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21/06/2015

La rete dall’utopia al mercato

Fare i conti con la Rete vuol dire addentrarsi su un terreno scivoloso, dove i limiti della cassetta degli attrezzi dell’autore di turno vengono impietosamente evidenziati. Non sfugge alla regola il saggio di Benedetto Vecchi, La Rete dall’utopia al mercato (manifestolibri - ecommons, 2015). Vecchi non affronta di petto il tema annunciato dal titolo, ma tenta di farlo emergere progressivamente, costruendo un mosaico fatto di decine di tessere, ognuna delle quali prende in esame le idee di uno dei tanti autori che si sono occupati di Internet dagli anni Novanta a oggi. Evitando di seguirlo su questo terreno, mi concentrerò sui nodi fondamentali del suo discorso e, per agevolare il compito al lettore, anticipo il punto di vista da cui prende le mosse la mia analisi critica: le tesi postoperaiste – campo teorico nel quale si inscrive il contributo di Vecchi – scontano, fra le altre, tre evidenti aporie associate alla nostalgia nei confronti di altrettanti “paradisi perduti”.

Il primo lutto è ascrivibile alla perdita delle speranze – stroncate dall’uso capitalistico dell’innovazione digitale – che l’utopia hacker aveva suscitato fra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del Duemila. Del resto il distacco di Vecchi da ciò che avrebbe potuto essere e non è stato (l’utopia che si è fatta mercato) non è mai definitivo, per cui il retrogusto di quella speranza, ancorché fondata oramai solo sull’immaginario, continua ad aleggiare fra le righe, smentendo il senso del titolo. Il secondo lutto mancato si riferisce a un evento ben più lontano nel tempo ma ancora tanto attuale da sovradeterminare ogni passaggio del discorso: in barba alle impietose smentite della storia, i postoperaisti (né Vecchi fa eccezione) restano abbarbicati al dogma secondo cui il lavoro vivo, lungi dall’essere oggetto passivo dell’accumulazione capitalistica, ne determina costantemente la direzione di sviluppo. Di qui il disorientamento per il venir meno di una figura centrale dell’antagonismo di classe quale è stato l’operaio massa, e il tentativo di riesumarne la funzione raggruppando le proliferanti identità del nuovo proletariato sotto la categoria di moltitudine. Infine il terzo lutto mancato, il più paradossale, nella misura in cui riguarda un approccio teorico che dichiara d’aver preso congedo dalla dialettica storicista: mi riferisco al persistente riferimento alla tesi marxiana secondo cui la contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione è destinata a raggiungere il punto di rottura nel momento in cui la potenza del general intellect divenga tale da svelare la “miseria” della legge del valore – momento che si ritiene superato con l’avvento dell’economia della conoscenza. Questo evento, che negli anni Sessanta e Settanta veniva inquadrato nel concetto di tendenza, viene ora considerato come pienamente realizzato, al punto da determinare la forma stessa degli attuali rapporti di produzione, i quali possono apparirci ancora capitalisti solo in ragione della costituiva ambivalenza della realtà sociale in cui viviamo. Vediamo ora di districare i tre nodi in questione seguendo l’ordine appena elencato.

A tratti Vecchi sembra ammettere che la transizione dall’utopia al mercato (che personalmente definirei come la metamorfosi dell’originaria narrativa hacker – fondata sui principi della condivisione delle conoscenze e della collaborazione competitiva fra tecnici informatici professionali e amatoriali – nell’attuale narrativa neomanageriale) è un processo compiuto e irreversibile. Ciò avviene, per esempio, laddove afferma che, dietro a un cybercapitalismo che si basa sulle nuove tipologie di “lavoro libero”, si annida in realtà un modo di produzione in cui l’unica libertà concessa resta quella di vendere la propria forza lavoro. Oppure laddove allude al “patto luciferino” che lega imprese e professional, accomunati da un unico obiettivo: garantire una crescita di produttività in grado di tradursi in costante aumento del valore delle azioni (passaggio in cui si avverte un’eco delle tesi di Dardot e Laval sulla costruzione dell’homo competitivus come soggetto antropologico neoliberista). O infine laddove, nel contesto di un’analisi del mondo Apple, si parla di convivenza fra forme di lavoro servile e militarizzato con i knowledge workers e la potenza della cooperazione sociale messa a profitto (colpisce però la mancata analisi del conflitto di interessi fra questi diversi strati di classe).

Eppure Vecchi non riesce a dare per chiusa la partita. Al contrario: è evidente come restino potenti le seduzioni che continua a subire sia da parte delle sirene anarcocapitaliste di Yochai Benkler, sia degli annunci di democrazia diretta e partecipativa di Manuel Castells (il guru della “autocomunicazione di massa”). Così, quando si misura con il discorso di Benkler, non resta insensibile alla tesi secondo cui il fatto che la conoscenza sia divenuta il principale mezzo di produzione comporterebbe automaticamente la messa in discussione della sua appropriazione privata. Per Benkler – che rivendica esplicitamente la propria vicinanza alle visioni “libertariane” degli anarco capitalisti – ciò significa postulare la possibile transizione a un “capitalismo senza proprietà”, fondato sulla cooperazione/competizione fra piccoli produttori indipendenti, disponibili a condividere conoscenze sulla base di un’inedita economia del dono. Vecchi, pur non sposando esplicitamente tale tesi, sembra concordare sul fatto che le strategie di enclosure dei beni immateriali “non riescono a bloccare la condivisone del sapere in quanto tratto distintivo di Internet”. Al contempo tenta di tradurre la visione di Benkler nel lessico marxiano, postulando “l’intrinseca eccedenza” di saperi e conoscenze rispetto alle norme imposte dai rapporti di produzione vigenti.
Come conciliare queste oscillazioni con la presa d’atto della resa dell’utopia hacker al patto luciferino con il capitale? Semplice: basta postulare la “assoluta ambivalenza” dell’attitudine hacker. Ambivalenza che viene chiamata in causa anche laddove Vecchi, dialogando con Castells, ne rilancia l’idea secondo cui “lo spazio dei flussi” (cioè lo spazio virtuale delle relazioni sociali mediate dalla Rete) sarebbe il contesto in cui “prendono forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del monopolio dello stato”. Eppure Vecchi non ignora le analisi critiche – che cita del resto ampiamente – di Evgenj Morozov e altri autori (compreso il sottoscritto) nei confronti della presunta vocazione democratica della Rete; ciò non gli impedisce di sostenere che, pur essendosi convertita in una tecnologia di controllo sociale, la Rete resterebbe il contesto dove poter immaginare sia una politica di riappropriazione della ricchezza sia un modello alternativo di organizzazione politica. Immaginare è sempre lecito, resta da stabilire se, prima di assumere la Rete a modello, anche solo immaginario, non convenga appurare se gli algoritmi che governano lo spazio dei flussi siano strumenti neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per rovesciarne senso e funzione (ma di questo più avanti).

