Ma a noi che importa dei Måneskin?
Sarebbe facile rispondere nulla, ma è inevitabile lasciarsi incuriosire
quando si manifesta un fenomeno globale. E questi quattro ragazzi
romani lo sono eccome. Per accorgersene basta aprire un caro vecchio
social media della neo-Meta famiglia. In poche parole: gli addetti ai
lavori musicali paiono rincretiniti come nonni a cui è nato un nipote.
Aprono il cellulare e mostrano ai parenti, ai passanti al supermercato,
agli sconosciuti in metro, le foto dei Måneskin, “I nostri ragazzi”. I
patriottici paiono aver trovato un vessillo dell’esportazione di
un’italianità nell’universo; al fronte contro Drew Barrymore, in trincea
contro Jimmy Fallon.
Fino a poco tempo fa questi ragazzi erano un
enigma solo nostro. Se per qualche anno sono parsi semplicemente
l’ennesima incarnazione della Locura all’italiana di "Boris",
in pochissimi mesi hanno fatto qualcosa che nessun altro artista nella
storia della musica italiana era mai riuscito anche solo ad immaginare. E
quello che è avvenuto non può essere attribuito esclusivamente alla
vittoria di un paio di kermesse televisive. I quattro romani, a mano a
mano che la soggettiva si faceva più macro, hanno evidentemente
polarizzato un bisogno globale. Ma un bisogno di cosa, esattamente?
Senza molto più che un’immagine caricaturale, la band ha fatto la rivoluzione
dell’industria discografica italiana di ogni tempo. Un sogno talmente
grande da sembrare irreale: l’Europa, gli Usa, la Tv americana, duetti
con leggende, concerti di spalla ai Rolling Stones,
tour mondiali e sold out. Si può verosimilmente immaginare un futuro
non lontano fatto di arene e stadi in tutto il mondo. Grandezza: la
parola chiave dell’oggi. More is more, villaggio globale, New York e Parioli a un tiro di schioppo, per esportare un riff che raduni le folle o diffondere una pandemia che le disperda.
Ma il plebiscito provocato dal gruppo non è da ricondurre alla musica. La
loro fama è esplosa con la cover di una cover e con una canzone contro i
professori scritta su un riff che un chitarrista youtuber
a caso avrebbe potuto improvvisare in un video di 10 anni fa. E noi,
con grande sbigottimento, scopriamo addirittura di rimpiangere i Greta Van Fleet, che nel loro essere ridicolmente derivativi appaiono a confronto addirittura troppo cerebrali e stratificati.
Nonostante
una proposta al limite della sufficienza anche nell’ambito del revival,
il grosso problema degli Italian Fab Four non è la musica. Il reale
grattacapo è che i quattro ventenni piacciono ad ogni generazione.
Piacciono ai bambini, agli adolescenti e ai loro genitori. Piacciono ai nonni,
perché i nonni di oggi non sono più quelli che han fatto la Seconda
Guerra Mondiale, ma casomai quelli che ci sono nati in mezzo e il rock
lo han vissuto da vicino o lo hanno fatto. Hanno schiere di difensori,
tastiere e smartphone alla mano, di 50, 8, 60, 25, 70, 13, 10, 19 anni.
Ma i Måneskin per chi cantano? Per chi suonano? È strano. Sono un’effigie
che cristallizza un meraviglioso cliché estetico fuori dal tempo, fuori
dallo spazio, fuori dai contenuti e da ogni profondità.
Da un punto di vista empirico, non rappresentano apparentemente nulla e
nessuno. Sono italiani, ma fanno musica anglofona. Cantano un po’ in
lingua madre e un po’ in inglese. Fanno un po’ cover e un po’ pezzi
propri. Sono romani, ma questo non emerge da nessun elemento se non dai
loro accenti. Hanno 20 anni nel 2021 ma fanno musica che era considerata
da dinosauri già alla fine degli anni Settanta. Non appartengono a un
luogo, né a un’era.
Molti li hanno paragonati agli Abba
e all’inizio questo parallelismo poteva anche apparire convincente. Ma
riflessioni approfondite inducono a ricredersi. Gli Abba facevano disco music negli anni della disco music. I Måneskin fanno, molto scolasticamente, un hard/funk/rock sfigo-semplice negli anni del post-tutto.
E il risultato è un’isteria mondiale collettiva che (con le dovute
proporzioni ma dai, capite cosa si intende) sfiora la Beatlemania (poi
c’è anche chi è arrivato davvero a paragonarli ai Beatles, come il loro mentore Manuel Agnelli).
L’attaccamento mondiale a questa retro-ossessione è talmente morboso da
far pensare quasi a una qualche forma di psicosi collettiva. Ma che
succede?
I nonni del rock, i grandissimi che veneriamo da anni
negli abitacoli delle nostre utilitarie, sembravano non vedere l’ora di
elargire caramelle e buffetti sulle guance a qualche potenziale nipote.
Da un rincoglionitissimo Iggy Pop a Little Steven, da Chris Frantz (sigh) a Simon Le Bon,
in tantissimi hanno appeso sul frigorifero i disegni di Damiano,
Victoria, Thomas e Ethan. “Sapete, una volta anche io suonavo, mi
ricordate me da giovane”, sembrano pronunciare durante una grande festa
di fine anno. E in Italia è anche peggio. Dallo stesso Agnelli a Massarini, da Guglielmi a Castaldo, tra i veterani dell’alternative e del classic rock il mood generale sembra essere sempre lo stesso: ce l’hanno fatta! Viva la musica, viva il rock! “I nostri ragazzi”!
