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26/04/2018

The show must go deeper inside

di Fabio Ciabatti

Il dibattito sulle trasformazioni del modello produttivo si è spesso polarizzato su due posizioni: da una parte si sostiene che il lavoro ha acquisito un nuovo statuto creativo, cognitivo, spontaneamente cooperativo; dall’altra si afferma che siamo di fronte a una sorta di neotaylorismo digitale. In questa sede vorrei sostenere che Guy Debord ci aiuta a raggiungere una concettualizzazione più articolata del mondo presente andando al di là di questa astratta contrapposizione. E per fare ciò utilizzerò la sua opera principale, La società dello spettacolo, pubblicata nel 1967, ben inteso andando al di là dell’opera stessa. Vorrei sintetizzare le due posizioni in modo esemplare. Da una parte abbiamo il famoso motto di Steve Jobs: “Stay hungry, stay foolish”. Detto altrimenti: non perdete la voglia di imparare, la curiosità, l’ambizione, non smettete di fare scelte azzardate, non convenzionali, di essere ribelli. Dall’altra abbiamo gli oramai famigerati braccialetti di Amazon e cioè i lavoratori telecomandati, ridotti a robot umani.

A scanso di equivoci preciso subito che il fondamento dell’incessante ricerca di profitto da parte del capitale rimane il tempo di lavoro non pagato, il plusvalore. Ciò premesso, venendo a Debord, potremmo dire che i braccialetti di Amazon rappresentano il processo reale, mentre il discorso di Jobs è l’immagine spettacolare di quello stesso processo. Occorre però subito ricordare che, per Debord, non si può opporre astrattamente lo spettacolo all’attività sociale effettiva. “La realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare, portandogli un’adesione positiva”.1 Perciò è anche vero che la realtà sorge nello spettacolo, che “il vero è un momento del falso”.2 Tutto ciò può succedere perché la società spettacolare è la società della separazione in cui la prassi sociale si è scissa in realtà e immagine. “Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.3

Cosa intende Debord per separazione? Molte cose in realtà. È il mondo che ha perso la sua unità, la sua coesione, la sua dimensione comunitaria, il suo centro mitologico; l’atomizzazione degli individui e la separazione dell’individuo da se stesso; la vita quotidiana che diventa vita privata; la rappresentanza operaia opposta radicalmente alla classe. È, al fondo, marxianamente, la separazione dei mezzi di produzione dai produttori diretti, la separazione del produttore dal suo prodotto che ha raggiunto, potremmo dire, il suo stadio supremo. “Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale”,4 è la merce che si fa mondo e il mondo che si fa merce. “La radice dello spettacolo è nel terreno dell’economia divenuta abbondante”.5

Il capitalismo che ci descrive Debord è ancora quello in cui viviamo? Sì e no verrebbe da dire. Il mondo di Debord è in effetti quello della società affluente, del consumismo. È il mondo del gigantismo industriale e della crescente automazione dei processi produttivi che lascia presagire il riscatto dell’umanità dalla schiavitù del lavoro come conseguenza della continua crescita della produttività. Siamo ai tempi del trionfo del keynesismo, dell’intervento statale in economia e ciò faceva sostenere a Debord che la storia si era incaricata di smentire l’incompatibilità tra riformismo e capitalismo. Debord condivide con il suo tempo un certo ottimismo tecnologico e anche per questo considera che la contraddizione fondamentale del capitalismo sta nella miseria della vita e non nella vita economicamente misera.

