Se il primo della classe bara, quella classe è solo un gruppo di
infami. In senso tecnico. Il baro è tedesco (ma non è la questione
principale), la classe è l'Unione Europea.
Ieri siamo stati tra i primi a cogliere la rilevanza dello scandalo Volkswagen,
ma la velocità con cui si deve dare la cronaca non permette di fare
riflessioni approfondite, come invece è necessario a 24 ore di distanza.
Sul piano commerciale, si tratta di una volgarissima truffa, per
quanto tecnologicamente avanzata. E neanche troppo, a guardar bene,
perché tutte o quasi le automobili costruite oggi offrono diverse
modalità di guida – tipicamente: sport o eco – dipendenti dai settaggi
della centralina elettronica. Aggiungere una terza modalità per i soli
test sulle emissioni non era insomma una cosa dell'altro mondo.
Probabile, dunque, che lo stesso scherzetto sia ripetuto su quasi tutte
le auto circolanti sul pianeta, perché quasi ovunque – nei paesi
avanzati, che costituiscono l'assoluta maggioranza del mercato
automobilistico – vigono standard da rispettare in materia di
inquinamento ambientale.
Da anni, del resto, sia gli ambientalisti che la stampa specializzata
certifica – con mezzi tecnologici certo meno efficienti e avanzati di
quelli a disposizione dell'Epa statunitense – che consumi ed emissioni
dichiarati dalle case sono molto superiori a quelli reali.
Ma il motore diesel di Vw, il popolarissimo e diffusissimo 2.0 Tdi,
superava gli standard Usa (leggermente più rigidi di quelli europei, per
i motori a gasolio) di alcune decine di volte, non di un'inezia. In
pratica, quello che dovrebbe essere il motore “pulito” per eccellenza è
inquinante quanto un autocarro della seconda guerra mondiale. Quello
stesso motore circola ovunque in Europa, montato su milioni di vetture,
quindi qualsiasi tentativo di limitare la portata dello scandalo al solo
mercato Usa è – in senso tecnico – un crimine.
Sul piano commerciale, dunque, possiamo considerare chiusa qui
l'avventura americana di Vw, e quindi dire addio alla possibilità di
vederla passare dal secondo al primo posto tra i costruttori mondiali,
superando Toyota.
E chissenefrega, si potrebbe giustamente concludere: hanno voluto fare i “furbetti del maggiolino” (copyright del sito inpiu.net), crepassero pure.
Purtroppo la questione ha implicazioni un po' più complesse.
Volkswagen sta alla Germania come Fiat stava
all'Italia. Nel bene e nel male. Nel consiglio di amministrazione di Vw
siede anche un rappresentante del sindacato Ig-Metall, quindi anche il sindacato è direttamente coinvolto nello scandalo quanto l'a.d. Martin
Winterkorn (non sarebbe una novità; dieci anni fa un altro scandalo Vw
riguardava proprio la corruzione dei rappresentanti sindacali a forza di
escort e vacanze di lusso).
Non
solo. Il governo tedesco, in tutto il dopoguerra, ha sistematicamente
difeso e protetto il suo “campione nazionale”, fino a farsi portatore
diretto degli interessi dell'azienda in sede europea, ogni volta che si
dovevano fissare standard progressivamente più restrittivi per le
emissioni inquinanti (Euro 1, ecc, fino all'attuale Euro 6), criticando
ad ogni stazione l'eccessiva rigidità che si voleva imporre e ottenendo così standard un po' più “teneri”.
È
un problema serio, per tutta l'industria automobilistica, restia a
investire troppo nella ricerca per ridurre consumi ed emissioni. Come
spiegava qualche giorno fa
Sergio Marchionne, con la solita faccia di teflon, non vanno per nulla
bene gli standard Euro 7 che dovranno entrare in vigore nel 2020, perché
aumenterebbero di «1.800-2.000
euro a vettura il costo delle norme sul CO2 fissate per il 2020: se si
abbassa la soglia delle emissioni di CO2 cambia la natura industriale, i
prezzi salirebbero e venderemmo meno macchine». Tra ambiente vivibile e profitto, insomma, non c'è dubbio cosa sceglierebbe il capitalista, se lo lasciassero fare...
