque la stessa guerra, la guerra è una ed è la pericolosa variabile dipendente dall’accumulazione che pretende il superamento delle attuali norme con cui si governano le contraddizioni interne ai paesi occidentali.
Abbiamo visto i manganelli nelle città italiane ed europee, li abbiamo visti nelle Università degli USA. È ormai un dato di fatto: la lenta fine dello Stato sociale equivale alla progressiva fine dello Stato di diritto.
Se è vero che i pericoli sono forti, tanto da essere già nei fatti, è altrettanto vero che essi non si combattono ponendosi come obiettivo il ritorno alla dialettica precedente.
Non basta prendere atto che il vento è cambiato, che è un vento atlantico, un’aria cattiva di sfruttamento, di repressione, di menzogna, di rivalsa revisionista, di guerra per procura, di sterminio, di sovranismo. Non è solo vento, è già tempesta.
La realtà che abbiamo conosciuto finora è stata nei fatti già superata da una nuova forma di rigidità del comando sul piano interno, di egemonia imperialista e neocolonialista sul piano internazionale.
Prenderne atto significa non perdere tempo in piccole tattiche difensive, ma ripensare, riorganizzare, riprogettare una nuova visione delle contraddizioni e di conseguenza una nuova pratica politica.
Ci sono compiti molto più importanti che stare appresso ai ditirambi nei talk show televisivi.
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