Mentre entra in azione il primo stock di nuove sanzioni USA alla Russia – che include le esportazioni di prodotti a duplice destinazione, tecnologie legate alla sicurezza, componenti energetici ed elettronici – sembra che l’unico punto di sintonia tra Washington e Mosca, dopo l’incontro del 23 agosto fra il consigliere presidenziale USA John Bolton e il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolaj Patrušev, sia che non c’è accordo su nulla.
Patrušev ha dichiarato che su tutte le questioni chiave la posizione statunitense è: “o si fa a modo nostro o niente”. Siria, Crimea, Donbass, elezioni americane; ma soprattutto, i progetti energetici. Ovvero “North stream 2”, “Sila Sibiri” (il progetto congiunto tra Gazprom e cinese CNPC, che collegherà i centri di estrazione del gas di Irkutsk e Jakutja all’estremo oriente russo e alla Cina e che da fine 2019 fornirà 38 miliardi di metri cubi l’anno di gas alla Cina) e l’impianto di gas liquefatto sulla penisola di Jamal, con una capacità di circa 16,5 milioni di tonnellate l’anno dal giacimento di Tambej meridionale verso il porto di Sabetta (l’entrata in servizio è prevista per il 2024-2027, ma già a fine 2017 sono iniziate le prime forniture di GNL al mercato europeo).
Tradotto in lingua russa, nota Aleksandr Zapolskis per l’agenzia Regnum, questo significa impossibilità di coesistenza tra USA e Russia: è di fatto guerra aperta.
Senza la guerra, gli Stati Uniti, pur se la loro economia costituisce 1/4 di quella mondiale, sono già ora in bancarotta: perdite dirette per 378 miliardi di dollari l’anno; debito pubblico balzato in un anno da 19,9 a 21 trilioni di dollari (negli otto anni di Obama è cresciuto di 9,3 trilioni) e, stando ai dati ufficiali, il tasso medio di aumento dei prestiti rimane approssimativamente stabile a circa il 6% del PIL annuale.
L’agenzia iarex.ru sottolinea come anche la settimana scorsa sia proseguito l’appiattimento della curva dei rendimenti dei titoli di stato statunitensi: tale processo “indica che il ciclo economico degli Stati Uniti è nella fase finale”. Gli ultimi dati segnalano che “l’economia USA ha già superato il picco di crescita ed è iniziato il processo di smorzamento. C’è una probabilità molto alta che nei prossimi 1-1,5 anni gli Stati Uniti conoscano un’altra crisi ciclica, con conseguenze distruttive per l’economia mondiale”.
Sembra che gli USA debbano entrare in guerra col mondo intero, osserva Zapolskis e la Russia è l’unico paese in grado di distruggere gli USA quale soggetto geopolitico, non solo con le armi nucleari, dato che possiede riserve di energia tali da soddisfare le esigenze di entrambi i nemici globali degli Stati Uniti: UE e Cina.
Il prezzo del gas liquefatto USA non è conveniente per l’Europa e, al tasso attuale, nei prossimi dieci anni il debito estero americano supererà il 200% del PIL (oggi è al 108%, era al 98% nel 2016): o entro il 2030 gli Stati Uniti vincono la guerra economica e conquistano il pianeta, o cessano di esistere quale principale soggetto geopolitico ed economico.
Dunque, la terza guerra mondiale è già iniziata: per ora economica, ma chi la perderà, scrive Zapolskis, ne uscirà distrutto quasi come se il conflitto fosse nucleare; e uno dei fronti principali è rappresentato dall’egemonia del dollaro.
Nella valuta USA si svolgono poco meno della metà delle transazioni finanziarie transfrontaliere e così è quotato il 70% di tutti gli asset del pianeta. Secondo il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications) a dicembre 2017 il 39,8% di tutti i pagamenti era effettuato in dollari, seguito da euro (35,6%), sterlina (7,07%); yen (2,9%) e yuan (1,6%); considerando solo i pagamenti internazionali, la quota del dollaro saliva al 41,27%.
Secondo Bloomberg, tale egemonia per ora difficilmente può essere minacciata anche dagli sforzi comuni di Russia, Turchia e Iran: dato che il volume complessivo del loro commercio estero costituisce appena il 4% di quello globale, anche il passaggio alle monete nazionali negli scambi reciproci non verrebbe quasi notato dal mercato mondiale. Intanto però, è proprio di questo che si parla.
