Lo scorso mercoledì Zelensky ha presentato il tanto discusso “Piano per la vittoria” al parlamento ucraino, mentre ieri (giovedì) lo stesso è avvenuto al Consiglio europeo.
Alcune parti del piano sono rimaste classificate, ma in generale la proposta si compone di cinque punti:
– l’ingresso immediato dell’Ucraino nella NATO;
– l’aumento della produzione locale e dell’aiuto occidentale in armi e armamenti, nonché la necessità di portare la guerra in territorio russo;
– il dispiegamento sul territorio ucraino di un pacchetto completo di deterrenza strategica non nucleare;
– strumenti per far ripartire la crescita e la cooperazione economica;
– l’architettura di difesa e sicurezza in Ucraina dopo la guerra.
“Se il piano sarà sostenuto, potremo porre fine alla guerra entro e non oltre il prossimo anno”, ha detto Zelensky alla presenza del comandante in capo delle forze armate Oleksandr Syrskyi, del capo dell’intelligence militare Kyrylo Budanov e di alcuni diplomatici occidentali.
“Il piano serve a rafforzare il nostro Stato e la nostra posizione, per essere abbastanza forti da porre fine alla guerra, per assicurarsi che l’Ucraina abbia tutti i suoi muscoli”, ha continuato il presidente, il cui mandato tuttavia – lo ricordiamo – sarebbe scaduto lo scorso maggio, quando le elezioni furono rimandate sine die.
“L’attuazione del piano dipende solamente dai nostri partner, non dalla Russia”, ha concluso Zelensky.
“Ciò che mi lascia senza parole non è che stia avanzando questi punti, ma che sono tutti punti la cui attuazione è già stata respinta”, scrive tra gli altri su X Julian Röepcke, inviato di punta della tedesca Bild e uno dei più fedeli cantori delle ragioni antirusse sul campo di battaglia.
In realtà, alcune parti interessanti ci sono, ma ci pare non riguardino l’esito della guerra, su cui probabilmente anche in Ucraina, dopo le cancellerie occidentali, non si fanno più illusioni, almeno nelle segrete stanze.
Da una parte infatti l’ingresso ucraino nella Nato, il rafforzamento degli apparati di produzione bellica e la volontà di portare la guerra in Russia appaiono come punti ridondanti: a guerra in corso è pressoché escluso il primo, sconsigliabile il secondo e scontato il terzo.
Se il diavolo c’è allora si nasconde nei successivi punti.
Il terzo, anche se vago, chiama a una maggiore presenza tecnologica e umana delle risorse Nato in Ucraina, come sistemi antiaerei, missili a lungo raggio, arerei F-16 e tutto l’apparato umano (“boots on the ground”) necessario al suo funzionamento.
Di recente, proprio la Rada ha votato una legge che ufficializza la possibilità per gli ufficiali stranieri di essere inquadrati direttamente nelle forze armate ucraine. La recente propaganda contro la presenza attiva di soldati nordcoreani sul fronte russo sembra voler giustificare questa risposta uguale e contraria, resa legale (in via ufficiosa è oramai un segreto di pulcinella) proprio dall’azione parlamentare.
Nella serata, con perfetto tempismo il presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina del valore di 425 milioni di dollari, “con armi a lungo raggio”, ha detto Zelensky.
Il quarto è forse il punto più interessante perché invoca nuovamente l’Occidente a imbracciare le armi, offrendo come ricompensa le ingenti risorse presenti nel territorio ucraino, come uranio, titanio, litio, grafite, oltre al grano.
“Risorse strategiche che altrimenti potrebbero finire in mano alla Russia nella nuova competizione globale”, ha affermato Zelensky dal podio parlamentare, tentando disperatamente di convincere i governi del blocco euroatlantico all’intervento diretto.
Non sfugge che queste parole seguono di poche ore l’annuncio della privatizzazione per pochi dollari della più grande produttore di titanio ucraino, prima di proprietà pubblica, in un’asta per finanziare le casse dello Stato.
La quinta parte riguarda l’architettura della sicurezza nazionale ucraina nel dopoguerra. “Kiev vanta una forza militare grande ed esperta che può rafforzare la Nato e la sicurezza del continente europeo”, ha detto Zelensky.
Questa “verità”, scolpita sulla pelle e al costo della vita di migliaia di ucraini, nella bocca della junta golpista di Kiev sembra indicare un futuro nebuloso per il Paese: quello di una “Israele d’Oriente”, uno Stato dalla natura repressiva e guerrafondaia, a guardia degli interessi occidentali nella regione.
In ultima istanza, in accordo con alcune analisi pare anche a noi che questa offensiva diplomatica di Zelensky sia solo un primo passaggio per l’inevitabile e prossima “vendita” del cessate il fuoco alla società ucraina.
L’insuccesso della controffensiva, il suicidio nell'operazione attuata nell'oblast di Kursk e l’avanzata russa nel Donbass sono i tre macro fattori che stanno determinando una sconfitta militare a tutto campo delle forze armate ucraine, attraversate con poca sorpresa da problemi di comando, diserzioni, approvvigionamento e tenuta psicologica.
L’indisponibilità della Nato alla guerra nucleare con la Federazione russa – il ministro degli Esteri polacco Sikorski ha minimizzato gli attacchi russi vicino alla Polonia come semplici “errori” – rende difficile rovesciare le sorti della guerra.
E allora, nella corruzione e nella criminalità dilagante presenti nelle alte sfere ucraine, per salvare la faccia e forse anche la vita a Zelensky non rimane che preparare il terreno per la fine della guerra – qui ovviamente al netto della volontà russa.
Magari con una mano offrendo all’opinione pubblica il tradimento occidentale, che non ha permesso il recupero dei territori del 1991, e con l’altra svendendo il Paese al miglior offerente.
Milioni di dollari buoni per una villa al mare e per mantenere le corrotte filiere di potere che in Ucraina hanno letteralmente occupato lo spazio della politica, massacrato il popolo e inondato le strade di armi buone per tutte le stagioni.
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