Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
Visualizzazione post con etichetta Burkina Faso. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Burkina Faso. Mostra tutti i post

26/07/2025

USA all’assalto diplomatico della Confederazione degli Stati del Sahel

Le batoste prese in Africa dalla Francia (ultima in ordine di tempo, il ritiro delle truppe dal Senegal) e dall’Unione Europea devono aver fatto pensare a Washington che un ritorno statunitense nelle grazie dei Paesi del Sahel sia effettivamente possibile.

Sono diversi mesi, infatti, che si registra un incremento delle visite yankee ad alto livello verso quegli Stati dell’Africa subsahariana che stanno provando a scrivere una storia di riscatto ed emancipazione non solo della regione, ma del continente intero.

La Confederazione degli Stati del Sahel

Parliamo della Confederazione degli Stati del Sahel, organizzazione regionale istituita nel settembre 2023 da Mali, Burkina Faso e Niger per garantire la sicurezza e la stabilità dei suoi membri, contrastando il terrorismo – soprattutto di matrice islamica – e il neocolonialismo.

Tale cooperazione è stata poi estesa a settori come finanza, economia, infrastrutture, sanità ed educazione, ponendosi così come un’alleanza strategica a tutto tondo e fornendo un esempio di reazione al colonialismo e all’imperialismo per il mondo intero.

La Confederazione rompe con gli organismi filoccidentali

Una delle prime misure intraprese dall’alleanza è stata la rottura con la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), considerata come un’estensione degli interessi occidentali nell’area, segnando d’altra parte una discontinuità importante con la storia anche recente dei tre Paesi.

Per gli Stati Uniti, i colloqui vorrebbero riprendere la cooperazione nell’ambito della difesa e della sicurezza, presentandosi come un partner affidabile contro la sempre più intensa attività jihadista nella regione.

La visita in Mali

Come riassunto dal sito specializzato Nigrizia, a inizio luglio il vicedirettore generale per l’Antiterrorismo della Casa Bianca Rudolph Atallah ha visitato ufficialmente Bamako, incontrando nella capitale maliana il ministro degli Esteri e il ministro della Sicurezza.

Sul tavolo, la proposta di una “cooperazione rinnovata e costruttiva” per la ripresa del controllo di tutto il territorio da parte delle autorità maliane (una parte è sotto il controllo deli jihadisti), il rafforzamento delle forze armate e la denuncia da parte di Bamako del sostegno esterno, in particolare di matrice ucraina, ai gruppi armati attivi nella regione.

Il messaggio recapitato al Burkina Faso

A fine maggio invece il sottosegretario di stato per l’Africa occidentale Will Stevens ha consegnato a Ouagadougou in Burkina Faso un “messaggio del presidente Donald Trump” al ministro degli Esteri burkinabé, Karamoko Jean Marie Traoré.

Nell’incontro bilaterale, gli Stai Uniti hanno discusso di una cooperazione che “rispetti la sovranità” del Paese africano. Da notare come Stevens abbia riconosciuto le critiche del Burkina Faso sulle restrizioni occidentali all’acquisizione di equipaggiamento militare, contro cui ha promesso di lavorare per la loro rimozione.

Le relazioni con il Niger

Sempre a maggio, dal Kenya il comandante generale dell’Africom Michael Langley ha sottolineato l’aumento degli attacchi terroristici nel Sahel provenienti dal Niger dopo il ritiro statunitense dal Paese nel 2024, ribadendo il sostegno americano ai partner saheliani e nigerini attraverso servizi di intelligence, addestramento e supporto materiale.

Un mese prima, ancora la diplomazia yankee aveva ricevuto a Washington il primo ministro del Niger Ali Mahamane Lamine Zeine. L’incontro con l’ambasciatore Troy Fitrell ha messo al centro la ripresa delle relazioni Usa-Niger, dopo che Niamey, al momento dell’insediamento della giunta militare, aveva gradualmente fatto ritirare le truppe a stelle e strisce dalla base di Agadez.

Il Sud Globale abbandona il sogno amerikano

Le manovre diplomatiche statunitensi si inseriscono nel più generale rientro in varie aree del mondo deciso dall’amministrazione Trump, vuoi manu militari come in Medio Oriente o in Europea orientale, o più sobriamente per ora in Africa occidentale.

Tuttavia, l’Occidente bianco colonizzatore e imperialista sembra aver finito le cartucce a sua disposizione per “mettere le mutande al mondo” e far coincidere gli interessi del Sud Globale con i propri, come testimoniano plasticamente le votazioni in sede Onu sui più disparati temi (sanzioni, guerra in Ucraina, Cuba, Palestina ecc.).

Inoltre, in ambito militare l’abbrivio preso dalle collaborazioni tra Russia, Cina e Stati africani sembra difficilmente rovesciabile in breve tempo, tema questo legato a doppio filo all’appartenenza geopolitica di un Paese.

Il bluff del Piano Mattei non cambierà gli equilibri

Né per “parte nostra” il bluff del Piano Mattei potrà minimamente scalfire gli equilibri politici e commerciali nella regione, intriso com’è di retorica eurocentrica e coloniale a fronte di una scarsità di risorse imbarazzante se confrontata per esempio con gli investimenti cinesi.

Nubi nere si addensano sui cieli delle potenze euroatlantiche. Lavorare alla danza della pioggia qui, in una cittadella dell’impero, non può che aiutare il mondo multipolare a rompere la gabbia degli imperialismi occidentali.

Fonte

17/06/2025

Il Burkina Faso continua la nazionalizzazione del proprio oro

Il governo del Burkina Faso ha ufficializzato il trasferimento in mani statali di due miniere d’oro e di tre licenze di esplorazione per la ricerca del metallo prezioso. Una notizia che fa seguito a quelle di inizio maggio, che avevano già preannunciato l’intenzione della giunta guidata da Ibrahim Traoré di togliere ulteriore spazio alle compagnie minerarie occidentali nel proprio paese.

Al potere dalla fine del 2022, il nuovo governo, dopo aver rivisto il codice minerario e aver istituito la Société de Participation Minière du Burkina (SOPAMIB), un ente statale investito del compito di gestire e sviluppare le risorse strategiche, aveva già ritirato i permessi per le miniere d’oro di Inata e di manganese di Tambaoil nel marzo 2024.

La giunta burkinabè aveva poi nazionalizzato anche altre due miniere d’oro, quella di Boungou e quella di Wangnon, con un accordo dal valore di circa 80 milioni di dollari. Il primo sito era della britannica Endeavour Mining, mentre il secondo era affidato alla statunitense Burkina Lilium Mining. Ora, dunque, il paese africano fa un passo ulteriore su questo percorso.

La SOPAMIB, dal momento della sua fondazione, ha raccolto più di 8 tonnellate di oro nel 2024, e più di 11 solo nel primo trimestre del 2025, creando una vera e propria riserva aurea nazionale. Bisogna inoltre considerare l’importanza che il metallo ha riassunto negli ultimi mesi come bene rifugio, con i prezzi che sono aumentati in maniera sostenuta.

Va ricordato che il Burkina Faso è il quarto produttore africano d’oro, ed esso rappresenta anche il principale prodotto d’esportazione del paese. Tra il 2016 e il 2021 la quantità del metallo estratto era già aumentata del 74%, ed ora la giunta burkinabè vuole ridefinire i rapporti di potere nel settore, rispetto alle multinazionali occidentali, per assicurare benefici maggiori alla sua popolazione.

È la logica che hanno seguito le altre realtà che si sono ribellate al neocolonialismo occidentale e hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES). Il Niger ha tagliato le fondamentali forniture di uranio di Parigi, mentre il Mali si è concentrato, anch’esso, sulle sue miniere d’oro. Tutti insieme, hanno assestato un duro colpo alla penetrazione occidentale nell’Africa sub-sahariana.

Forse anche per questo il tentativo di rovesciare il governo di Traoré è sempre in agguato. Ma bisogna anche dire che, seppur le ultime informazioni abbiano suscitato ulteriore preoccupazione negli investitori occidentali, nelle ultime settimane si è parlato di un accordo minerario tra i vertici burkinabè e l’australiana West African Resources Ltd, purché i termini siano favorevoli alla popolazione africana.

È questo il nodo. I processi politici di marcata impronta anticoloniale innescatisi negli ultimi anni dall’inasprirsi delle contraddizioni nella cintura del Sahel, ai margini dell’area che l’Unione Europea – in particolare attraverso la presenza francese – vorrebbe dichiarare come propria sfera di influenza, accanto al Mediterraneo allargato, continuano a mettere in crisi le mire imperialistiche unioneuropeiste.

Il Burkina Faso e i suoi alleati regionali vogliono evitare di tornare nella morsa dei vecchi padroni coloniali.