Intanto gli studenti delle Elementari che suonano (pochi) vogliono imparare i loro scialbi riff e i ventenni li ascoltano a tutto volume fuori dalle università.
Ma è proprio questa assoluta trasversalità del successo dei Måneskin a nascondere qualcosa di distorto.
Loro ce la mettono tutta. Damiano canta da paura, Victoria è una bass heroine con un girl power
pazzesco che certamente non può che rappresentare qualcosa di
significativo per le ragazze di tutto il mondo. Thomas ed Ethan sono i
nerd della scuola che ce l’hanno fatta.
Ce la mettono tutta, dicevamo, per presentarsi come “un segno dei tempi”, per imporsi sulla
scia del qui ed ora, ma il problema è che la band segna una tacchetta
più in su verso la classicizzazione di quella poltigliona che abbiamo
sempre chiamato rock. Classicizzazione, ossia la sua definitiva
imbalsamazione in una bella teca eterna. La sua messa in vetrina, il suo
effettivo funerale con tanto di omaggio alla salma.
I loro strenui difensori (o follower,
che dir si voglia: i fan non esistono più) vedono in loro la rinascita
di qualcosa che da ragazzini, prima di iniziare a conoscere l’agenzia
delle entrate, chiamavano rock. Ma tutto cambia perché i riff
non cambino. La band è l’ultima prova del fatto che il rock ha fatto la
fine del jazz, la fine dell’opera o dell’arte figurativa.
I movimenti di rottura sono roba da giovani, fino a che non diventano reazionari.
Il bebop era musica da depravati per chi era nato a metà Ottocento. Il
rock era scandaloso per chi era nato ai primi del Novecento. Il primo
punk era schifoso per, beh, quasi tutti. E anche l’odierna trap è un
linguaggio di distacco fieramente generazionale. I movimenti hanno
sempre fatto questo: se piace ai genitori, qualcosa non va.
Ma i quindicenni di tutto il mondo si tuffano nell’adorazione di un gruppo di
poco più della loro età che suona però come quello che ascoltavano i
loro genitori e i loro nonni. Freud, dove sei?
Oggi il bebop è chiaramente roba da preistoria. Charlie Parker e il Miles Davis elettrico? Sono la stessa cosa. La musica barocca è come la Gioconda. Picasso è come Raffaello, Basquiat è come Van Gogh. I Led Zeppelin come i Nirvana. Qualcuno ricorda le singole rivoluzioni di questi artisti? È tutto un polverone di nome “classico”.
Il classico è il passato e il passato è la stessa grande matassa. È storia
dell’arte. Dove c’è la storia dell’arte, c’è il museo e i Måneskin non
sono altro che una stanza di quel museo, un itinerante Louvre della rock culture,
quello che sarà il rock da ora in poi. Di più: quello che sarà il
nostro ricordo dell’intera musica del Novecento da ora in poi. Vedendola
da questo punto di vista, questi ragazzi non rappresentano nemmeno la
fine. Rappresentano l’inizio di quello che c’è dopo la fine. L’inizio di
un futuro in cui la musica non parla più nemmeno del suo presente, in
cui l’arte è semplicemente un ricordo, che parla del ricordo. Ecco il
bisogno mondiale che sta portando al successo di questo super-musical
itinerante vestito da band: il bisogno di una rassicurante assenza del
presente.
Chi aveva 15 anni agli inizi del Duemila sa che “la morte del rock” era un refrain
già piuttosto abusato. I quattro paladini di “X Factor” certificano un
passaggio ulteriore, in atto già da diverso tempo, da quando tutto è
diventato liquido, da quando ci avvolge la Rete: non è morto solo il
rock, è finita la necessità generazionale di creare una identità
musicale. La musica “as we know it” non è un genere, è un’attitudine.
Non è il rock, la musica leggera o il pop: è un calderone più grande, è
l’epoca discografica. Lingua morta uccisa dall’era del silicio. Da
studiare a scuola e guardare nelle rievocazioni storiche, disgregata
lentamente dalla “distruzione delle varie realtà particolari”, l’unico
vero principio della globalizzazione.
I ragazzi di oggi non sanno
cosa farsene della musica, di un movimento che appartenga solo a loro.
In questo senso, ecco che la mancanza di una proposta stilistica
realmente significativa diventa una risorsa per i Måneskin: non
piacciono per la musica, ma in effetti per una sorta di non-musica, per
una straordinaria, liberatoria, superlativa capacità di non prendere
nessunissima decisione, di non imporsi. Di essere generici.
In un mondo globalizzato, futuristico e pandemico, i Måneskin sono la perfetta colonna sonora per l’alienazione diluita. Un Frankenstein show
lontano dal proprio tempo, lontano dal proprio spazio, che rifugge la
profondità in un ballo (della vita) in maschera, per ragazzi che
invecchiano al posto dei propri genitori. Un futuro prossimo in cui la
musica non è più un faro nella ricerca dell’identità, non identifica più
nessuna contro-cultura per trovare speranze in un mondo disperato. Ma è
solo un’ombra sfumata, lontana, svuotata da ogni emozione ed esposta
nei libri. Niente più che fotografie dal passato per agghindare il
Metaverso che, implacabile, sta venendo a prenderci.
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