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18/12/2019

Il secondo Brexit, lotte di classe in Francia e il “Che fare” che ci aspetta


In Inghilterra il mondo del lavoro soffre di una malattia che si direbbe incurabile. Miseria, precarità, angoscia, sentimento di abbandono.

Da 15 anni e più, sinistra e destra l’hanno spinto nel vicolo cieco del neoliberismo. Le politiche di austerità condotte dall’Unione Europea hanno sostenuto profitti colossali e la loro trasformazione in rendite speculative. In Inghilterra, come in Francia o, ancora peggio in Italia o in Grecia si lavora con una pistola puntata dietro la schiena, o in modo precario oppure non si lavora affatto. Salari e prestazioni sociali si sciolgono come neve al sole.

Gli Stati si trasformano in Stati provvidenza per le multinazionali: miliardi di euro di regali senza l’ombra di una contropartita, esoneri fiscali che si aggiungono all’evasione fiscale. La politica dell’offerta ha creato una situazione di Keinesismo alla rovescia: la provvidenza va ai più ricchi e l’austerità è riservata alla grande maggioranza, in una parola, al mondo del lavoro.

Le popolazioni europee le hanno provate tutte: sì è votato a destra e non ha funzionato, si è votato a sinistra idem con patate, si è provato con l’estrema sinistra (in Grecia), peggio ancora. C’è chi ha accusato Alexis Tsipras e i suoi amici di tradimento e c’è chi l’ha finalmente assolto dicendo che non poteva fare diversamente.

In realtà sinistra ed estrema sinistra sono, oggi, unite come due dita della stessa mano. Se tradimento c’è stato, esso va cercato in un’epoca più remota. Bisognerebbe tornare al periodo in cui gli azionisti delle grandi imprese (vi ricordate quando li si chiamava capitale avanzato?) hanno lanciato un deal con i dirigenti dei partiti detti «progressisti», rottamando cosi il vecchio Stato clientelare, le sue banche, le sue imprese di Stato, e la sua moneta... Vi ricordate i buoni del tesoro al 12% al netto delle tasse? Ebbene oggi, in cambio abbiamo il MES ovvero il furto organizzato dei risparmi popolari.

In Inghilterra il 23 giugno 2016 i quartieri popolari, le vecchie città operaie, e una parte dei ceti medi pauperizzati votano a maggioranza per l'uscita dall’Unione Europea. È il giorno del Brexit. Undici anni dopo il NO francese al referendum sull’ultimo trattato fondatore dell’Unione Europea.

La classe operaia riconosce i suoi nemici e anche le loro gerarchie. L’Unione Europea è un’istituzione anti democratica la cui funzione è di produrre l’«Ordoliberismo» e imporlo a tutti i membri dell’Unione. Si tratta in effetti di un’istituzione simile all’FMI i cui «aggiustamenti strutturali» creano miseria, guerre ed migrazioni di massa nel mondo intero.

La reazione al Brexit è immediata e brutale. In Francia sono gli intellettuali di sinistra o ecologisti che reagiscono piu duramente. In una intervista, Daniel Cohn Bendit suggerisce addirittura l’eventualità di non tener conto dei risultati elettorali perché, citiamo: «Le peuple n’a pas toujours raison» (il popolo non ha sempre ragione) !! Ma il Brexit esiste e bisogna che se lo tengano!

Il 12 dicembre 2019 il Brexit non è ancora applicato e gli inglesi sono chiamati a votare (elezioni legislative) per trovare una soluzione.

Jeremy Corbyn, nonostante presenti un ambizioso programma sociale cade clamorosamente, i laburisti perdono persino nei loro bastioni tradizionali. Cosa è successo? I proletari inglesi sono diventati ultradestri? Il popolo vota l’ultradestra perché preso da improvvisa demenza populista? Vogliono l’odio come in Italia, quando si vota Salvini o in Francia Marine Le Pen?