Fonte

14/05/2025

Burkina Faso: la rivoluzione silenziata

A differenza di altre dittature militari che hanno invaso il continente africano, spesso sostenute e finanziate dalle potenze occidentali, i governi dei paesi del Sahel paesi hanno abbracciato un programma di ricostruzione nazionale, recupero dei beni statali, spesso da mani occidentali private, e difesa della sovranità nazionale e dei diritti del loro popolo.

Il caso del Burkina Faso è particolarmente interessante. Dal 30 settembre 2022, in seguito al colpo di Stato contro il presidente ad interim Paul-Henri Sandaogo, il giovane capitano Ibrahim Traoré governa il Paese. Traoré è uno dei tanti ufficiali addestrati nella lotta contro il jihadismo nel nord del Paese, profondamente deluso dalla corruzione dilagante e dalla mancanza di equipaggiamento efficace per le unità che hanno affrontato i terroristi.

Traoré è emerso come un leader dalla chiara vocazione panafricana, fortemente influenzato dall’esempio del grande leader rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara, che promosse negli anni ’80 un ambizioso programma di trasformazione economica e sociale del suo Paese, interrotto dal suo assassinio nel 1987 promosso e finanziato dalla Francia.

Durante i suoi quattro anni di mandato, Sankara stabilì strette relazioni con Cuba, arrivando persino a fondare nel Paese dei Comitati per la Difesa della Rivoluzione, ispirati all’esperienza cubana. Promosse campagne di vaccinazione di massa contro la poliomielite, la meningite, la febbre gialla e il morbillo.

Ha inoltre promosso l’alfabetizzazione, ha compiuto passi importanti verso il riconoscimento della parità di genere e ha sostenuto un forte programma panafricano e antimperialista.

Non è un caso che sia Sankara che Traoré provengano dai ranghi dell’esercito. È una situazione comune a molti paesi africani e ad altre latitudini. Nelle società così disorganizzate dalla povertà e dalla negligenza del governo, con limitate opportunità di accesso all’istruzione e alla cultura, la vita militare diventa spesso una delle poche opzioni per costruire un futuro stabile.

All’interno di questa istituzione non solo vengono fornite opportunità educative, ma la struttura del dominio della società, in quanto strumento di dominio di classe, viene anche esposta più apertamente.

L’esercito proviene dal popolo, ma è spesso costretto a confrontarsi con esso per difendere gli interessi del capitale straniero o nazionale. E quanto più il Paese è povero e corrotto, tanto più i militari sperimentano in prima persona l’abbandono e il disprezzo dei loro comandanti e delle élite a cui sono subordinati.

È un terreno fertile per la reazione e, di conseguenza, per la proliferazione di personaggi militari opportunisti e fanatici del colpo di stato. È anche uno spazio in cui può maturare, all’interno di un settore, una concezione rivoluzionaria della società e del Paese.

La ricomparsa dell’esempio di Sankara nella pratica attuale del presidente Traoré dimostra la vitalità delle idee, anche quando vengono tradite e si cerca di seppellirle. E oggi, come quarant’anni fa, le sfide per portare avanti un progetto sovrano di giustizia sociale in Africa, contro le vecchie potenze coloniali, sono immense.

Traoré ha già dovuto affrontare diversi tentativi di colpo di stato e minacce di intervento straniero. Il jihadismo, molto probabilmente fomentato dall’esterno, ha aumentato le ostilità contro il governo, complicando ulteriormente la già complessa situazione della sicurezza del Paese.

Nonostante ciò, nei suoi tre anni alla guida, Traoré ha raggiunto traguardi concreti che hanno un impatto sulla qualità della vita del popolo burkinabé e hanno implicazioni significative per il suo futuro. Sul fronte economico, il PIL del Paese è cresciuto tra il 2022 e il 2024, passando da circa 18,8 miliardi di dollari nel 2022 a 22,1 miliardi di dollari nel 2024.

Il governo del Burkina Faso ha rifiutato i prestiti del FMI e della Banca Mondiale, interrompendo esplicitamente i suoi legami finanziari con l’Europa e gli Stati Uniti. Sono stati compiuti progressi anche nel recupero delle risorse nazionali, come l’oro, con la creazione di una società mineraria statale e l’apertura della prima raffineria d’oro del Paese nel novembre 2023. In precedenza, il minerale veniva esportato non raffinato, a prezzi molto più bassi.

Il governo ha investito anche nello sviluppo agricolo, distribuendo più di 400 trattori, 239 coltivatori, 710 motopompe e 714 motociclette ai produttori rurali. È stato inoltre facilitato l’accesso a sementi migliorate e ad altri input agricoli.

Sebbene i numeri siano ancora modesti, la produzione di colture chiave è aumentata, come i pomodori, che sono aumentati da 315.000 tonnellate nel 2022 a 360.000 nel 2024, e il miglio, che è aumentato da 907.000 tonnellate nel 2022 a 1,1 milioni nel 2024.

Nel paese sono stati inoltre inaugurati due stabilimenti di trasformazione del pomodoro, che hanno persino lanciato sul mercato un proprio marchio di pomodori in scatola, e un secondo stabilimento di trasformazione del cotone.

Sono stati promossi i lavori stradali, ampliando le strade esistenti e costruendone di nuove, avvalendosi, ove possibile, di ingegneri burkinabé per l’esecuzione dei progetti. È in costruzione anche il nuovo aeroporto di Ouagadougou-Donzin, con una capacità stimata di un milione di passeggeri all’anno. Ha inoltre ridotto del 30% gli stipendi dei ministri e dei parlamentari e aumentato del 50% quelli dei dipendenti pubblici.

In politica estera, il suo governo ha adottato diverse misure coraggiose, in un contesto in cui le contraddizioni geopolitiche globali si stanno acuendo. Con l’intenzione di rompere definitivamente con il dominio neocoloniale francese, nel 2023 ha espulso dal paese le forze francesi, comprese quelle che avevano partecipato all’operazione antiterrorismo Sabre.

Dopo aver abbandonato la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, ha creato, insieme al Niger e al Mali, l’Alleanza del Sahel, che include diverse clausole per contribuire allo sviluppo e alla difesa reciproca. In netto distacco dall’Occidente, ha rafforzato i legami economici e di sicurezza con la Russia, tra cui un accordo per la costruzione di una centrale nucleare nel Paese, e con la Cina, Paese che promuove numerosi investimenti nel territorio burkinabé.

Anche se alcuni di questi risultati potrebbero essere un po’ esagerati, la verità è che il Burkina Faso sta attraversando una profonda trasformazione economica, politica e sociale, con misure concrete che si traducono in una migliore qualità della vita per la sua popolazione e in una migliore ridistribuzione della ricchezza nazionale. Naturalmente, le sfide di un programma di questo tipo sono immense.

Il 3 aprile 2025, durante l’audizione delle Forze Armate del Senato, il comandante generale dell’AFRICOM Michael Langley ha accusato il regime del Burkina Faso di essere stato corrotto dalla Cina e di aver utilizzato “le sue riserve auree per proteggere il regime della giunta”, il che potrebbe aprire la porta a future azioni di Washington contro il governo del Burkina Faso.

Il pericolo più immediato oggi, come già accennato, deriva dall’aumento esponenziale dell’attività dei gruppi jihadisti nel Paese.

Come tante altre trasformazioni rivoluzionarie del passato, ciò che sta accadendo in Burkina Faso è coperto da un velo di silenzio e di diffamazione da parte delle grandi potenze occidentali, che si apprestano senza dubbio ad applicare a Ibrahim Traoré la stessa soluzione che un tempo applicarono a Sankara.

Rompere questo velo di silenzio è un dovere fondamentale di solidarietà per tutti i rivoluzionari. Non dimentichiamo di parlare del Burkina Faso e dell’immenso lavoro di trasformazione intrapreso dal suo popolo.

In un’epoca in cui il capitalismo aspira a presentare le rivoluzioni come reliquie del passato, processi come questo continuano a ricordarci l’importanza del compito rivoluzionario.

Più di un secolo dopo, la catena imperialista continua a spezzarsi nei suoi anelli più deboli.

Fonte

23/04/2025

Tentato golpe in Burkina Faso, sotto accusa militari con contatti in Costa d’Avorio

Lunedì sera il governo del Burkina Faso, guidato da Ibrahim Traoré, ha reso noto di aver sventato un tentantivo di colpo di stato orchestrato da alcuni militari del paese, col sostegno di altri nemici organizzatisi in Costa d’Avorio. Il Burkina Faso è uno dei perni dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), nata nel settembre 2023 e che ha sostenuto posizioni nettamente anti-coloniali.

Il ministro della Sicurezza Mahamadou Sana ha dichiarato alla televisione nazionale che “il meticoloso lavoro dei servizi segreti ha portato alla luce un vasto complotto in corso contro il nostro paese [che sarebbe dovuto] culminare in un assalto alla presidenza del Burkina Faso, mercoledì 16 aprile 2025, da parte di un gruppo di soldati reclutati dai nemici della nazione”.