Oggi trionfa il neoliberismo. Le leggi del mercato sono di nuovo il parametro di riferimento indiscusso. Nell’Occidente sviluppato torna la vita economicamente misera. Però, e qui sta l’interessante, si mantiene al contempo lo spettacolo dell’economia abbondante. La merce continua le sue performance spettacolari anche quando il suo consumo abbondante sfugge vieppiù a fette rilevanti della popolazione. Come è possibile? Nei Commentari alla Società dello spettacolo, pubblicati nel 1988 a circa vent’anni di distanza dall’opera principale, Debord sostiene che la principale novità da registrare sta nel fatto che il dominio spettacolare ha potuto allevare una generazione sottomessa alle sue leggi. Oggi possiamo parlare di diverse generazioni sottoposte a questo dominio, generazioni per le quali il godimento alienato derivante dallo spettacolo della merce è diventato una realtà incontestabile, una sorta di inalienabile diritto/dovere all’alienazione. Debord rimane però legato all’idea che l’individuo è riconosciuto come persona, dotata di diritti, solo sotto il travestimento di consumatore/spettatore mentre lo stesso individuo in quanto operaio viene disprezzato. Ma possiamo ancora tenere questa rigida distinzione tra produttore e consumatore dal momento in cui gli attributi antropologici dello spettatore sono assurti con il tempo a una sorta di seconda natura? O, piuttosto, possiamo ipotizzare che la società sia risuscita a inventare, nella sua dimensione spettacolare, un linguaggio comune tra consumatore e produttore?

Prima di abbozzare una risposta torniamo a Debord il quale sostiene che, “perdendo la dimensione comunitaria della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti ad un linguaggio realmente comune”.6 Per questo “Bisogna condurre alla loro distruzione estrema tutte le forme di pseudocomunicazione, per giungere un giorno ad una comunicazione reale diretta”.7 A tal fine l’arte, che nel primitivo universo religioso rappresentava il linguaggio comune dell’iniziazione sociale, deve essere realizzata attraverso il suo superamento e cioè attraverso un nuovo tipo di avanguardia che sia superamento del concetto di avanguardia come realtà separata. Impegno artistico e impegno politico si devono fondere per dar luogo a una nuova concezione della vita, gioiosa e ludica, a una pratica sperimentale della vita libera attraverso la lotta. Questa visione si incarnerà nella rivolta del maggio ’68. Ma finita la sommossa partirà subito la macchina del recupero.

Paradossalmente, saranno proprio gli elementi “artistici” della prassi situazionista, gli stessi che gli avevano consentito di sintonizzarsi con la rivolta parigina, che saranno utilizzati per il recupero. Sarà infatti il tipo di contestazione al capitalismo che Boltanski e Chiapello chiamano “critica artistica” che il sistema ha cercato di recuperare e valorizzare per fronteggiare la propria crisi di legittimità, a partire dagli anni Settanta.8 “Il nuovo spirito del capitalismo” sarà in grado di mettere a valore alcuni elementi di quella critica che si scagliava contro la sopraffazione borghese dell’autenticità e della creatività, contro la reificazione capitalistica dei rapporti umani. Si sviluppa così un nuovo tipo di discorso ideologico, rintracciabile nei manuali di management, che non si rivolge più, come in passato, ai soli quadri, ma a tutti i lavoratori. Il sistema è portato ad abbandonare le rigidità gerarchiche del vecchio capitalismo, per abbracciare valori quali la flessibilità, l’adattabilità, la fantasia e la sensibilità.9

Quello che vorrei suggerire è che certi meccanismi spettacolari che riguardavano la sfera della circolazione sono in qualche misura, complici le tecnologie digitali, penetrati nella sfera della produzione, dove nondimeno il capitale continua a esercitare la sua autocrazia. Detto altrimenti, in una società compiutamente spettacolare, lo spettacolo deve continuare anche nella sfera della produzione, pena la perdita della legittimità del sistema. L’etica del lavoro, intesa come etica del sacrificio e della sottomissione può essere giustificata solo da un punto di vista religioso. Ma la religione stessa è diventata spettacolo. Dunque l’etica del lavoro si deve rappresentare come etica dell’autorealizzazione. Che poi non è un’etica. Il lavoro, utilizzando ancora Debord, diventa “pseudogodimento che mantiene in sé la repressione”.10

Così come il consumatore deve continuamente negare se stesso perché gli sono richieste “fedeltà sempre mutevoli, una serie di adesioni sempre deludenti a prodotti fasulli”11 che devono essere continuamente sostituiti, il lavoratore deve identificarsi con il suo lavoro, ma con un lavoro sempre diverso. È la dimensione del progetto, il gemello buono della precarizzazione, che trionfa. Ogni singolo progetto deve suscitare l’adesione totale del lavoratore e dunque rappresentare ogni volta una sorta di assoluto, di eterno presente che annulla i progetti precedenti e quelli futuri.