Certamente no: le grandi masse popolari capiscono che il Brexit è la condizione assolutamente necessaria perché i programmi sociali si trasformino in realtà. Corbyn, spinto probabilmente dall’ala Blairista, ha deciso di non rispettare il suffragio universale espresso nel 2016 e di ritornare al voto. In soldoni ha cercato di annullare il Brexit. Nessun programma di governo fondato sulla realizzazione dei bisogni popolari è applicabile all’interno dell’Unione Europea. E gli inglesi lo sanno. L’elezione del 12 dicembre è in realtà il secondo referendum sull’uscita dall’UE.

Venerdi 13 dicembre Jean Luc Melenchon afferma : «J’avoue que je ne suis pas étonné par le terrible revers électoral du parti travailliste et de Jeremy Corbyn. Il doit servir de leçon.»

(Confesso che non sono sorpreso da questa terribile sconfitta elettorale del partito laburista e di Jeremy Corbyn. Quello che è successo deve servirci di lezione.)

Questa frase pronunciata da Jean Luc Melenchon ha un valore tutto particolare. Rimontiamo un attimo nel tempo.

Il 29 Maggio 2005 la Francia dice no al trattato Europeo e blocca cosi sul nascere le modifiche costituzionali necessarie all’avanzamento dell’UE.

Dopo una lunga campagna elettorale esaltante, alla quale ho personalmente partecipato, Jean Luc Melenchon, emerge in quanto leader indiscusso. Rompe col partito socialista, fervente europeista, e fonda il «Front de Gauche» insieme al PCF e altri piccoli gruppi di estrema sinistra, tutti uniti dal rifiuto del nuovo trattato.

Il 4 febbraio 2008 a Versailles ha luogo un vero colpo di stato soft. Le camere riunite (parlamento e senato) rimettono in discussione in maniera illegale il risultato del referendum annullando cosi la volontà del popolo, ottenendo la maggioranza qualificata del 65%. Hanno votato contro la decisione del popolo sovrano la destra, i socialisti sostenuti dai verdi e contro i comunisti. Una manifestazione di protesta davanti al castello di Versailles organizzata durante il voto viene caricata duramente dalla polizia.

Questa data ha un’importanza strategica : da quel giorno infatti, sinistra e verdi abbandonano ufficialmente gli interessi del mondo del lavoro e si mettono al servizio del neoliberismo.

Durante le presidenze successive di Sarkozi (destra), Hollande (sinistra) e Macron (definito «presidente degli ultra ricchi»), le condizioni di vita dei lavoratori, dei precari, dei poveri, ma anche di una buona parte dei ceti medi, si degradano sempre più. In Francia si respira un’aria pesante, la politica internazionale diventa sempre piu arrogante e neocoloniale.

I dirigenti francesi sono diventati addirittura piu atlantisti che dei loro maestri americani: guerra e distruzione della Libia, tentativo neocoloniale in Siria, 14 paesi africani (la cosiddetta «Francafrique»), passano da una guerra civile all’altra, il tributo finanziario e di sangue pagato dai cittadini africani è immenso e provoca l’emigrazione coatta di centinaia di migliaia di africani. Cosi non si puo continuare!!

Il 10 febbraio 2016 Jean Luc Melenchon affonda il «Front de Gauche», criticando la pratica dei comunisti che sembrano piu preuccupati di restare agganciati al treno della sinistra (in particolare ai loro cugini socalisti) che di rispondere alla situazione disastrosa che subiscono le classi popolari e fonda la «La France Insoumise». All’inizio questo nuovo movimento è formato da uno zoccolo duro Repubblicano (inteso alla francese, cioè ugualitario, rivoluzionario e giacobino) al quale si aggiungono moltissimi comunisti usciti dal PCF, qualche socialista disgustato da François Hollande e da una parte di ecologisti altermondialisti ostili al trattato europeo.