Alcuni gruppi armati avrebbero colpito in contemporanea per saturare la capacità di risposta delle forze di sicurezza, mentre attraverso la corruzione e la diffusione di false notizie i golpisti avrebbero tentato di indebolirne già prima del 16 aprile l’unità e la responsività. Alcune denunce hanno aiutato i servizi segreti a contrastare il tentativo di rovesciamento del governo.

Il ministro Sana ha fatto i nomi di due personalità specifiche, il maggiore Joanny Compaore e il tenente Abdramane Barry, che sarebbero state le menti dietro il fallito golpe. Una dozzina di altri ufficiali e sottoufficiali sono stati interrogati. Barry è attualmente irreperibile, mentre altri cospiratori sono riparati nella vicina Costa d’Avorio.

Lo scorso luglio, il presidente Traoré aveva detto che proprio in quel paese era stato costituito un vero e proprio “centro operativo per destabilizzare” la giunta burkinabé, in particolare ad Abidjan, la principale città ivoriana. Le accuse al paese vicino di essere coinvolto nei tentativi di destabilizzazioni del Burkina Faso sono state ribadite anche questa volta.

La Costa d’Avorio è uno stato fondamentale nel processo di ridefinizione degli equilibri della regione, e le elezioni del prossimo autunno assumeranno il sapore di un passaggio centrale per il futuro delle influenze in tutto il continente. Dati gli screzi con uno dei rappresentanti dell’AES appare chiaro come ciò sia ben chiaro a tutti gli attori della regione.

Fonte

25/01/2025

L’Alleanza degli Stati del Sahel annuncia una forza militare congiunta

È passato oltre un anno dalla formazione della Alleanza degli Stati del Sahel (AES, secondo l’acronimo in francese), e oltre ad aver segnato una netta cesura con il passato coloniale, i governi di Mali, Niger e Burkina Faso ora hanno deciso di fare un passo ulteriore rispetto alla cooperazione militare.

Già lo scorso settembre, infatti, in occasione del primo anniversario dell’alleanza, il presidente maliano Assimi Goita aveva annunciato varie iniziative di collaborazione tra i tre paesi: un passaporto biometrico e una stazione televisiva condivisa, e appunto un’unità militare comune.

Salifou Mody, ministro della Difesa del Niger, ha dichiarato che “la forza unificata AES è quasi pronta, contando 5 mila persone”. Tale forza potrà contare anche sull’appoggio aereo e dell’intelligence dei tre alleati.

Il primo obiettivo è quello di arginare il terrorismo delle organizzazioni jihadiste di quell’area, che hanno legami con Al Qaeda e l’Isis. Ma gli equilibri della regione si intersecano con dinamiche più ampie, globali, ce lo ricorda il coinvolgimento di Kiev in alcuni scontri avvenuti in Mali durante la scorsa estate.

Non c’è un’alleanza organica tra Mosca e le giunte militari del Sahel, ma certamente gli interessi di questi paesi convergono nella comune ostilità verso l’imperialismo euroatlantico. E dunque il braccio di ferro tra la NATO e il mondo multipolare coinvolge in parte anche la fascia africana sotto al Sahara.

Inoltre, il prossimo 29 gennaio Mali, Niger e Burkina Faso usciranno definitivamente dall’Ecowas, cioè la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, accusata di essere sostanzialmente sottomessa agli interessi degli ex padroni coloniali. Ma che, almeno, ha deciso di non rispondere ai desideri di Parigi, che voleva un intervento militare contro Niamey.

I legami tra i paesi dell’Africa occidentale sono infatti tanti e fondamentali per la vita e l’economia di tutti gli attori regionali. Non a caso, oltre un mese fa una dichiarazione del Collegio dei capi di Stato dell’AES ha confermato che i cittadini dei paesi dell’Ecowas potranno entrare nei tre paesi del Sahel senza visto.

“I cittadini dell’Ecowas – si legge in un comunicato di Goita – hanno il diritto di entrare, circolare, risiedere, stabilirsi e uscire dal territorio degli Stati membri della Confederazione degli Stati del Sahel”, e lo stesso sarà per i mezzi immatricolati in quei paesi.

Di certo tutto ciò mostra la consapevolezza da parte dei vertici dell’AES del proprio ruolo e dei pericolo che corre la loro esperienza, ma anche l’importanza dei legami da mantenere nella regione. Forse per questo l’Ecowas spera che Mali, Niger e Burkina Faso tornino nel suo alveo, e per questo hanno dato ai tre paesi una proroga fino al 29 luglio per la decisione finale.

Ma non sembra proprio che siano disposti a fare passi indietro.

Fonte

22/08/2024

Africa - Kiev accusata all’Onu di sostenere i gruppi jihadisti nel Sahel

Tre paesi del Sahel, Mali, Burkina Faso e Niger, hanno inviato un documento al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché adotti “misure appropriate” contro l’Ucraina per il sostegno fornito da quest’ultima ai gruppi jihadisti nel nord del Mali. La lettera aperta indirizzata all’Onu è stata resa pubblica ieri.

Il Mali e il Niger hanno già interrotto le relazioni diplomatiche con Kiev dopo che alla fine dello scorso luglio le autorità maliane hanno accusato l’Ucraina di aver sostenuto i separatisti Tuareg e i gruppi jihadisti locali in un sanguinoso attacco condotto contro l’esercito del Mali e il gruppo paramilitare russo Wagner.

Il ruolo ucraino era stato confermato dal portavoce dell’intelligence militare di Kiev, Andriy Yusov, il quale aveva ammesso come ai ribelli maliani fossero state fornite “le informazioni necessarie e non solo” per “un’operazione di successo”. Una conferma indiretta era arrivata anche dall’ambasciatore ucraino in Senegal Yurii Pyvarovov successivamente convocato dal ministero degli Esteri di Dakar.

“Queste affermazioni, che sono estremamente gravi, vanno oltre la portata dell’ingerenza straniera, che è di per sé riprovevole. Si tratta del sostegno ufficiale e inequivocabile del governo ucraino ai terroristi in Africa, in particolare nel Sahel”, si legge nella lettera inviata dai ministeri degli Esteri dei tre Paesi all’Onu. “Condanniamo fermamente l’esaltazione del terrorismo da parte delle autorità ucraine, che non può essere giustificato”, si aggiunge nel documento, che invita il Consiglio di sicurezza “ad assumersi le proprie responsabilità rispetto alla deliberata scelta dell’Ucraina di sostenere il terrorismo” e ad adottare “misure adeguate contro queste azioni sovversive che rafforzano i gruppi terroristici in Africa e manifestano il coinvolgimento di forze straniere quali sponsor statali dell’espansione del terrorismo nella regione”.

Difficile che Usa, Gran Bretagna e Francia consentano una condanna dell’Ucraina in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu in base dalla denuncia dei tre paesi africani, ma dalla vicenda si rileva come il ruolo dell’Ucraina stia crescendo nelle operazioni di destabilizzazione anche in altri quadranti, un ruolo sempre più simile a quello che le potenze occidentali hanno affidato nei decenni a Israele.

Fonte

17/07/2024

Africa. L’Alleanza del Sahel diventa Confederazione e sfida la Cedeao

Si consolida l’alleanza tra le giunte militari al potere in Mali, Niger e Burkina Faso, intenzionate a “federarsi” creando un blocco alternativo alla Comunità economica dei Paesi dell’Africa sub-sahariana (Cedeao o Ecowas), organismo regionale accusato di essere uno strumento delle ex potenze coloniali occidentali, in particolare della Francia.

L’Alleanza del Sahel diventa Confederazione
Dopo l’avvio di una stretta collaborazione militare che ha portato all’espulsione della maggior parte delle truppe occidentali presenti nel Sahel e all’avvio di una strategia comune contro l’insorgenza jihadista, i tre paesi ora accelerano anche sulla cooperazione sul fronte economico, sanitario, dell’istruzione e delle infrastrutture. Il 6 luglio, infatti, i tre paesi hanno annunciato la creazione della “Confederazione degli Stati del Sahel”, evoluzione della precedente “Alleanza del Sahel” formalizzata a settembre.

A guidare la neonata Confederazione sarà il presidente “di transizione” del Mali, colonnello Assimi Goita, nominato presidente di turno dell’organizzazione con un mandato di un anno.

Riuniti a Niamey, capitale del Niger, i capi dei tre governi golpisti hanno formalizzato la creazione di una banca di investimento comune e di un fondo di stabilizzazione, già annunciati a novembre. Assimi Goita, Ibrahim Traoré (Burkina Faso) e Abdourahamane Tiani (Niger) hanno poi deciso di creare una “Forza Unificata del Sahel” per rafforzare la lotta contro i ribelli islamisti.

