Generazione Romantica, dal titolo internazionale Caught by the Tides – ovvero “catturati dalle maree irrefrenabili” – è l’ultima opera del celebre regista cinese Jia Zhangke.
È la storia, principalmente di due città, Datong e Fenjie, e di due vite, quelle di Qiao Qiao e Guao Binche.
Più che intrecciarsi, le esistenze dei due protagonisti si sfiorano, nel turbinio dei cambiamenti – “le maree irrefrenabili” appunto – della Cina degli ultimi 25 anni.
La narrazione filmica è una sorta di danza del tempo dove storia collettiva e storia individuale sono i due costanti livelli dello sviluppo della trama: questi due piani della storia dialogano costantemente, creando un affresco in cui il privato e il collettivo si fondono, si combinano e si “giustappongono” con uno sviluppo cronologico che segna cambiamenti epocali e lascia solchi profondi come le rughe dei due personaggi a fine pellicola.
Le due città sono al centro di grandi cambiamenti: la prima è un paese “ex” minerario dello Shanxi che sembra destinato al declino, la seconda dello Chongqing che subisce le conseguenze della costruzione delle “Tre dighe”.
Le vite dei due personaggi principali sono in costante dialettica con i cambiamenti che attraversano la società in cui vivono, in una gamma di reazioni che va dall’adattamento passivo a ciò che sembra essere lo spirito del tempo, cercando di trovare una propria strategia di successo all’attiva reazione rispetto alle conseguenze della pandemia.
Da sempre Jia ha portato avanti un racconto personale e stratificato della Cina, tanto nel documentario quanto nella finzione.
Il senso di appartenenza alla terra e alla nazione attraversa l’intera sua filmografia, sostenuto da una costante ricerca delle immagini più evocative per raccontarla: una ricerca formale attenta e poetica, con una continua esplorazione di immagini capaci di raccontare la trasformazione del paese e delle persone che al loro interno si muovono. Frame e sequenze che sono talvolta “fossili” e testimoniano un mondo che non c’è più.
L’attenzione verso l’immagine e la cura nella sua costruzione propone allo spettatore una riflessione sul mezzo cinematografico stesso e la sua “storicità”: la capacità di rappresentare una realtà che muta così come cambiano i mezzi per rappresentarla.
In un’intervista ha raccontato che il titolo provvisorio del film era L’uomo con la macchina digitale, in omaggio al grande Dziga Vertov. Le immagini sgranate, tipiche del digitale dei primi anni 2000, accompagnano le sequenze iniziali e rievocano l’estetica del suo primo periodo: marcano una distanza profonda con l’oggi, uno scarto evidente tra i primordi post-analogici e quelli attuali. Non a caso, ritroviamo anche gli stessi attori: i due protagonisti, Qiaoqiao (Zhao Tao) e Bin (Li Zhubin), erano già apparsi ventidue anni fa in Plaisirs inconnus.
La protagonista femminile Qiaoqiao incarna il sentimento d’una Cina che, nei primi anni Duemila, si affaccia con slancio alla contemporaneità, pensando di trovare una propria possibilità di successo individuale in quelle che sembrano essere le attività che offre una società in profonda trasformazione e sviluppa inevitabilmente quelle storture che scaturiscono dalla volontà della dirigenza politica di sfruttare il modo di produzione capitalista e l’entrata nel mercato mondiale globalizzato, come opportunità di modernizzazione impetuosa per risalire nella gerarchia delle potenze.
Qiaoqiao si muove, danza, attraversa spazi e tempi con il corpo e l’anima di una nazione che si “apre” al ritmo del mondo e che sembra in preda alla colonizzazione dei valori occidentali verso un individualismo sfrenato, ma che ritrova un forte senso della collettività attraverso lo sforzo con cui si affronta l’emergenza pandemica del Covid-19.