Nella sfera della circolazione lo spettacolo crea e al tempo stesso riempie il gap tra il godimento promesso dal consumo in generale e la natura insoddisfacente e banale del consumo effettivo della singola merce. Allo stesso modo, nella sfera della produzione, lo spettacolo produce e al tempo stesso colma il divario tra la promessa di autorealizzazione attraverso il lavoro e l’effettiva esperienza lavorativa caratterizzata da precarizzazione, controllo, salario inadeguato. In altre parole la realtà vissuta è materialmente invasa dallo spettacolo del lavoro cognitivo, creativo, cooperativo. Materialmente invasa, significa che dal lavoratore ci si aspetta effettivamente, entro certi limiti sia ben inteso, che si comporti secondo i dettami dello spettacolo e l’organizzazione del lavoro è stata effettivamente modificata a tal fine. La rigida gerarchia è stata sostituita da una gerarchia flessibile, spersonalizzata e per certi versi invisibile. Detto in modo ancora differente la scissione tra produttore e consumatore si riproduce all’interno del lavoratore stesso. Il lavoratore si deve fare soggetto e non mero oggetto di controllo altrui. Ma è soggetto in quanto spettatore e dunque attraverso un’identificazione con un processo estraneo. È soggetto in quanto si autocontrolla, si autodisciplina. In questo processo di materializzazione dell’ideologia, l’ideologia stessa diventa schizofrenia. Per questa via si conferma che lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.

Se ammettiamo tutto ciò, oggi è ancor più vero quanto diceva cinquant’anni fa Debord: il progetto rivoluzionario non può essere portato avanti da un’organizzazione di tipo burocratico, militare proponendo un’etica della disciplina e del sacrificio in nome del lontano sol dell’avvenire. Questo modello non corrisponde più in alcun modo alle aspettative di chi dovrebbe emanciparsi. Il progetto rivoluzionario deve invece proporre una concezione della vita libera, ludica, un modello di tempo aperto. L’organizzazione rivoluzionaria dovrebbe essere in grado di prefigurare al suo interno nuovi rapporti umani e non “combattere l’alienazione in forme alienate”,12 pur tenendo conto della necessaria disciplina rivoluzionaria. Tale organizzazione andrebbe concepita come il luogo possibile della comunicazione diretta e attiva, non unilaterale, con le lotte pratiche; il luogo della fine della gerarchia e della specializzazione in cui le condizioni esistenti della separazione si trasformano in condizioni dell’unione. Di certo i situazionisti non furono in grado costruire nulla di simile. Considerate le continue espulsioni, a prevalere fu il “terrore”, teorizzato da Debord per evitare il recupero delle pratiche situazioniste nello spettacolo. Il problema della permanenza della rivolta dopo la sua esplosione iniziale non fu dunque in alcun modo risolto. Ma se non si fanno passi in avanti in questo senso diventa ineluttabile l’esito tanto temuto da Debord: la rivolta contro lo spettacolo diventa lo spettacolo della rivolta.

[Questo articolo è la rielaborazione di un intervento tenuto in occasione della presentazione del libro Debord di Giorgio Amico, organizzata dal gruppo Devianze attivo all’interno dei COBAS Lavoro Privato]

Note
  1. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 55. 
  2. Ivi p. 55. 
  3. Ivi p. 62. 
  4. Ivi p. 70. 
  5. Ivi p. 57. 
  6. Ivi p. 163. 
  7. Guy Debord, “Théses sur la révolution culturelle”, cit. in Giorgio Amico, Debord, Massari, 2017, p. 136. 
  8. Cfr. Luc Boltanski e Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, 2014. 
  9. Il collegamento tra Il nuovo spirito del capitalismo e la vicenda di Debord viene suggerita da Gianfranco Marelli ne L’amara vittoria del situazionismo, Mimesis, 2017. 
  10. Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 79. 
  11. Guy Debord, Commentari alla Società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 209. 
  12. Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 122. 
Fonte

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