I tre paesi continuano ad approfondire la possibilità di abbandonare il Franco Cfa – legato alla valuta di Parigi – con l’intenzione di adottare una propria moneta comune. Infine, i capi delle tre giunte militari hanno incaricato i ministri competenti di elaborare urgentemente i protocolli per affrontare le implicazioni legate al ritiro dalla Cedeao, deciso a partire dal 2025.

La Cedeao in allarme
La creazione della “Confederazione del Sahel” ha ovviamente allarmato l’organismo regionale, che ha tenuto un vertice straordinario ad Abuja (Nigeria) il 7 luglio. Con la fuoriuscita di Mali, Niger e Burkina Faso, infatti, la Cedeao perderebbe più del 12% del Pil e il 16% della popolazione, oltre che tre paesi ricchi di risorse minerarie e strategici sul piano geopolitico.

In caso di ritiro, ha detto il presidente della commissione di coordinamento dell’organismo regionale in vita ormai da mezzo secolo, Omar Touray, i tre paesi del Sahel potrebbero perdere finanziamenti per più di 500 milioni di dollari. Per Touray la regione si trova di fronte al rischio di una disintegrazione della Cedeao che interromperebbe la libertà di movimento per i suoi 400 milioni di abitanti e peggiorerebbe la sicurezza.

Il rischio di una disintegrazione della Cedeao è stato paventato anche dal presidente del Senegal Bassirou Diomaye Faye, il quale ha però citato la necessità di liberare l’organismo «dagli stereotipi che la dipingono come un’organizzazione soggetta alle influenze di poteri esterni e distante dalle popolazioni». Faye ha anche criticato le sanzioni imposte dalla Cedeao ai tre paesi “ribelli” dopo i rispettivi colpi di stato – già alleggerite a febbraio – denunciando le conseguenze sulle rispettive popolazioni.

Il Burkina Faso accusa Costa d’Avorio e Benin di ospitare basi francesi segrete
Intanto nel suo ultimo discorso il capitano Ibraihim Traoré, al potere in Burkina Faso dal golpe del 30 settembre 2022 e che nel giugno scorso ha sventato un tentativo di ribellione da parte di alcuni reparti dell’esercito, ha alzato i toni nei confronti di Costa d’Avorio e Benin, accusati di essere strumenti dell’ingerenza di Parigi nella regione.

«Non abbiamo nulla contro il popolo ivoriano. Ma abbiamo qualcosa contro chi governa la Costa d’Avorio. Esiste infatti un centro operativo ad Abidjan per destabilizzare il nostro Paese» ha dichiarato il leader della giunta, che poi ha accusato il Benin di ospitare due installazioni militari francesi segrete, a suo dire utilizzate per addestrare terroristi da utilizzare con il Burkina Faso.

È la prima volta che Traoré accusa esplicitamente la Costa d’Avorio, paese ancora saldamente nell’orbita politica, economica e militare di Parigi.

Alle esternazioni di Traoré ha risposto il portavoce del governo del Benin che le ha definite «nauseante disinformazione che alimenta il risentimento delle popolazioni e minaccia la coesistenza pacifica». Il Benin ha un conflitto aperto anche con il Niger dopo che questo ha bloccato il trasporto di petrolio da un oleodotto cinese verso il porto di Cotonou, dove viene imbarcato sulle petroliere.

Traoré annuncia la nazionalizzazione delle risorse minerarie
Nel suo discorso, il capo della giunta del Burkina ha annunciato la volontà di rimanere al potere nei prossimi cinque anni, informando sull’approvazione di un disegno di legge a tutela delle risorse minerarie del paese attraverso un processo di nazionalizzazione dei giacimenti – soprattutto di oro – e il ritiro di numerosi permessi di estrazione finora concessi ad alcune multinazionali straniere.

A novembre la giunta militare burkinabé ha avviato la costruzione di una raffineria d’oro, mentre a gennaio ha inaugurato il primo impianto per la lavorazione dei residui minerari (principalmente carbone fino, scorie, concentrati acidi e ceneri), sottolineando la volontà di avere maggior controllo sul loro trattamento e di smettere di esportarli. La fabbrica, costruita nella zona industriale di Kossodo alla periferia di Ouagadougou, è di proprietà di una società privata locale, la Golden Hand, di cui lo stato controlla il 40%.

D’ora in poi gli unici attori stranieri che saranno autorizzati a sfruttare il settore minerario del paese, ha detto Traoré, saranno «i sinceri partner che accettano di sostenerci» nella lotta contro l’insorgenza jihadista, spesso legata ad Al Qaeda o a Daesh. Un implicito richiamo alle relazioni commerciali avviate con Mosca in cambio di un sostegno militare che però finora non ha sortito gli effetti sperati.
Lo scorso 11 giugno, ad esempio, un gruppo di combattenti islamisti ha attaccato la cittadina settentrionale di Mansila, uccidendo 107 soldati e prendendone in ostaggio altri 7.

Tasse per finanziare l’esercito
Per finanziare l’espansione delle forze armate e le operazioni dei cosiddetti “Volontari della Patria” (ausiliari civili dell’esercito) contro le milizie jihadiste e l’acquisto di attrezzature militari moderne, la giunta ha avviato un sistema specifico di misure fiscali.

Dal luglio del 2023 si applica una tassa del 5% sull’acquisto di servizi di telefonia che diventa del 10% per gli abbonamenti alle catene televisive private, mentre un’imposta dell’1% grava sulla cessione di terreni. Altre tasse sono state imposte su bevande alcoliche e tabacchi.

La giunta burkinabé criminalizza l’omosessualità
Recentemente, invece, la giunta militare burkinabé ha adottato la bozza di un nuovo codice sulla famiglia che criminalizza l’omosessualità. Finora il paese dell’Africa Occidentale era tra i 22 paesi del continente che consentiva le relazioni tra persone dello stesso sesso, punite invece con la morte o lunghe pene detentive in altri stati.

«D’ora in poi, l’omosessualità e le pratiche correlate saranno proibite e punibili dalla legge», ha affermato il ministro della Giustizia ad interim Edasso Rodrique Bayala. Affinché la legge entri in vigore, dovrà superare il voto parlamentare e poi essere promulgata da Traoré.

Da parte sua, invece, la giunta militare del Mali, al potere dal 2021, ha revocato nei giorni scorsi la sospensione dell’attività dei partiti politici che era stata varata ad aprile per “tutelare l’ordine pubblico”.

Al tempo stesso, però, la giunta golpista ha rinnegato la promessa di indire libere elezioni, rinviando il voto a tempo indeterminato per “motivi tecnici”. Le veementi proteste di molti partiti politici, che reclamavano il ritorno all’ordine costituzionale, avevano convinto i militari a bloccarne l’attività.

Fonte

09/07/2024

I paesi africani danno vita all’Alleanza del Sahel. Sancita la rottura con l’Occidente

Si chiama “Alleanza degli Stati del Sahel” (AES) l’organismo creato dai leader delle giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger, riunitesi nel primo vertice congiunto dopo essere saliti al potere nei rispettivi Paesi.

“I nostri popoli hanno irrevocabilmente voltato le spalle all’ECOWAS” (la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) ha detto sabato Abdourahamane Tiani all’apertura del vertice dell’Alleanza degli Stati del Sahel che riunisce i tre paesi che hanno sbattuto fuori gli occidentali e la “loro” organizzazione regionale africana.

I firmatari “hanno deciso di muovere un passo verso una maggiore integrazione”, si legge in una nota congiunta che annuncia la firma del trattato istitutivo della Confederazione. Il documento è stato sottoscritto dal leader della transizione nigerina Abdourahamane Tiani, dal presidente di transizione del Burkina Faso Ibrahim Traore e dall’omologo maliano Assimi Goita.

Quest’ultimo, riporta Jeune Afrique, ha chiesto che l’AES sia resa “un’alternativa a qualsiasi raggruppamento regionale artificiale costruendo una comunità sovrana di popoli, una comunità lontana dalla morsa di potenze straniere”.

L’incontro si è tenuto alla vigilia del vertice della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), da cui i tre Paesi hanno annunciato il loro ritiro a gennaio. Nel settembre scorso i tre Paesi che hanno rotto i legami con la Francia e l’Occidente, hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), iniziativa militare, ma anche diplomatica, che intende garantire indipendenza ai tre Paesi rispetto ad organismi regionali o internazionali.

Successivamente i ministri degli Esteri dei tre Paesi, riuniti a Bamako, hanno dato forma compiuta a questa coalizione, dandole una dimensione politica e diplomatica. È stato assegnato ad Assimi Goita l’incarico di presiedere l’Alleanza degli Stati del Sahel, per il periodo di un anno. “Vorrei ribadire la nostra ferma intenzione a fare dell’Aes un modello di cooperazione regionale, di solidarietà per lo sviluppo, e anche un modello di integrazione sub-regionale, in omaggio ai principi della Carta di Liptako-Gourma”, ha detto Goita citando l’atto fondativo dell’Aes.

