La Siria, dal 2011 in avanti, ha rappresentato quasi una cavia da laboratorio dell’evolversi disordinato dei rapporti di forza sullo scenario globale, che sta sfociando nella “terza guerra mondiale a pezzi”, come da citazione di Papa Francesco.
Il risultato è una catastrofe senza precedenti per una popolazione che in precedenza viveva in un contesto di relativa concordia fra la maggioranza araba e le altre etnie, di decenti condizioni materiali rispetto al contesto medio-orientale e di relativa laicità della vita pubblica.
Ma che, successivamente si è trovata in ampie porzioni del paese e, ancora si trova in alcune aree, sotto il gioco dell’islamismo più oscurantista oppure sballottata in condizioni di marginalità nelle varie metropoli medio-orientali ed europee o in campi profughi lager e di fortuna, in una diaspora di dimensioni bibliche non ricomponibile per i prossimi decenni.
Dopo le rivolte di matrice per lo più islamista del 2011, preconizzando una rapidissima caduta dello stato siriano, così come accaduto altrove in forma più o meno sanguinosa, un’ampia alleanza composta dagli imperialismi occidentali, dalla Turchia e dalle petromonarchie del Golfo, diedero vita ad una guerra ibrida volta all’isolamento internazionale del paese.
Vi furono sanzioni, offensive diplomatiche, una guerra mediatica tramite ong a colpi di documentazione falsa ed una guerra guerreggiata sul terreno tramite proxy che portarono rapidamente all’espulsione del paese dalla Lega Araba e da molti consessi internazionali, a sottrarre al governo molti territori, a dipingere il Presidente Bashar al-Assad come il centesimo “nuovo Hitler”.
Finanche alcuni storici alleati palestinesi protetti in Siria, come i dirigenti di Hamas, aderirono alla campagna di isolamento.
Tuttavia, la crisi di egemonia degli USA provocò rapidamente la polverizzazione di questa “union sacrée” contro la “spregevole dittatura di Assad”, in quanto ciascuna delle varie potenze regionali perseguiva i propri obiettivi in maniera autonoma da Washington.
Pertanto, si è avuta l’emersione disordinata di diversi attori locali frutto di tale competizione: l’Isis e Al-Nusra, finanziate direttamente dalle parti più retrive delle petromonarchie del Golfo, altre truppe islamiste legate a Turchia e Qatar; oltre al Rojava, semi-stato guidato da forze di matrice ideologica riconducibile al PKK, poi alleatesi con gli USA e contrapposte alla Turchia.
Gli autori della destabilizzazione della Siria, tuttavia, hanno dovuto fare i conti sin dall’inizio con l’atteggiamento di Russia e Cina che, “scottate” dal precedente libico, hanno sin dall’inizio posto il veto in Consiglio di Sicurezza ONU rispetto all’espulsione definitiva del governo siriano dalla comunità internazionale e hanno impedito l’intervento diretto USA, tentato dall’Amministrazione Obama per far cadere definitivamente Assad, ucciderlo e “mettere ordine” sul terreno.
Successivamente, nel 2015, la Russia è a sua volta intervenuta massicciamente sul terreno in difesa dell’alleato siriano – in maniera “conforme alle regole internazionali” in quanto su richiesta, appunto dello stato centrale siriano, legittimo rappresentante di tutta la Siria in seno alle Nazioni Unite.
Il che ha consentito ad Assad di riprendere molte aree urbane importanti e costretto l’Occidente a contrapporsi in maniera meno ambigua all’Isis, in competizione con l’alleanza russo-siriana per conquistare il controllo dallo stato islamico dei territori di maggiore interesse strategico.
Da allora, la Russia ha cominciato un parallelo lavoro diplomatico volto a favorire la riabilitazione di Damasco presso i vari consessi mondiali, compresi i suoi aggressori arabi e turchi, all’interno di un contesto di minore violenza sul terreno rispetto ai terribili anni precedenti.
In tale attività ha dovuto di volta in volta fronteggiare l’interventismo diretto turco, volto a limitare la presenza delle truppe filo-curde ai propri confini e a proteggere i propri proxy dall’esercito siriano, l’utilizzo, da parte degli USA, della propria presenza militare nelle aree del Rojava per depauperare Damasco delle pur limitate risorse petrolifere e il costante interventismo dell’aviazione israeliana per far permanere una situazione instabile anche nei territori riconquistati dal governo siriano.
Nonostante tutti questi ostacoli, alcuni canali diplomatici si sono lentamente aperti e alcuni “destabilizzatori della prima ora” si sono man mano rassegnati al fatto che Assad non sarebbe caduto e, quindi, sarebbe stato più pragmatico cominciare a fare i conti con questa realtà.
Gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman sono state le due petromonarchie a fare da apripista per la riammissione della Siria nell’arena diplomatica, riallacciando i rapporti e incontrando, attraverso propri rappresentanti di governo, il Presidente Assad per la prima volta dal 2011.
Il tutto è sfociato con la riapertura di una propria ambasciata a Damasco ed il conseguente riconoscimento del governo di Damasco come unico legittimo depositario dell’integrità territoriale del paese, a dicembre 2018 (Emirati Arabi Uniti) e nell’ottobre 2020 (Oman).
Successivamente, la Russia si è focalizzata, assieme a questi due paesi, sul tentativo di portare alla riconciliazione che più effetti può avere sul terreno, ovvero quella con la Turchia.
Già da quando lo stato turco aveva rotto ogni dialogo con il Pkk, il suo ordine di priorità in Siria si era invertito, con le milizie curde divenute il nemico numero uno e il governo siriano in subordine. Ciò non aveva impedito ad Erdogan di intervenire a inizio 2020 nell’area di Idlib a bloccare i tentativi di Damasco di riprendere la regione.
