A fine marzo, le parole che il ministro del Made in Italy ha pronunciato a conclusione della presentazione di uno studio dell’Osservatorio Nazionale Automotive hanno suscitato diverse domande. Adolfo Urso ha infatti detto che “sull’estrazione di terre rare l’Italia si sta muovendo in anticipo”.
Dopo che la Commissione Europea ha deciso di non bandire la produzione dei motori endotermici, pur sempre seguendo consolidate gerarchie europee, la sfida nel settore automobilistico rimane la transizione all’elettrico. Su di essa è però la Cina ad avere il primato, sia per quanto riguarda la ricerca e sviluppo sia per l’accesso a materie prime imprescindibili.
L’annuncio enfatico sulla reattività italiana nella filiera è pura propaganda, tanto più se è lo stesso Urso che, riguardo i giacimenti, dice a Repubblica che col ministro dell’Ambiente stanno aggiornando “una mappa che è ferma da oltre 30 anni”. La mappatura delle terre rare era infatti stata lasciata ai privati: un’altra “grande vittoria del libero mercato” sulla pianificazione pubblica...
Ad ogni modo, è interessante elencare le opportunità estrattive indicate dal ministro delle imprese «nazionali». Ha citato le stime di un tavolo di lavoro che ha individuato 15 dei 34 elementi critici nella penisola, a suo avviso con ulteriore potenziale da sfruttare attraverso fondi europei.
Ma è l’ottimismo, insieme alla pressappochismo di Urso, a confermarci che siamo nelle mani di una classe dirigente di passacarte. Il ministro dice infatti che siamo i “primi in Europa” per cobalto, oltre a inventarsi la presenza di litio in Liguria, scambiandolo col titanio con conseguente canzonatura pubblica de Il Secolo XIX, quotidiano storico di Genova.
Comunque, terre rare in Italia effettivamente esistono. Sono multinazionali australiane a portare avanti ricerche e progetti di estrazione nel nostro paese, in zone vergini ma anche guardando a siti ormai dismessi, ma che le nuove tecnologie e i nuovi interessi potrebbero far tornare a vivere.
Se in Liguria il litio non c’è, c’è però come detto il titanio: il giacimento di Pianpaludo è uno dei più grandi al mondo. Il colosso minerario Altamin sta affrontando alcune tensioni con i cittadini del Levante ligure, perché una grande area di circa 8 mila ettari è diventata di interesse per l’azienda per la possibile presenza sostanziosa di varie materie prime.
Vulcan Energy e l’impresa già citata stanno esplorando pozzi aperti nel corso degli anni Settanta, uno ad appena 20 km da Roma e altri in Campania, dove le acque analizzate hanno segnato 500 mg di litio per litro di soluzione. Che poi ce ne sia una quantità economicamente conveniente da estrarre è ancora da vedere.
Lo stesso vale per il Progetto Punta Corna, in Piemonte. Lì, dove sin dal XVIII secolo il cobalto era usato come pigmento, Altamin ha individuato aree promettenti, e ha dunque chiesto autorizzazioni anche per i distretti minerari storici del Monte Bianco e della Corchia in Toscana, effettivamente ricchi di rame, manganese e, appunto, cobalto.
Da qui ad affermare che siamo i primi nel continente per il minerale ce ne passa. E la maniera in cui il privato sta piegando il pubblico alle sue mire è preoccupante, come in molti altri settori: nel nuovo corso dei siti di Gorno, chiuse decenni fa e per le quali nell’attività di esplorazione sono coinvolti anche le università di Torino e Napoli.
Insomma, il governo italiano sembra voler raschiare il fondo – e sventrare diversi territori se necessario – per diventare un fulcro dell’economia delle automobili elettriche. La determinazione non manca, se parlando di alcune proteste Urso si è scomodato a citare Mao, dicendo che “la transizione non è un pranzo di gala”.
E del resto, a proposito di Cina, trovare terre rare è fondamentale nella competizione col Dragone, e il mondo occidentale le cerca persino sulla Luna con il progetto Artemis, in cui collaborano NASA e Agenzia Spaziale Europea, e in cui l’Italia è in prima fila. Appena prima di Pasqua proprio Urso ha partecipato a un convegno alla Sapienza, sul ruolo dell’Italia nella corsa allo spazio del terzo millennio.
Per raggiungere questi scopi, Urso ribadisce il mantra draghiano del «più stato per il mercato». “Configurare una politica industriale nel paese, che manca dallo smantellamento delle partecipazioni statali”, perché “con la caduta del Muro di Berlino si pensò che le forze di mercato da sole fossero sufficienti allo sviluppo industriale”, ma oggi non è così. Parole pronunciate da chi di certo non è un nostalgico dell’Unione Sovietica.
Appare evidente però che le idee del governo Meloni sono ancora poche e confuse, anche se ben incastonate dentro un cambio di passo delle politiche comunitarie. Il ministro italiano ha affermato che la UE, per evitare di diventare un “museo all’aria aperta per ricchi cinesi o americani”, deve emergere come “primo polo tecnologico e industriale” del mondo intero. La competizione inter-imperialistica è viva e vegeta.
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