Fonte

01/02/2024

Nel Sahel va in frantumi la “gabbia” neo-coloniale

In un messaggio televisivo, diffuso il 28 gennaio, il Mali, insieme a Burkina Faso e Niger, ha annunciato la propria uscita unilaterale dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, CEDEAO nell’acronimo francese, ECOWAS in quello inglese.

La decisione, per i te leader africani, ha effetto immediato.

Nel comunicato congiunto i militari hanno usato parole molto dure definendo la CEDEAO: «una minaccia per i suoi stati membri e per le sue popolazioni», perché agisce «sotto l’influenza delle potenze straniere».

È il punto di arrivo di un mese di tensioni conclusosi con il viaggio inconcludente di una delegazione dell’organizzazione sub-regionale a Niamey in Niger, questo 25 gennaio.

Abdoulaye Seydou, coordinatore del M62, un movimento della società civile nigerina ha affermato: «è assolutamente normale che i dirigenti abbiano preso questa decisione che, al netto delle difficoltà che si possono immaginare, trova il consenso delle popolazioni».

È un rafforzamento dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) firmata il 16 dicembre scorso tra Bamako, Ouagadougou e Niamey, che va oltre la semplice alleanza militare anti-jihadista per dar vita ad una cooperazione di stampo diplomatico, politico ed economico che va prendendo forma.

Come dimostra anche l’annuncio congiunto dei tre Primi Ministri a Niamey, a fine dicembre, di voler procedere verso progetti comuni nel campo delle infrastrutture stradali e ferroviarie. L’aeroporto della capitale del Mali, si “vocifera” , potrebbe divenire un hub per i tre paesi dell’Alleanza.

È un vero e proprio terremoto per gli assetti neo-coloniali del Sahel, l’ennesimo schiaffo alla Francia e all’imperialismo dell’Unione Europea in genere.

La CEDEAO, che è una cornice politico-economica con un profilo militare, fondata nel 1975, ne esce con le ossa rotte, riducendosi dai 15 Stati – 16, prima dell’uscita della Mauritania nel 2000 – agli attuali 13.

Dopo l’annunciato e mai realizzato intervento militare congiunto che doveva concretizzarsi ai danni del Niger in seguito al “Colpo di Stato patriottico” della scorsa estate, è l’ennesimo schiaffo a questo traballante strumento della cosiddetta FrançeAfrique.

Le sospensioni e le sanzioni che hanno colpito questi tre Stati non solo non hanno portato a più miti consigli i “militari patriottici” che ne guidano il nuovo corso politico, ma li hanno spinti da un lato a relazioni reciproche più strette, nonché ad un maggiore sganciamento dall’Occidente e dai suoi protegé locali con il crescente consenso delle popolazioni.

Questa rottura potrebbe logicamente andare ancora oltre, lasciando l’Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale, e “rinunciando” – per così dire – al franco CFA, la moneta degli otto paesi membri della UEMOA: odiato simbolo della servitù economico-militare all’Euro oggi ed al Franco francese prima.

Come ha ricordato il ricercatore Fahiraman Rodrigue Koné, in una intervista al quotidiano francese Le Monde, i tre leader africani hanno descritto tale valuta: «una moneta di servitù neo-coloniale che impedisce lo sviluppo economico dei loro paesi».

Il primo paese ad essere sospeso e sanzionato è stato il Mali quando, nel 2020, una giunta militare ha destituito Ibrahim Boubacar Keita (IBK) dopo che mobilitazioni popolari – fortemente represse nel sangue – ne avevano chiesto le dimissioni.

Nel 2021 un altro colpo di mano militare dava vita ad un governo di transizione militare con il sostegno popolare, un supporto che si è consolidato con la decisione di Goita di ordinare alle truppe francesi di lasciare il territorio nazionale, nel febbraio del 2022.

Nel gennaio del 2022, con una dinamica simile, veniva deposto Roch Marc Christian Kaboré nel vicino Burkina Faso. Subito seguita da un’azione manu militari del capitano Ibrahim Traore, che nel settembre formava un governo di transizione militare con un forte sostegno popolare.

Anche qui, nel gennaio dello scorso anno, veniva imposta la partenza delle truppe militari francesi, completata nel febbraio del 2023.

Il 26 luglio dello scorso anno, in Niger, il presidente Mohamed Bazoum veniva a sua volta deposto dal generale Abdourahmane Tchiani.

La CEDEAO questa volta non si era accontentata della sospensione e delle sanzioni ma aveva minacciato l’intervento militare, e la Francia aveva iniziato un vero e proprio “braccio di ferro” che ha però visto Parigi perdere.

La Francia si era infatti rifiutata di riconoscere la nuova autorità, non voleva che il suo ambasciatore – dichiarata persona non grata – lasciasse il paese e non voleva far partire il proprio contingente militare.

Il 3 agosto migliaia di persone scendevano nelle strade del Niger in sostegno alla richiesta della giunta militare alla Francia di ritirare le sue truppe.

L’annunciato intervento militare della CEDEAO – anche se fortemente sostenuta da Parigi – ne ha dimostrato la natura di “tigre di carta”, con il Senato della Nigeria che ha bocciato l’ipotesi di azione militare esterna, al pari dell’Unione Africana.

Ma soprattutto dava impulso alla creazione di un’alleanza militare tra i 3 paesi – con Mali e Burkina Faso – che erano dichiaratamente pronti ad intervenire a fianco del Niger in caso di un’azione di forza della CEDEAO.

L’Alleanza degli Stati del Sahel è stata poi formalizzata, come abbiamo ricordato, a metà settembre.

La Francia completerà le operazioni di partenza dal Niger a fine dicembre, mese in cui anche il Burkina Faso ed il Niger hanno deciso di lasciare il G5 del Sahel, di fatto provocando la “dissoluzione” di quest’altro strumento neo-coloniale francese.

Il 6 dicembre i due paesi rimanenti, che non sono tra l’altro membri della CEDEAO – cioè Mauritania e Ciad – hanno formalmente sciolto il G5.

Il 2023 è stato l’anno della fuga di Parigi dal Sahel, dove nel picco delle sue operazioni militari aveva raggiunto le 5.500 unità. Un migliaio sono ora di stanza nel Ciad.

La loro cacciata è un fatto storico che permette a quei paesi di riprendere quel corso politico interrotto ben presto, e non per tutti, con la conquista della loro libertà formale, con la sola parziale eccezione dell’esperienza del Burkina Faso di Thomas Sankara.

Il combinato disposto neo-coloniale di occupazione militare, dominazione politica, sfruttamento economico ed assoggettamento culturale con cui l’Unione Europea, attraverso la Francia, ha imposto la propria supremazia al Sahel, è così definitivamente al tramonto.

E la strategia di de-connessione scelta dai tre paesi del Sahel conferma la cesura geo-strategica che si sta disegnando in Africa occidentale, dentro un mercato mondiale sempre più frammentato.

La formidabile intuizione di Samir Amin – il de-linking – diviene lo sbocco politico pratico dei paesi che riaffermano la propria sovranità popolare.

Fonte

21/09/2023

Nasce l’Alleanza degli Stati del Sahel

Sabato 16 settembre 2023 i capi di Stato del Mali, del Burkina Faso e del Niger hanno firmato la “Carta di Liptako-Gourma” per la creazione della “Alliance des Etats du Sahel” (Alleanza degli Stati del Sahel).

Questa alleanza ha “l’obiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di assistenza reciproca a beneficio delle nostre popolazioni”, come dichiarato dal colonnello Assimi Goïta, presidente della transizione in Mali.

Il Capitano Ibrahim Traoré, presidente nel Burkina Faso, ha sottolineato come “La creazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel segna una tappa decisiva nella cooperazione tra Burkina Faso, Mali e Niger. Per la sovranità e lo sviluppo dei nostri popoli, condurremo la lotta contro il terrorismo nel nostro spazio comune, fino al raggiungimento della vittoria”.

L’articolo 4 stabilisce appunto che gli Stati membri “si impegnano a lottare contro il terrorismo in tutte le sue forme e contro la criminalità organizzata nello spazio comune dell’Alleanza” e “si adopereranno inoltre per prevenire, gestire e risolvere qualsiasi ribellione armata o altra minaccia all’integrità territoriale e alla sovranità di ciascuno dei Paesi membri dell’Alleanza, dando priorità ai mezzi pacifici e diplomatici e, se necessario, all’uso della forza” (articolo 5).