Tuttavia, successivamente, anche a causa di pressioni interne dovute alla questione dei numerosissimi migranti siriani presenti sul territorio turco, nell’estate 2022 Erdogan in persona, in una delle sue consuete inversioni a U, ha aperto alla ripresa di colloqui con la Siria senza precondizioni.
Lo scopo era quello di riaprire canali di comunicazione per rimpatriare parte dei migranti.
In questo caso, è stata la Siria ad opporre maggiori resistenze, in quanto ha posto come precondizione all’apertura di un dialogo vero e proprio il ritiro delle truppe turche dal territorio siriano. Sullo sfondo, ovviamente, c’è anche la questione del Rojava.
Grazie al lavoro diplomatico della Russia, tuttavia, vi sono stati diversi incontri fra le parti a livello di servizi segreti, sfociati in un incontro fra i rispettivi ministri della difesa tenutosi a Mosca a fine dicembre 2022, conclusosi con una dichiarazione di intenti rispetto al rimpatrio dei profughi, ma nulla di più sostanziale.
Ora la situazione è bloccata dalle elezioni presidenziali e politiche previste per maggio in Turchia. Il Partito Repubblicano, di cui è espressione il candidato di opposizione Kilicdaroglu, da tempo si sta battendo contro l’interventismo in Siria e a favore della normalizzazione con Assad, proprio in virtù del dossier migranti, influenzando, come si è visto, le politiche governative.
Nel caso di una sua vittoria, la sua convergenza con il Partito Democratico del Popolo, della stessa matrice ideologica del Rojava, potrebbe aprire prospettive per una pacificazione generale che coinvolga le aree del Rojava stesso. Sempre che USA e Israele lo permettano (su questo si tornerà in seguito).
Non è chiaro come potrebbe orientarsi, invece, Erdogan in caso di vittoria, una volta liberatosi delle pressioni interne.
Riflessi diplomatici positivi per la Siria stanno per venire anche dall’attivismo cinese in Medio Oriente, culminato con l’accordo politico fra Arabia Saudita ed Iran raggiunto di recente a Pechino.
L’Arabia Saudita, infatti, dopo essersi già da qualche anno defilata nettamente rispetto alla guerra sul terreno, nell’ambito della quale era stata il maggior finanziatore occulto dell’Isis e di Al-Nusra, sta facendo filtrare dai propri canali di comunicazione che la riapertura di un’ambasciata a Damasco sarebbe vicina.
Non solo: anche le negoziazioni per il ritorno della Siria nella Lega Araba hanno avuto inizio. Su questo vi sono anche dichiarazioni ufficiali, seppur caute, del Ministro degli Esteri Saudita Faisal bin Farhan.
È importante sottolineare come tali processi siano stati accelerati dal terremoto catastrofico che ha colpito Siria e Turchia il 6 febbraio scorso, con i paesi arabi che stanno veicolando i loro aiuti attraverso le strutture governative, mentre i paesi occidentali asseriscono di affidarsi ancora alle ong ostili a Damasco.
È ovviamente da questi ultimi e da Israele che vengono i maggiori ostacoli rispetto alla riabilitazione internazionale della Siria. Accanto alla “geopolitica degli aiuti”, gli USA stanno utilizzando – al momento invano – molti mezzi a loro disposizione per boicottare il processo, a fronte di dichiarazioni ufficiali molto soft rivolte ai paesi arabi, del tipo: “Se normalizzate con Assad, fatevi dare qualcosa in cambio”.
In primis, mantengono attivo il Caesar Act, un sistema di sanzioni rigido, di tipo “cubano”, istituito dall’Amministrazione Trump, che tiene costantemente il paese in uno stato di scarsità materiale, penalizzando in maniera ulteriormente crudele le popolazioni terremotate.
In secondo luogo, sta utilizzando la propria presenza militare nei territori del Rojava per mantenere alta la tensione militare con le milizie filoiraniane alleate di Damasco e con l’esercito siriano.
È prevedibile che tale strategia continuerà qualsiasi sarà l’esito delle elezioni in Turchia e l’evoluzione dei rapporti fra lo stato turco e la minoranza curda, boicottando ogni processo di pace che tenga dentro i loro “alleati” curdi anche in Siria.
In tal senso, il rinnovato attivismo delle cellule dell’Isis sopravvissute nelle aree contigue alla presenza USA è veramente “sospetto”.
Molto isterico è il comportamento di Israele. Nei momenti successivi al terremoto ha provato a mettere piede in Siria millantando una richiesta di aiuto da parte di Damasco, prontamente smentita dalla controparte che, si ricorda, non riconosce lo stato sionista.
Successivamente, ha intensificato i suoi raid aerei sul paese, sempre col pretesto della presenza di milizie filoiraniane, di Hezbollah e di dirigenti palestinesi, colpendo non solo, come di consueto, le infrastrutture civili e militari a Damasco e dintorni, ma arrivando anche ad ostacolare gli aiuti alle popolazioni terremotate.
La Siria, dunque, continua ad essere terreno di scontro fra potenze. Tuttavia, rispetto al caos senza speranza in cui il paese era stato piombato agli inizi e alla metà degli anni 2010, una nuova prospettiva di maggiore stabilità sembra stagliarsi all’orizzonte.
A sostenerla sarà la Cina; a boicottarla, a favore della guerra e della destabilizzazione, saranno gli imperialismi occidentali.
Si tratta, pertanto, di uno dei banchi di prova fondamentali per capire se il rinnovato attivismo diplomatico cinese sarà davvero in grado di affermarsi anche in contesti turbolenti.
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