Anche nel corso del breve incontro dello scorso 19 agosto al castello di Meseberg tra Merkel e Putin, quasi sicuramente il discorso è caduto anche sulla questione del passaggio all’euro negli scambi energetici UE-Russia, così come Mosca e Ankara stanno da tempo esaminando il passaggio alle valute nazionali nel commercio bilaterale e lo stesso dicasi per gli scambi con Cina e Iran.
A ogni buon conto, di fronte alla prospettiva di sanzioni contro il debito pubblico russo e per difendersi dal possibile congelamento del proprio patrimonio in dollari, Mosca risponde con la fuga dal dollaro: dal 2013, la Banca Centrale sta attivamente comprando oro contro obbligazioni del tesoro e valuta americana; la riserva aurea del paese ha così raggiunto le 2.170 tonnellate di metalli pregiati.
Tra aprile e maggio, Mosca ha ridotto di circa 4/5 le proprie riserve di banconote, obbligazioni e titoli di debito statunitensi per acquistare oro: se al 1 gennaio le riserve ammontavano a 432 miliardi di dollari, al 1 agosto hanno raggiunto i 458 mld. Mosca ha venduto oltre l’80% del proprio portafoglio di debito USA: tra marzo e maggio 2018, le riserve russe in obbligazioni del tesoro USA sono diminuite dell’84%, da 96 a 15 miliardi dollari. Pare in ogni caso che conti su riserve internazionali per 400 miliardi di dollari.
Sul fronte energetico globale, durante la visita nel Caucaso dei giorni scorsi, Angela Merkel ha dichiarato che la Germania non acquisterà il gas azerbaidžano, non potendo per ora rinunciare a petrolio e gas russi, a prezzi più bassi. E se da Washington si giura che gli USA “difendono la Germania” – però questa non solo è “controllata dalla Russia” attraverso i prodotti energetici, ma così “diventa sponsor di Mosca” – Merkel e il suo Ministro degli esteri Heiko Maas rispondono che Berlino segue una politica indipendente.
“L’Unione europea deve creare un proprio sistema finanziario, analogo allo statunitense SWIFT, ma non controllato dagli USA”, ha detto Maas; il passaggio è necessario per “proteggere le imprese UE” dalle sanzioni statunitensi contro l’Iran, dopo che Trump ha rifiutato di confermare gli accordi sul “nucleare iraniano” (Joint Comprehensive Plan of Action), avviando nuove sanzioni contro Teheran e le società (anche UE) attive sul mercato iraniano.
Indicativa la decisione di Bruxelles di concedere aiuti a Teheran per 18 milioni di euro: gesto più simbolico che effettivo, ma rappresentativo dello stato attuale dei rapporti inter-oceanici. Come notava Sergio Cararo pochi giorni fa, le vere ragioni delle mosse tedesche risiedono nelle profonde contraddizioni tra UE e USA; tant’è che al qua dell’Atlantico si sta valutando la possibilità di creare proprie strutture anche in altre sfere, soprattutto quella della cosiddetta difesa collettiva.
In generale, gli Stati Uniti sono oggi in guerra economica con la maggior parte dei paesi del mondo: insieme a Europa e Cina, sono uno dei tre più grandi mercati commerciali del mondo e rappresentano oltre un quarto del commercio mondiale, superati dall’Unione Europea con quasi il 29%. Chiaro dunque che da Berlino si parli di una “nuova strategia di politica estera verso gli Stati Uniti” che, come ha detto Heiko Maas, verrà esposta “molto presto”, probabilmente già a ottobre. Secondo Maas, la partnership transatlantica deve essere rivista e le relazioni con gli Stati Uniti dovrebbero svilupparsi sulla base del fatto che l’Europa è “un’unione forte e indipendente, di cui la Germania fa parte”, o di cui si considera, avrebbe forse voluto dire, la motrice di testa.
Purtuttavia, come nota sarcasticamente topwar.ru, fino a che punto Maas riuscirà a promuovere tale strategia, considerando che in Germania ci sono quasi 35.000 militari yankee e che i servizi speciali tedeschi sono “da tempo diventati una branca controllata da CIA e NSA?”
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