Il successo è immediato c’è troppa voglia di rivoluzione, di rottura, di programmi radicalmente differenti. Soprattutto c’è voglia di sovranità. Sulla politica sociale, su quella internazionale sulla moneta, su tutto. Non c’è ombra di nazionalismo in questa rivendicazione.

I veri nazionalisti sono annidati nelle istituzioni dell’Unione Europea. L’UE è vista come una supernazione autoritaria, non democratica e al servizio del capitale finanziario mondiale e dell’imperialismo atlantico. Quando i militanti della FI parlano di sovranità parlano del controllo della moneta (politiche economiche e sociali) parlano di controllo dell’esercito (politiche di difesa della Repubblica), parlano di diplomazia (decidere con chi e soprattutto per che cosa creare le necessarie cooperazioni internazionali).

Non so se Melenchon pensasse davvero di vincere le presidenziali del 2017 (nel 2012 alla testa del « Front de Gauche »aveva a totalizzato quasi il 12% dei suffragi). È arrivato (al primo turno) a soli 3 punti da Macron, ma solo al quarto posto. A partire da questa data qualche cosa si è rotta all’interno della FI: i fantasmi dell’unione delle sinistre hanno cominciato a riapparire. Alcuni dirigenti della FI non nascondono più la nostalgia delle sinistre unite, anche se in realtà si tratterà di centro-sinistra, altri mettono qualche bemolle alla critica dell’UE, altri ancora se ne vanno o sono cacciati perchè al posto della sovranità repubblicana si parla sempre più ecologia puritana, comportamentale e sanfrontierista.

È in questo contesto fatto di indignazione, di voglia di qualche cosa di differente, di depressione vista l’impossibilita di bloccare la locomotiva dell’inegualgianza e dell’ingiustizia, ma anche di perplessità di fronte all’esplosione dell’ideologia ecologista che giudica il comportamento dell’uomo qualunque più grave di quello dei grandi responsabili dell’economia mondiale, che arrivano i «Gilets Jaunes».

Bisogna dire che il governo di Macron non smette di mettere tutti sotto pressione. Da quando è stato eletto, non passa mese senza dover pagare qualche cosa di nuovo : tasse, labelli, ma anche diminuzione di questa o quella prestazione sociale. Ce n’è per tutti ! Deve riempire i buchi provocati dai regali offerti al grande patronato, presi evidentemente sui denari della nazione!!

Un bel giorno, il suo governo decide di abolire la tassa dei ricchi, l’ISF (impots sur les grandes fortunes).

Subito dopo, in seguito a una campagna demenziale contro i motori diesel, il governo annuncia un aumento sostanziale di questo carburante. Ora, il ricavato di questa nuova tassa è destinato non a opere di natura ecologica, ma a riempire il buco finanziario provocato dall’abrogazione dell’ISF.

300.000 gilet gialli (probabilmente molti di più) invadono le strade di Parigi e le gradi rotonde presenti in tutti gli incroci stradali. Macron, sbruffone di natura, annuncia : se avete qualche cosa da dire venitemi a cercare!! Decine di migliaia si dirigono verso l’Eliseo al grido «Macron demission».

La polizia reagisce duramente e riesce a fatica a respingere la presa dell’Eliseo.

Il regime ha paura, il ministro degli interni applica una politica repressiva degna di Augusto Pinochet: 11 morti, circa 4.500 accecati o feriti gravi e 10.000 arresti, di cui un terzo condannati a più di un anno di carcere.

Ma chi sono questi «Gilets Jaunes» ?

La sinistra francese è completamente sgomenta: socialisti, verdi, qualche dirigente comunista e sindacale e persino qualche dirigente della FI denunciano una provocazione dell’estrema destra.

La tenacia e le revendicazioni dei Giles Jaunes chiudono quasi subito la bocca a questi controrivoluzionri professionisti.

Melenchon se ne accorge e non solo li sostiene, ma comincia a partecipare alle loro lotte. Cerca sicuramente di ricomporre la sua France Insoumise, ma è già troppo tardi.