Ma
lo scandalo Vw è ancora più serio perché investe direttamente la
credibilità dell'Unione Europea come custode della “rigidità delle
regole”. Difficile, da ieri, che Angela Merkel o Wolfgang Schaeuble
possano fare la voce grossa chiedendo – agli altri – il rispetto di
regole che non valgono anche per le imprese o gli interessi tedeschi. O
meglio, alzeranno ancora
la voce, ma al prezzo di incrementare le divisioni e far capire – ancor
meglio di quanto non si avvenuto nella “trattativa” con la Grecia fino a
luglio – che non si tratta di rispettare “regole”, ma di riconoscere il
peso determinante dei rapporti di forza economici. Null'altro.
Del
resto l'elenco della violazioni alle “regole” da parte tedesca è ormai
molto lungo. Per brevità ne daremo solo gli esempi più clamorosi.
Da anni la Germania sfora sistematicamente, e largamente, uno dei vincoli del trattato di Maastricht, quello relativo al surplus nella bilancia commerciale. È naturalmente molto più conosciuto il vincolo opposto, quello del deficit fissato
al 3%, che quasi tutti gli altri paesi cercano di rispettare a costo di
sacrifici e tagli di spesa mortiferi. Qualsiasi manuale di economia
spiega a sufficienza che, in una comunità, se qualcuno sta
sistematicamente in surplus qualcun altro starà sistematicamente in
deficit. Senza una gestione comunitaria delle eccedenze – ovviamente
escluse dalla Germania con l'argomento “non pagheremo per la pigrizia
altrui” – gli squilibri strutturali possono solo aumentare.
Ma anche in campo bancario le regole che vengono scelte sono quelle che convengono al più forte, non al più virtuoso.
Quando si è dovuto decidere sui criteri fondanti gli stress test
per le banche europee è stato scelto di considerare “pericolosa”
l'esposizione delle banche verso i normali clienti (imprese e famiglie),
mentre era “virtuoso” l'investimento a leva nei molti mercati dei
prodotti derivati, alla base di tutti gli eventi critici degli ultimi 8
anni. Il motivo lo avrete già capito: le banche tedesche più grandi
erano esposte proprio su questo fronte, mentre altri paesi – come
Italia, Spagna o Grecia – avevano “sofferenze” più che altro sul fronte
classico dei clienti ordinari.
Non
solo. Nello scandalo della manipolazione dei tassi interbancari,
insieme all'attore principale – l'inglese Barclays – ha avuto un ruolo
centrale anche Deutsche Bank, l'equivalente di Vw in ambito bancario.
E
se volessimo parlare davvero di rispetto delle regole come distintivo
di un sistema sociale funzionante, potremmo anche aggiungere i controlli
assolutamente deficitari nella selezione dei piloti d'aereo, come nel
caso di Andreas Lubitz, che ha portato volontariamente un Airbus della
GermanWings contro una montagna.
Quel
che ne emerge è dunque una costruzione basata esclusivamente sugli
interessi economici dei gruppi multinazionali più importanti, sia sul
piano finanziario che industriale. Le “regole” che vengono decise ed
applicate sono quelle che meglio servono quegli interessi. E quando
anche, come avviene per la “legge uguale per tutti”, una regola limita
la libertà di manovra di un gruppo di prima fila, quella regola viene
tranquillamente ignorata.
Non sembra un caso che a far “tana” a Vw sia stato un soggetto ancora
più potente, come l'Epa degli Stati Uniti. Un istituto di ricerca
italiano o greco sarebbe stato immediatamente chiuso per lesa maestà.
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