Infatti, la regione di Liptako-Gourma a cavallo tra le frontiere maliana, nigerina e burkinabè, è stata epicentro della riorganizzazione e ricomposizione delle forze jihadiste. Nella cosiddetta “zona delle tre frontiere” è il movimento dello Stato islamico del Grande Sahara, anche conosciuto come Islamic State in West African Province (ISWAP), ad essere principalmente attivo e responsabile dei numerosi attacchi terroristici di matrice jihadista.

A quest’ultimo si accompagna e si scontra il Gruppo di Sostegno all’Islam e ai musulmani (GSIM), anche conosciuto come Fronte d’Appoggio all’Islam e ai musulmani o Jamaʿat Nuṣrat al-Islām wa-l muslimīn. Si tratta di una coalizione di movimenti jihadisti affiliati all’ideologia salafita islamista guidata dal leader tuareg Iyad Ag Ghali, la quale, dopo esser stata principalmente attiva nel Nord del Mali, si è progressivamente sposta e diffusa nella regione del Liptako-Gourma.

L’intervento militare francese nel Sahel – in nome della “lotta al terrorismo” – attraverso l’Operazione Serval dal gennaio 2013, poi divenuta Barkhane, non ha affatto “stabilizzato” né messo in sicurezza le popolazioni civili della regione. Al contrario, ha radicalizzato ancor più le frange violente dei gruppi terroristici, trasformando sempre più il Sahel “nell’Afghanistan della Francia e dell’Unione Europea”.

Al tempo stesso, è andata crescendo e diffondendosi sempre più la consapevolezza che la presenza militare francese sia in realtà rivolta alla difesa degli interessi economici e strategici di Parigi, perpetrando le logiche del neocolonialismo e, in particolare, dell’intero sistema politico, economico e monetario della Françafrique.

Dalle miniere d’oro in Mali e in Burkina Faso a quelle di uranio in Niger, il saccheggio delle risorse naturali da parte delle multinazionali francesi ed europee è ormai sotto gli occhi di tutti.

Dopo il ritiro delle truppe francesi e la fine delle operazioni della forza Barkhane in Mali (tra gennaio e agosto 2022) e in Burkina Faso (febbraio 2023), il Niger aveva rappresentato uno spazio temporaneo di collocamento per rilanciare la riorganizzazione dell’intervento militare nel Sahel.

Tuttavia, il colpo di Stato a Niamey ha sparigliato le carte: sebbene le attività di cooperazione militare siano state sospese, in Niger restano ancora circa 1500 soldati francesi – oltre a 1000 soldati statunitensi e 350 membri delle Forze Armate italiane – il cui ritiro sarebbe oggetto di discussioni e negoziazioni da qualche settimana.

L’Alleanza degli Stati del Sahel (AES, dall’acronimo in francese) si è così innestata nel cuore delle molteplici crisi che destabilizzano l’intero territorio del Sahel.

Per i leader delle giunte militari che si sono affermate al potere attraverso colpi di Stato patriottici e supportati da un’ampia parte della popolazione, l’AES rappresenta un coordinamento strategico e operativo in materia di sicurezza comune che si farà carico di alcune missioni che il coordinamento “G5 Sahel” non è stato in grado di svolgere.

Il G5 Sahel, fondato nel 2014 su spinta della Francia, è una forza congiunta tra i cinque Stati della regione – Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad – in materia di politiche di sviluppo e sicurezza comune. Questo coordinamento è di fatto morto e superato dagli obiettivi e dalla cooperazione stabilita dall’Alleanza degli Stati del Sahel.

Nelle parole del generale Abdourahamane Tiani, leader del Niger dopo il colpo di Stato che ha spodestato Mohamed Bazoum e istituito il Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (CNSP): “Insieme, costruiremo un Sahel pacifico, prospero e unito”.

Questi Paesi sono, in varia misura, sottoposte a sanzioni economiche, finanziarie e commerciali imposte dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (CEDEAO). Inoltre, a seguito del colpo di Stato in Niger del 26 luglio scorso, la CEDEAO ha rifiutato il dialogo con le autorità militari e ha più volta lanciato degli ultimatum per “ripristinare immediatamente l’ordine costituzionale”, pretendendo di reintegrare l’ex presidente Bazoum alla sua carica.

Per diverse settimane, alcuni leader dei paesi membri della CEDEAO, in particolare i “cani da guardia” dell’imperialismo occidentale – il presidente senegalese Macky Sall e il presidente ivoriano Alassane Ouattara – hanno minacciato un intervento militare in Niger, forti del placet delle cancellerie europee.

Tuttavia, i vicini Burkina Faso e Mali avevano prontamente reagito ritenendo che un’operazione militare contro il Niger per reintegrare con la forza il deposto presidente Mohamed Bazoum sarebbe stata equivalente ad “una dichiarazione di guerra” e promettendo una “risposta immediata” a sostegno della giunta e della popolazione nigerina.

Per questo motivo, l’articolo 6 della Carta fondante dell’AES stabilisce che “qualsiasi attacco alla sovranità e all’integrità territoriale di una o più parti contraenti sarà considerato come un’aggressione contro le altre parti e farà scattare il dovere di assistenza e soccorso da parte di tutte le parti, individualmente o collettivamente, compreso l’uso della forza armata per ripristinare e garantire la sicurezza all’interno dell’area coperta dall’Alleanza”.

La Carta resta aperta a “qualsiasi altro Stato che condivida le stesse realtà geografiche, politiche e socioculturali e che accetti gli obiettivi dell’Alleanza” e qualsiasi “richiesta di adesione sarà accettata dal voto unanime degli Stati membri” (articolo 11).

Inoltre, la Carta fondante dell’AES mette nero su bianco una nuova maniere di intendere e praticare le relazioni internazionali, in controtendenza rispetto all’imposizione di sanzioni illegittime e catastrofiche per le popolazioni.

Infatti, l’articolo 8 sancisce che “I Paesi firmatari si impegnano: a non ricorrere tra di loro alla minaccia, all’uso della forza o all’aggressione, contro l’integrità territoriale o l’indipendenza di uno degli Stati membri; a non mettere in atto blocchi navali, autostradali, marittimi o delle infrastrutture strategiche attraverso le forze armate; a non perpetrare attacchi o aggressione contro un altro Stato membro o a Stati terzi, a partire dal territorio messo a disposizione da uno degli Stati firmatari”.

Il sistema della Françafrique vacilla e perde pezzi, così come le istituzioni sovranazionali africane messe in campo per agire come longa manu degli interessi occidentali e per garantire una posizione di privilegio alle borghesie nazionali asservite alle potenze neocoloniali.

Il Sahel sta diventando a tutti gli effetti il punto di caduta dell’imperialismo europeo in Africa.

Fonte

07/09/2023

Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione)

di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] È ben diverso da quello degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum. In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche1.

Però, prima di proseguire con l’analisi del contenuto del testo, occorre qui sottolineare subito come di quei dodici stati menzionati nella categoria “Sahel” negli ultimi anni almeno sette si siano sottratti all’influenza occidentale in generale e francese in particolare, come i recenti fatti collegati al “colpo di stato” nigerino sembrano confermare; nonostante gli sforzi militari ed economico-politici messi in atto dal colonialismo francese di mantenere il controllo su una delle aree più ricche di uranio ed altre preziose materie prime dell’intero continente africano. Un’autentica débacle per una forma di occupazione coloniale che è continuata per decenni dopo la cosiddetta “fine dell’età coloniale”, ma che oggi sembra essere giunta al termine insieme alle pretese occidentali di rappresentare, sulle teste di miliardi di abitanti del pianeta oppure delle centinaia di milioni di quelli delle regioni africane coinvolte, l’unico e perfetto modello di governance e organizzazione dello sfruttamento economico delle risorse di gran parte del pianeta.

E qui, in questa pretesa di universalità del modello occidentale, si inserisce la leva, anzi verrebbe da dire il piede di porco, di Amselle, tutto teso a scardinare un modello e un immaginario che sono serviti soltanto a perpetrare fino ad ora un dominio volto a garantire la stabilità e la continuità dello sfruttamento delle risorse africane a favore dei ben più ricchi paesi dell’Occidente bianco e crapulone. Infatti, come afferma ancora Aime nella sua prefazione:

Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori […] Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore2.

Come chiarisce lo stesso Amselle:

il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana “sudanese”, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista, che mescola popolazioni “bianche”, “rosse” e “nere”, agricoltori sedentari e pastori transumanti, animisti e musulmani. Questa realtà mutevole, come quelle che la circondano (il Sahara, la savana), è stata coinvolta in una serie di formazioni politiche su larga scala – gli Imperi del Ghana, del Mali e del Songhay – tutte orientate lungo un asse nord-sud piuttosto che ovest-est. Sebbene la colonizzazione francese si estendesse dal Maghreb al Golfo di Guinea, non fu questa la divisione geografica che ne derivò. Al contrario, i conquistatori, gli amministratori e gli studiosi coloniali stabilirono una geografia razziale e bio-climatica che livellava le zone geografiche, le razze e le etnie in funzione delle latitudini. Ne è risultata una gerarchizzazione ambigua che oppone delle razze “civilizzate” ma pericolose, come i mori, i tuareg e i peul, a razze più incolte ma più pacifiche, come gli “agricoltori neri”. Questo schema di riferimento coloniale continua a essere utilizzato ancora oggi e a ossessionare gli ufficiali francesi delle operazioni “Barkhane” e “Takuba”3.