Il formato cinematografico qui oscilla tra documentario e finzione, rendendo ibrido il mezzo cinematografico tra l’inserimento di video, filmati in 35 mm e un formato che oscilla tra il 4:3 o in 16:9, rompendo la “linearità” della rappresentazione e per così dire de-costruendone l’omogeneità attraverso il recupero di immagini attingendo ad un archivio stratificato di ciò che non si è utilizzato in lavori precedenti.
Le musiche che accompagnano le immagini – brani pop cinesi e internazionali, come i Pet Shop Boys di Au-delà des montagnes – rafforzano questa dimensione di esperienza collettiva. Il tutto si inserisce in un contesto storico preciso: l’ingresso della Cina nella World Trade Organization, evento periodizzante di un cambiamento epocale, le Olimpiadi e poi il Covid-19.
Un epoca di transizione dove il passato non viene raccontato direttamente, ma si trova sullo sfondo e dentro il cambiamento che viene rappresentato: un’istituzione culturale operaia di epoca maoista che si trasforma progressivamente fino ad essere “irriconoscibile”, o le macerie degli edifici demoliti contenenti numerosi segni della vita passata, accanto a quelli più moderni che stanno sorgendo.
Ciò che viene rappresentato contiene ciò che è stato e ciò che sarà, in un gioco tra potenzialità ed effettività, mutamento e fissità che attraversa tutto il film.
Tra questi, la costruzione della Diga delle Tre Gole, conclusa nel 2006. Attraversando il fiume Yangtze, la diga è diventata nel tempo una potente metafora della trasformazione radicale della Cina moderna.
In questo contesto si colloca Still Life (2006), film cruciale nella filmografia di Jia, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola racconta con estrema sensibilità le vicende di persone costrette ad abbandonare le proprie case per fare spazio al bacino della diga, restituendo allo spettatore una riflessione intima e politica sulla perdita di uno spazio.
Se da un lato la dimensione visiva assume una funzione narrativa centrale, il silenzio dei personaggi rappresenta un tratto distintivo e ricorrente nel cinema di Jia Zhang-ke, che nel film assume quasi la valenza dell’incomunicabilità se ognuno percorre l’illusione della propria affermazione individuale attraverso il successo economico e non si riconosce in una volontà comune.
Qiaoqiao, come già accennato, incarna simbolicamente la Cina e le sue trasformazioni. Mentre Bin le invia un messaggio invitandola a cercare fortuna altrove, lei resta ferma, e costante ai cambiamenti del Paese che si prepara a mostrarsi al mondo con le Olimpiadi di Pechino del 2008.
Il tempo del film si dilata fino alla pandemia da Covid-19, tutto cambia radicalmente: il silenzio si fa più profondo, il formato dell’immagine muta, vivido, e l’estetica raffinata delle prime parti viene progressivamente abbandonata, sostituita da uno stile che richiama la freddezza delle videocamere di sorveglianza. La pandemia bussa alle porte mentre Qiaoqiao, ora impiegata in un supermercato, lavora indossando una mascherina. La realtà si fa sempre più spersonalizzata, meccanica, quasi robotica – riflesso di un mondo ormai distante dalle sue origini.
La terza e ultima parte del film, ambientata durante la pandemia da Covid-19, si chiude con l’incontro finale tra Qiaoqiao e Bin. In una scena tanto semplice quanto densa di significato, i due si tolgono la mascherina, lasciando affiorare sul volto i segni visibili del tempo passato.
È un momento sospeso, fragile, che non offre una vera riconciliazione, ma restituisce piuttosto la sensazione di aver attraversato un mondo trasformato, ormai irriconoscibile, dove nonostante questa mutazione, i personaggi continuano a esistere, a muoversi con discrezione, come figure comuni “trascinate dalle maree” della Storia, proprio come chiunque altro.
Generazione romantica si cristallizza così in una forma instabile, evanescente, come una pellicola che fluttua nel tempo e nella memoria. Non si tratta di un racconto chiuso, né di una narrazione che cerca risposte, ma di un film che abita lo spazio incerto tra ciò che è stato e ciò che resta, proiettato verso ciò che sarà.
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