C'è stato un periodo, a cavallo fra vecchio e nuovo millennio, in cui un turbinio di suoni invase il mondo della musica. Le ceneri delle esperienze dream-pop e new wave/post-punk degli anni '80 confluirono nel nuovo decennio con l'inizio di nuova ondata che poco aveva a che fare con il recente passato: fu il momento di una musica che veniva da tradizioni dub, la cui genesi aveva radici totalmente diverse. Stava per iniziare l'era del Bristol Sound, un periodo di una manciata di anni in cui due-tre collettivi sconvolsero le coordinate a cui eravamo abituati.
Nel solco di queste esperienze, vi fu chi aveva intenzione di andare oltre, prendendo spunto dai due decenni precedenti per proporre qualcosa di nuovo. È in questo contesto che si inserirono i Bowery Electric, un duo nato nel 1993 a New York dal sodalizio fra Martha Schwendener e Lawrence Chandler. Nelle loro intenzioni c'era la volontà di impastare vari elementi, fra cui drone-music, shoegaze e una forma trasfigurata di post-rock. Nei primi due album (soprattutto in "Beat") la loro formula musicale si rese immediatamente chiara, anche se parzialmente efficace: le influenze erano davvero tante e non fu facile far confluire tanti spunti in un risultato compiuto.
La folgorazione con il trip-hop e forse anche i quattro anni di pausa di riflessione permisero al duo newyorkese di arrivare all'alba dei Duemila con le idee ben chiare. "Lushlife" è un album che pullula di suoni lontani e seducenti, ognuno dei quali apre una sorta di portale. "Lushlife" evoca il ronzio di una città notturna malconcia e umida. "Lushlife" incorpora dentro di sé gli arrangiamenti di una sinfonia incompiuta. "Lushlife" è l'album che avrebbe dovuto lanciare una carriera gloriosa e invece fu l'inizio della fine. In una sorta di racconto al contrario possiamo fin da subito dichiarare che la pubblicazione di questo album sancì la fine dell'esperienza dei Bowery Electric. Vari fattori, fra cui lo scarso riscontro di pubblico, spinsero i due a mollare definitivamente nonostante la critica li avesse acclamati ovunque.
Per chi scrive fu un'autentica disgrazia, in quanto questo album avrebbe meritato non solo un seguito ma un ritorno di popolarità proporzionale al suo valore. In "Lushlife" confluiscono magistralmente le lezioni dei maestri dello shoegaze e i ritmi del trip-hop, c'è dentro tutta la malinconia del Philly Sound dei vari Gaye e Mayfield, c'è perfino il tentativo di piazzare un singolo ("Freedom Fighter" è o non è a suo modo pop?), il tutto impastoiato da un'irresistibile seduzione per le colonne sonore cinematiche.
Quest'ultimo spunto è una costante di tutto l'album: ogni campionamento o frangente strumentale denota un'innata predisposizione a creare landspace che paiono avere una vita oltre la canzone. Risulta davvero difficile uscire vivi da questa opera, fra ritmiche serrate e sommesse immerse e sciolte in un mare di scratch, chitarre shoegaze, archi campionati. Una musica notturna, fumosa, sordida. Nonostante gli strumentali abbiano il sopravvento sul cantato, la voce di Martha è un sogno ad occhi aperti: profonda, troppo profonda, quasi dolorosa da ascoltare, capace di emozionare in ogni frangente.
Il disco si apre con le atmosfere nebulose di "Floating World". Fra sibili elettronici e pattern di violino che vengono lasciati andare liberi, notiamo in sottofondo note di basso pulsante che si accoppiano con un battito caracollante e ripetitvo, formando un collante ritmico di supporto alle melodie. La cantante, con l'oscurità nel cuore e un po' di indolenza, conduce il brano in maniera magistrale. Nella title track dominano atmosfere adatte per un film noir futuristico ambientato in un quartiere oscurato dalla notte più buia: innesti di chitarra si incastrano perfettamente con il beat incalzante, rumori di sottofondo paiono corde triturate, la voce è il canto di un angelo solitario, quasi un cantato dream-pop tanto è leggiadro e sognante. Una delle trovate più azzeccate dell'album è proprio questa: accostare due cose apparentemente discordanti come una voce distesa e un contesto ritmico di tutt'altro regime, molto sostenuto e deciso. Il basso suonato dalla cantante mette insieme una serie di note che fanno rimbombare le orecchie, cesellando uno sciabordare duro e cattivo.
"Shook Ones" accentua la componente ritmica imbastardendo la risonanza della cassa, questa volta acida e metallica, con la voce che segue lo stesso registro con l'aggiunta di qualche intervento elettronico. I sample che si fanno vivi nel centro del pezzo sono ancora campionamenti di strumenti classici con particelle digitali che si librano come bollicine nell'aria. "Psalms of Survival" è più calma e fosca, incentrata su una serie di note ad alto tasso tossico, la tastiera questa volta ripete le solite tre note per tutto il pezzo, riuscendo a creare un circolo vizioso dagli effetti devastanti; si avverte ancora in lontananza qualche intervento elettronico utile ad arricchire un pezzo già di per sé stupendo e contagioso.
"Soul City" può essere considerato come un fraseggio strumentale per calmare le acque: l'impianto basso-drum-machine-tastiere riesce a costruire una melodia sorprendente, inaudita. Sorprende la facilità di questo duo nel riuscire a mettere insieme con pochi mezzi dei motivi sonori a loro modo complessi e sensualissimi.
A metà scaletta si piazza l'unico singolo che verrà estratto dal disco, "Freedom Fighter". In questa traccia si percepisce fortissima l'influenza shoegaze, con le chitarre sature di riverbero e feedback. Negli interstizi dei campionamenti fra i più disparati (oltre ai già citati strumenti classici si sentono clangori industriali) si insinuano muri di rumore chitarristico e droni elettronici. Se non si tratta di un capolavoro, poco ci manca. Bellissimo anche il videoclip, un inno alla libertà girato con toni chiaroscuri, perfettamente in linea con la canzone.
Sul finire del disco si susseguono con grande naturalità il trip-hop mutante di "Saved", una ballata dub dalle tetre fattezze ("Deep Blue"), la notte vista al rallentatore, con lo sguardo rivolto verso la luna ("After Landing"). Le atmosfere si differenziano sempre e non si coglie mai un'ombra di ripetitività.
In coda al disco forse il pezzo più coraggioso, "Passages". Suoni elettronici al limite dell'ambient, assenza di chitarre, forte fiducia nell'ugola di Martha che si prende la responsabilità di rimanere con il solo apporto del beat fino alla metà del pezzo. Il risultato finale sono sei minuti di completa estasi sognante alla Labradford, fra un charleston che sbatte, suoni diluiti e perforanti che lasciano la mente intorpidita, piccoli cristalli di suono che luccicano con forza commovente. La deriva finale composta da fraseggi vocali, scratch e piccoli accordi di chitarra è ciò che si può permettere un disco coraggioso come questo.
"Lushlife" è il disco che tutti gli amanti del trip-hop dovrebbero possedere, l'opera che tutti gli amanti della musica almeno una volta nella vita dovrebbero ascoltare. Il canto del cigno di una band il cui insuccesso rimarrà sempre un mistero.
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