Sottolineando però come l’opera di divisione trasversale sia stata non soltanto geografica, bio-climatica e razziale, ma anche linguistica.

Non ho ancora fatto notare che dal 2013 in poi, i successivi interventi militari che hanno coinvolto diversi Paesi “saheliani”, soprattutto il Mali, hanno avuto nomi arabi o tamasheq […] “Takuba”, il termine utilizzato per designare la forza speciale europea voluta da Emmanuel Macron, significa “sciabola” in lingua tamasheq. Il campo semantico utilizzato dal comando francese è quindi principalmente arabo e tamasheq e riguarda quindi soltanto le popolazioni nomadi, che rappresentano solo una frazione della popolazione totale del Mali. È facile osservare quindi come la guerra nel Sahel si giochi anche sul piano simbolico, con la scelta dei termini utilizzati, che possono anche ritorcersi contro chi li aveva introdotti. […] Con l’invenzione della categoria di Sahel all’inizio della colonizzazione, e fino al suo utilizzo odierno, la Francia e il Mali non hanno più smesso di guardarsi con sospetto. È la proiezione di un immaginario fantasma, di una parte dell’Africa che ha la consistenza di un sogno, di un safari avventuroso dove si inseguono le fantasie di una casta militare nostalgica di un’epoca passata, un’epoca in cui la Francia contava ancora sulla scena internazionale, mentre adesso non può nemmeno più giocare alla guerra4.

In questo modo l’ex-potenza coloniale francese non soltanto ha troncato le vie “naturali” che un tempo collegavano da nord a sud le società del continente, favorendo lo sviluppo di regni e stati che la storiografia colonialista sembra aver cancellato dalla Storia, riducendo la stessa ad un susseguirsi di scontri interetnici cui solo l’intervento coloniale occidentale avrebbe messo fine5, ma ha anche contribuito allo sviluppo di un’etnicizzazione precedentemente inesistente o scarsamente rappresentativa delle culture locali che si incrociavano e confrontavano secondo altri parametri. Etnicizzazione e demonizzazione, ad esempio, dell’Islam in cui spesso sono cascati anche gli intellettuali “locali”, come Amselle dimostra nel lungo capitolo riguardante La formattazione dell’intellettuale saheliano6. Così, come chiarisce ancora Aime nella sua prefazione:

Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno […] Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”7.

La forma-stato che il colonialismo centralizzatore, soprattutto francese, ha lasciato in eredità ha fatto poi sì che:

L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità8.

Ecco, allora, che il testo edito da Meltemi si rivela di fondamentale importanza per approfondire l’interpretazione degli eventi, solo apparentemente disordinati e imprevedibili, che hanno percorso quella fascia continentale dell’Africa dal febbraio del 2022 (quando i francesi sono stati invitati a lasciare il Mali in 72 ore) e il luglio del 2023 (colpo di stato nigerino). Diciotto mesi durante i quali la storia del continente e del mondo ha ripreso a correre in direziona ostinatamente contraria a quanto voluto, sperato e narrato mediaticamente dai vertici politici, militari ed economici occidentali.

E se qualcuno non fosse ancora convinto di ciò, allora basterebbe paragonare il rapido abbandono di Kabul nell’autunno del 2021 con quello di Khartum nell’aprile di quest’anno. Due capitali, una dell’Afghanistan, l’altra del Sudan; la prima con 4.600.000 abitanti, a capo di uno stato di 650.000 kmq di estensione, e la seconda con 5.275.000 abitanti, a capo di uno stato di 1.800.000 kmq. Aree troppo vaste, troppo miserabili e troppo socialmente e religiosamente nemiche dell’ordine occidentale fin dall’Ottocento9 in cui il tentativo americano ed europeo di tenere in piedi governi fantoccio organizzati intorno alla corruzione e alla concessione di ricche prebende in cambio del libero sfruttamento di risorse fondamentali per l’economia capitalistica occidentale è andato bellamente a farsi fottere. E non per caso.

Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della «grandeur». […] Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. […] Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale.[…] Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere10.

Un richiamo cui forse non sfugge neppure il recente colpo di stato militare riuscito, dopo quello fallito del 7 gennaio 2019, nel Gabon11. Anche se, come sempre, è spesso difficile separare l’anelito all’indipendenza dalla Francia dei militari e dei popoli africani dai giochi dell’imperialismo e delle rivalità infra-europee ed occidentali12

Note

  1. M. Aime, Prefazione all’edizione italiana in Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 9-10  

  2. M. Aime, op. cit., p. 9  

  3. J-L. Amselle op. cit., pp. 143-144  

  4. Ibidem, pp. 144-145  

  5. Si vedano in proposito: T.Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed.originale inglese 2019) e M. Aime, La carovana del sultano. Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale, Giulio Einaudi Editore, Torino 2023  

  6. Ivi, pp. 37-81  

  7. Ivi, p. 12  

  8. ivi, p. 13  

  9. Quando per quasi vent’anni, tra il 1882 e il 1899, l’impero britannico fu costretto, insieme all’Egitto, a rinunciare al controllo del Sudan e del cruciale snodo geo-politico di Khartum, città posta tra i due principali affluenti del Nilo, dopo le sconfitte subite a causa della rivolta mahdista guidata da Muhammad Ahmad, proclamatosi mahdi, redentore dell’Islam, nel 1881.  

  10. D. Quirico, Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo, La Stampa, 28 luglio 2023  

  11. “La Francia ha sempre avuto fortissimi legami con il Gabon che è anche nell’area monetaria del Franco CFA, legato a Parigi, e l’esercito gabonese da anni viene addestrato dai militari francesi. Altri grandi player sono però presenti da anni in Gabon, soprattutto la Cina. Pechino è stata fra i primi a rilasciare un comunicato per chiedere garanzie sulla sicurezza di Ali Bongo, che in primavera era stato ospite di Xi Jinping per concludere una serie di accordi commerciali sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Gli stati confinanti come il Camerun ed il Congo non hanno ancora preso una posizione ufficiale, ma restano entrambi piuttosto vicini alla Francia, anche se in Congo le attività petrolifere sono in joint venture con aziende russe da anni. Già nel 2019 le forze armate avevano tento un colpo di stato in Gabon approfittando dell’assenza di Bongo, in Marocco per curarsi dopo l’ictus, ma in poche ore il governo gabonese aveva ripreso il controllo della situazione. Ora le cose sono diverse e nelle strade di Libreville regna la calma, compreso nel quartiere dove risiede la famiglia del presidente. Questo golpe arriva in un momento particolarmente critico ed in una regione nella quale i paesi sembravano molto più stabili rispetto al travagliato Sahel, un contagio molto pericoloso che potrebbe cambiare definitivamente gli equilibri del continente africano.” Matteo Giusti, I militari prendono il potere anche in Gabon. Un golpe che arriva in un momento particolarmente critico, “Il Riformista”, 30 agosto 2023  

  12. Si pensi, a solo titolo di esempio, che già alla fine dell’Ottocento il ritorno del dominio britannico nel Sudan Mahdista fu dovuto in gran parte al timore per le mire espansionistiche francesi che, potendo contare su una presenza nel Ciad, si sarebbero potute espandere nel Darfur e indebolire l’egemonia britannica nel nord e nell’est dell’Africa.

Fonte

26/08/2023

Le truppe del Mali e del Burkina Faso al fianco del Niger

Il leader della giunta militare al potere in Niger, Abdourahamane Tchiani, ha firmato un’ordinanza che autorizza i governi di Mali e Burkina Faso ad inviare le loro truppe nel Paese per aiutarlo a difendersi in caso di attacco armato. L’annuncio, riferiscono i media nigerini, segue la visita conclusa ieri a Niamey dei ministri degli Esteri del Mali e del Burkina Faso.

La Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Cedeao) ha minacciato di intervenire militarmente in Niger per reinsediare il presidente filoccidentale Mohamed Bazoum, deposto dai militari che hanno preso il potere lo scorso 26 luglio. Sebbene le iniziative diplomatiche stiano proseguendo, la Cedeao ha avvertito di essere pronta ad inviare le truppe in caso di un loro fallimento.

L’Unione Africana, i cui delegati avevano espresso contrarietà per un intervento armato, ha infine “preso atto” della decisione Cedeao in un comunicato, senza opporvisi in modo ufficiale.