Passiamo al secondo nodo. L’idea che la direzione di sviluppo dell’accumulazione capitalista sia interamente determinata dalla necessità di superare la resistenza operaia, è un dogma fondativo dell’operaismo, per cui si capisce come risulti difficile prendere atto della disfatta del lavoro vivo nei decenni successivi al ciclo di lotte conclusosi con gli anni Settanta. Pur di non riconoscere che l’inversione del rapporto di forze fra lavoro vivo e capitale è stato il frutto storicamente determinato e contingente del modello produttivo fordista, ci si è arrampicati sugli specchi per identificare, di volta in volta, nuove figure in grado di incarnare la tendenza: operaio sociale, lavoratori della conoscenza, lavoro autonomo di seconda generazione sono stati variamente convocati per recitare la parte del nuovo soggetto in grado di esercitare pratiche autonome di “autovalorizzazione”.

Di fronte all’irriducibile polimorfismo della nuova forza lavoro globale, invece di analizzarne nei dettagli la composizione, stabilendo una gerarchia fra i diversi strati in base al tasso di antagonismo praticato (e non virtuale!), si è preferito ricorrere alla categoria passepartout di moltitudine. Un concetto privo di ogni concreta determinazione sociale e politica, in cui si tenta di insufflare vita definendone un’improbabile identità produttiva. Ciò emerge con particolare chiarezza quando ci si misura con la sfida della produzione in Rete, e infatti Vecchi – consapevole dell’impossibilità di attribuire un ruolo di “avanguardia” alle addomesticatissime schiere dei knowledge workers impiegati nel ciclo high tech – se la cava estendendo illimitatamente il concetto di lavoro cognitivo, per cui la totalità delle relazioni sociali mediate dalla Rete diventa cooperazione sociale produttiva di saperi sans phrase. Peccato che il concetto di produttività sociale diffusa assieme a quello secondo cui l’accumulazione originaria non è un evento storico puntuale, bensì un processo ricorsivo di estensione degli ambiti di vita subordinati al rapporto di capitale – siano stati tematizzati da Marx secoli prima dalla rivoluzione digitale né costituiscano, di per sé, il presupposto di un processo di soggettivazione antagonista (ma sono al contrario utilizzabili, vedi Dardot e Laval, come materiali per la costruzione del soggetto neoliberista).

Veniamo ora al terzo nodo, il più aggrovigliato, per cui sarò costretto ad accennarvi sinteticamente semplificando drasticamente i termini della questione. Come ho già sostenuto in scritti precedenti, sono convinto che, se c’è una categoria marxiana che occorre relegare in soffitta, è proprio quella della presunta contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Residuo di una visione hegeliana della storia, e di una fiducia positivista nel ruolo progressivo della scienza e della tecnica, tale visione, tanto ottimista da avvicinarsi pericolosamente a una teoria del crollo, dovrebbe apparire superata a chiunque nutra una sia pur minima consapevolezza che le innovazioni scientifiche e tecnologiche, non solo non sfuggono alla sovradeterminazione da parte dei rapporti di dominio della classe capitalistica sulle classi subordinate, ma li incarnano in modo diretto ed esplicito.

Non lo hanno compreso Lenin e Gramsci, affascinati dall’organizzazione “scientifica” del lavoro, al punto da vedere nel fordismo/taylorismo uno strumento di cui il proletariato avrebbe potuto impadronirsi per volgerlo ai propri fini. Non lo capiscono i postoperaisti che, in alcuni scritti raccolti nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte, 2014), arrivano a teorizzare che gli algoritmi che governano i flussi dei dati in Rete non sono “del” capitale perché ne incarnano la logica di razionalizzazione e dominio della produzione sociale, ma solo perché i rapporti di forza impediscono ai lavoratori della conoscenza di farne buon uso.

Non lo capisce Vecchi, il quale partendo dal presupposto neoschumpeteriano che l’innovazione nella misura in cui è oggi frutto di un processo collettivo e sociale – sia di per sé positiva, denuncia il tentativo di stati e imprese di frenarla e dirottarla dagli indirizzi che tenderebbe a seguire spontaneamente ove “liberata” dalla governance capitalista. Dal che discende che “la mossa migliore è sempre quella di stare dentro e contro il regine di accumulazione capitalistico”. Detto altrimenti: l’ambivalenza dell’attuale modo di produrre genera continuamente le condizioni del suo superamento. Con buona pace del detto gramsciano che invita ad associare l’ottimismo della volontà al pessimismo della ragione.

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