Il 26 maggio 2019 la «France Insoumise» passa dal quasi 20% delle presidenziali a poco più del 6% alle europee. Sono parecchi milioni di voti, probabilmente finiti nell’astensione.

La lotta di classe e la difesa della sovranità Repubblicana ha lasciato il posto all’ecologia radicale, nella prospettiva dell’unione delle sinistre.

Un anno di manifestazioni dei «Gilets Jaunes» ha profondamente modificato la mentalità dei francesi. Se il numero dei manifestanti è certamente diminuito, sicuramente la paura della repressione ha avuto il suo peso, il consenso popolare è sempre molto forte. Le inchieste d’opinione hanno dimostrato che i Gilets Jaunes sono molto sostenuti all’interno del mondo del lavoro, ma non solo.

Non c’è corporatismo nelle loro lotte, l’uguaglianza e la ridistrubuzione delle ricchezze sono sempre presenti nelle loro rivendicazioni. Molti sindacalisti di base (soprattutto della CGT) si uniscono a loro e partecipano alle assemblee dei «Ronds-points» (le rotonde stradali). La lotta di classe è di ritorno, le favole buoniste o allarmiste dell’ideologia neoliberista non pagano più.

È in questo contesto generale che il 5 dicembre è cominciata «La Grande Grève» contro la riforma delle pensioni.

Dal primo giorno (più di un milione e mezzo di manifestanti) si respira un’aria che ricorda i grandi scioperi del 1995, ma c’è ancora piu rabbia: si ha l’impressione che la riforma delle pensioni sia solo la scintilla che finirà per provocare l’incendio. Questo sciopero rischia di trasformarsi in movimento anti Macron, ma soprattutto anticapitalista e antiliberista. I dirigenti sindacali lo sanno bene e cercano di controllare la propria base.

Cosa succederà quando questo ciclo di lotte si esaurirà? Rivedremo il ritorno delle sinistre unite, come dopo le lotte del 1995? Nel 1997 nacque il governo Jospin con tanto di ministri comunisti. L’integrazione nell’UE fu accelerata per diventare quasi irreversibile, le privatizzazioni dei servizi pubblici hanno battuto ogni record. Cinque anni dopo Jean Marie Le Pen si qualificava per il secondo turno delle presidenziali e l’astensione, nei quartieri operai, ha cominciato a salire.

Non so se nasceranno altri movimenti o partiti come è stato il caso per la France Insoumise, per Podemos in Spagna o per altri ancora. A dir la verità non penso che la riproduzione di queste esperienze siano oggi la cosa più importante.

Un altro modo di pensare la strategia, deve apparire. Ricordo spesso una vecchia intervista di Mario Tronti, nella quale evocava come prospettiva del ciclo di lotte, la nascita di un embrione di Stato Operaio.

Pensiamo alla riconquista da parte dello Stato della sovranità monetaria e immaginiamo che la ratio del debito cambi completamente di natura: niente più debiti con i mercati finanziari privati in una moneta che appartiene loro, ma al contrario un debito contratto con i propri cittadini e la propria moneta per la creazione di nuovi posti di lavoro, sopprattuo nei servizi pubblici.

Immaginate di poter produrre la ricchezza necessaria per rendere possibile la riduzione del tempo di lavoro e distruggere la precarità e la miseria, immaginate ancora il recupero della sovranità politica e diplomatica per potere quindi cominciare a produrre una cooperazione internazionale differente dal neocolonialismo attuale, immaginate infine di conquistare l’indipendenza politica e di permettre ad un’economia pianificata di imporre dei controlli reali sui disastri ambientali oggi prodotti dall’economia di mercato...

Chi ha sostenuto i «Gilets Jaunes» in Francia o il Brexit in Inghiltarra è a queste cose che pensa, non ai voli pindarici per ottenere una maggioranza in parlamento.

Fonte

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