L’articolo 53 della Costituzione della Repubblica recita testualmente “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.”
Dunque, in punta di Costituzione, il sistema tributario dovrebbe essere informato a criteri di progressività. E Il principio di progressività è il criterio generale a cui secondo l’art. 53, co. 2, della Costituzione si ispira il sistema tributario.
Tale principio deve essere inteso come una particolare accezione del criterio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, co. 2, della Costituzione, in quanto contribuisce a eliminare all’interno della comunità statale tutti gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
In base a esso, infatti, il sistema tributario dovrebbe prediligere i tributi progressivi, vale a dire quelli che incidono in misura superiore sui soggetti che mostrano una maggiore attitudine alla contribuzione (nelle imposte progressive l’aliquota aumenta con il crescere della base imponibile).
Un sistema tributario caratterizzato dalla progressività dovrebbe, pertanto, pesare in modo più che proporzionale nei soggetti dotati di maggior ricchezza e meno che proporzionale nei soggetti più poveri.
Ciò comporta una redistribuzione della ricchezza stessa, con riduzione delle disuguaglianze tra i cittadini contribuenti (evasori ed elusori a parte).
Insomma, il carattere della progressività è riferito al sistema tributario nel suo complesso, non a specifici tributi o a singoli profili degli stessi. In buona sostanza, si richiede che ai tributi a struttura progressiva sia assegnato valore caratterizzante del sistema.
Ma in che direzione va la riforma fiscale del governo Draghi che introduce una revisione delle aliquote Irpef nel 2022?
Secondo le notizie che circolano da qualche settimana, le nuove aliquote Irpef 2022 prevederanno una riduzione, passando dagli attuali 5 scaglioni ai 4 stabiliti dal taglio Irpef. Ci sarà la cancellazione dell’aliquota Irpef al 41% e il taglio di tre punti di quella del 38% che passa al 35%.
I nuovi scaglioni Irpef 2022 cambierebbero nel nodo seguente:
– I redditi fino a 15mila euro restano con una aliquota al 23%
– lo scaglione compreso tra 15mila e 28mila euro passa dal 27% al 25%
– la fascia 28-50mila cambia aliquota dal 38% al 35%.
Ma la novità più odiosa e fortemente iniqua delle nuove aliquote Irpef è quella che riguarda le fasce più facoltose. Chi ha un reddito di oltre 50mila euro passa direttamente al 43%. Ed anche le detrazioni verranno “profilate” per portare un vantaggio anche per i redditi sopra i 50mila euro.
Con le nuove aliquote Irpef, senza tener conto dell’impatto che potrà avere la revisione anche della no tax area e delle detrazioni, si prospetterebbe la situazione seguente:
– fino al primo scaglione di reddito (15.000 euro): tassazione invariata;
– da 15.000 a 50.000 euro: risparmio d’imposta crescente fino al picco massimo (920 euro l’anno in meno) per redditi pari a 50.000 euro;
– da 50.000 a 75.000 euro: risparmio di imposta decrescente fino a 270 euro per redditi pari a 75.000 euro;
– da 75.000 euro in poi: risparmio “fisso” d’imposta pari a 670 euro.
Per l’Unione Sindacale di base “resta quindi in piedi e per certi versi si approfondisce un impianto fiscale regressivo, mentre naturalmente permane per le imprese quella vergognosa flat tax di fatto (24 per cento) e per i redditi di capitale la sottrazione al meccanismo della progressività dell’imposta [...]
Alcuni conti circolati in queste ore già evidenziano che il vantaggio sarà chiaramente nullo per il primo scaglione, ammonterà a pochi euro di riduzione fiscale per chi guadagna poco oltre i 15.000 euro, circa 260 euro l’anno per chi guadagna sui 28.000 euro, fino a circa 1070 euro per chi guadagna sui 55.000 euro e circa 670 euro per coloro che superano i 75.000 euro.
La fotografia è chiarissima: si avvantaggia il segmento medio alto, le fasce di reddito che avrebbero più bisogno di un effetto redistributivo vengono completamente ignorate e soprattutto si assesta un ulteriore colpo alla progressività verso l’alto poiché si equipara un reddito di 50.000 euro a quelli milionari magari percepiti da un top manager.
In sintesi si conferma la principale causa di iniquità sociale del nostro sistema fiscale: l’elevata aliquota media pagata dai redditi medio bassi e la scarsa distanza tra questa e quella pagata da chi percepisce redditi elevatissimi...”.
Insomma, un bel governo Robin Hood alla rovescia che prende ai poveri per dare ai ricchi.
Un paio di decenni fa un certo Cossiga si atteggiava a “picconatore” della Costituzione. Mario Draghi non si accontenta di metterla in discussione; forte del mandato blindato conferitogli dall’Unione Europea e dall’endorsement della grande finanza internazionale, la deturpa, a suo piacimento, per mezzo di una legge ordinaria – la legge di bilancio – e i costituzionalisti muti.
Certo, cos’altro ci si poteva aspettare da uno come Draghi che ora tutti, da destra a “sinistra”, vedono come una divinità?
In fondo Mario Draghi è lo stesso uomo che, dal 1991 venne chiamato dall’allora ministro Guido Carli a fare il direttore generale del Tesoro, su suggerimento del governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e che avviò un’ondata di privatizzazioni selvagge: chiusura dell’IRI, Eni, Enel e, soprattutto, l’allora Sip.
Una serie di cessioni, rimpalli, rimbalzi di responsabilità che decuplicò il debito, a ridusse del 40% gli investimenti industriali bruciando più di 70mila posti di lavoro.
Lo stesso uomo che, dal 2002 al 2005, fu vicepresidente e membro del management del Committee Worldwide di Goldman Sachs, proprio nel periodo in cui in America le banche d’affari erano scatenate in manovre speculative e scavavano il baratro finanziario che si è materializzato nel 2008, trascinando in rovina il resto del mondo.
Lo stesso uomo che, nel 2015, da presidente della Banca centrale europea, decretò l’esclusione della Grecia dal programma di quantitative easing. Un provvedimento che avrebbe potuto evitare il disastroso ‘terzo memorandum’.
Una decisione fondata sull’assunto (sbagliato, naturalmente) che quella greca fosse una “crisi incontrollabile” e che contribuì – sotto la minaccia della cacciata della Grecia dall’eurozona – a seminare il panico (chiusura delle banche e dalle limitazioni ai prelievi bancomat) in un Paese già da tempo ricattato e messo in ginocchio con l’unico scopo di imporgli i diktat dei suoi creditori.
E che produsse la definitiva capitolazione di un popolo costretto a subire l’ennesimo piano di “salvataggio” da parte di quelle istituzioni europee che, in cambio, pretesero un’ulteriore ondata di tagli e macelleria sociale in un paese già devastato da cinque anni di “riforme” e feroce austerità.
Insomma, SuperMario non è mai stato un filantropo e l’ottima reputazione (la cosiddetta accountability) di cui gode presso i maggiori circoli finanziari mondiali, il nostro “divino” Presidente del Consiglio se l’è guadagnata mandando al macero fondamentali beni comuni ed al massacro sociale milioni di persone ingannate dalle false promesse di gente tipo “Lupi di Wall Street”.
Contro le misure economiche del governo Draghi, contro i licenziamenti, le privatizzazioni, le delocalizzazioni ed il carovita, per la giustizia climatica e sociale, il sindacalismo di base propone una Giornata di protesta nazionale per il prossimo 4 dicembre denominata “No Draghi Day” ed ha invitato tutti i movimenti e le realtà sociali e politiche a costruire la mobilitazione in forma unitaria e condivisa.
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