Fonte

09/08/2023

Niger - La giunta al potere non si piega

Il presidente nigeriano Bola Tinubu ha convocato per domani un nuovo vertice straordinario della Cedeao per coordinare l’intervento contro la giunta al potere in Niger.

Gli Stati Uniti hanno intanto incassato un primo schiaffo quando hanno inviato a Niamey la vice segretaria di Stato, Victoria Nuland (una delle menti del golpe Euromaidan in Ucraina, ndr), per una visita che non ha sortito affatto i risultati sperati.

La giunta militare ha infatti impedito alla Nuland di incontrare il presidente deposto, Mohamed Bazoum, confinato nella sua residenza ufficiale. Inoltre a Niamey la Nuland si è confrontata solo con il generale Moussa Salaou Barmou – un ufficiale addestrato negli Stati Uniti – e con tre altri colonnelli coinvolti nel colpo di Stato. Abdourahamane Tchiani, leader della giunta al potere, ha invece rifiutato di incontrare l’inviata statunitense. “Sono stati piuttosto inflessibili in merito a come intendono procedere, e non intendono farlo a sostegno della costituzione del Niger”, ha dichiarato Nuland nel corso della conferenza stampa a Niamey. La vice segretaria ha aggiunto di aver messo “assolutamente in chiaro il tipo di supporto che dovremo legalmente interrompere se l’ordine democratico non verrà ripristinato”.

Il segretario di Stato USA, Antony Blinken, in una intervista rilasciata all’emittente francese “Rfi”, ha ribadito che gli Stati Uniti sostengono i tentativi della Cedeao per il ripristino dell’ordine costituzionale e ritengono che la diplomazia sia da preferire all’ipotesi di un intervento militare ma non si è espresso sul futuro dei circa 1.100 militari Usa di stanza nel Niger, dove sono presenti anche contingenti militari di Francia, Germania e Italia. Parlando anche alla “Bbc”, Blinken ha sottolineato che gli Stati Uniti non credono che la Russia o il suo gruppo di mercenari Wagner sia dietro il colpo di Stato militare che ha destituito il presidente Bazoum, ma ritengono che Mosca stia cercando di trarne vantaggio.

“Intervento o no, la guerra dei nervi continua la sua telenovela estiva. Ed è proprio il Ministero degli Affari Esteri francese a completare l’unificazione grafica dell’immagine dei tre Paesi saheliani presi di mira nei suoi “consigli ai viaggiatori”: in una monocromia rosso fuoco, le mappe di Mali, Niger e Burkina sono ora tutte presentate come “zone formalmente sconsigliate”... per i francesi” commenta l’autorevole Jeune Afrique.

Si rileva intanto una nuova dichiarazione di sostegno alla giunta salita al potere in Niger da parte della giunta al potere nel Mali. Il portavoce della giunta militare di Bamako, Abdoulaye Maiga, ha infatti nuovamente descritto le sanzioni imposte dalla Cedeao come “illegali, illegittime e disumane”. In una nota, il portavoce ha quindi denunciato che Burkina Faso, Mali e Niger hanno a che fare con le “conseguenze socio-economiche, di sicurezza, politiche e umanitarie negative della pericolosa avventura della Nato in Libia da oltre un decennio” e ha incoraggiato i nigerini a essere “resilienti e stoici” in questi “tempi difficili”, assicurando loro la vittoria e “l’incrollabile sostegno” da parte di Bamako.

La dichiarazione giunge dopo che ieri una delegazione ufficiale congiunta delle giunte salite al potere in Mali e Burkina Faso si è recata in visita a Niamey in segno di “solidarietà” con il Niger sotto la minaccia di un intervento militare da parte dei Paesi dell’Africa occidentale. Già la scorsa settimana i leader militari del Mali e del Burkina Faso avevano messo in guardia contro un intervento militare della Cedeao in Niger, affermando che si tratterebbe di una “dichiarazione di guerra” nei loro confronti.

Fonte

07/03/2023

Africa - La rabbia contro l’Occidente dilaga

Nella capitale del Burkina Faso migliaia di persone sono scese in piazza per dire “no” all’imperialismo e per sostenere la transizione guidata dal capitano Ibrahim Traoré. Secondo quanto riferisce l’emittente “Rfi”, i manifestanti scesi in piazza a Ouagadogu hanno esposto cartelli con su scritto “liberi dalla Francia”, “no all’imperialismo” e “abbasso gli accordi militari tra Burkina e Francia” ma anche qualche bandiera russa.

I manifestanti si sono recati in corteo al campo militare di Kamboinsin, dove erano di stanza le forze speciali francesi dell’operazione Saber, chiedendo la partenza entro il 28 marzo del resto dei militari di Parigi ancora presenti nel Paese. I soldati francesi della task force Sabre hanno dichiarato ufficialmente concluse le loro operazioni in Burkina Faso lo scorso 18 febbraio.

La scorsa settimana il governo di transizione del Burkina Faso ha chiesto la partenza definitiva di tutto il personale militare francese ancora presente nel Paese. Con una nota, il ministero degli Affari esteri ha denunciato l’accordo di “assistenza tecnica militare” firmato con la Francia nel 1961, concedendo a Parigi un mese di tempo per “la partenza definitiva di tutto il personale militare francese in servizio”.

Dal 24 aprile 1961, data della firma dell’accordo di assistenza tecnica militare indicato nel documento, i militari francesi sono presenti nei settori della difesa, della sicurezza e persino della protezione civile in Burkina Faso. Concretamente, questo accordo si traduce in sostegno finanziario e materiale e addestramento occasionale per l’esercito burkinabè. La messa in discussione di questo accordo arriva in un contesto di sicurezza estremamente teso.

Ma quello in Burkina Faso non è l’unico serio guaio nella crisi del controllo coloniale francese e occidentale sull’Africa. Anche in altri paesi del continente i toni stanno cambiando significativamente.

Le Monde riferisce che il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra domenica scorsa in visita a Doha, si è scagliato contro gli occidentali, accusandoli di “alimentare l’instabilità politica” per saccheggiare le ricchezze del Paese e impedirne lo sviluppo. In occasione del vertice dei Paesi meno sviluppati (LDC) sponsorizzato dalle Nazioni Unite a Doha, il capo di Stato ha affermato che il suo Paese è “vittima di obiettivi geostrategici legati alle sue risorse naturali”.

“La Repubblica Centrafricana è stata sottoposta, fin dalla sua indipendenza, a un saccheggio sistematico facilitato dall’instabilità politica mantenuta da alcuni Paesi occidentali” e da “gruppi terroristici armati i cui leader sono mercenari stranieri”, ha denunciato. I “ricorrenti attacchi” di questi gruppi mirano a “rendere il Paese ingovernabile, per impedire allo Stato di esercitare il suo diritto di sovranità sulle riserve naturali e il suo legittimo diritto all’autodeterminazione”.

Fonte

28/01/2023

Burkina Faso - Espulse le truppe francesi

Il 18 gennaio 2023, il governo del Burkina Faso ha deciso di chiedere alle forze militari francesi di lasciare il Paese entro un mese. La decisione è stata presa dal governo del capitano Ibrahim Traoré, che a settembre ha messo in atto il secondo colpo di Stato del 2022 in Burkina Faso per destituire il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva preso il potere con un colpo di Stato a gennaio.

Traoré, ora presidente ad interim del Burkina Faso, ha affermato che Damiba, che si trova in esilio in Togo, non aveva raggiunto gli obiettivi del Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione, il nome del suo gruppo militare. Il governo di Traoré ha accusato Damiba di non essere stato in grado di arginare l’insurrezione nel nord del Paese e di essere colluso con i francesi (sostenendo che Damiba si fosse rifugiato nella base militare francese di Kamboinsin per lanciare un attacco contro il colpo di Stato nel colpo di Stato).

La Francia è entrata nella regione del Sahel nel 2013 per impedire lo spostamento verso sud di elementi jihadisti rafforzati dalla guerra in Libia, condotta dalla NATO. Negli ultimi anni, il sentimento antifrancese si è intensificato in Nord Africa e nel Sahel.

È stato questo sentimento a provocare i colpi di Stato in Mali (agosto 2020 e maggio 2021), Guinea (settembre 2021) e poi in Burkina Faso (gennaio 2022 e settembre 2022). Nel febbraio 2022, il governo del Mali ha espulso l’esercito francese, accusandolo di aver commesso atrocità contro i civili e di aver collaborato con gli insorti jihadisti. Il Burkina Faso si è unito al Mali.

L’espulsione della Francia non significa che non ci saranno Paesi NATO nella regione. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno un’ampia presenza dal Marocco al Niger, con gli Stati Uniti che cercano di attirare i Paesi africani nella loro competizione contro la Cina e la Russia.

I viaggi regolari dei leader militari statunitensi – come il generale del Corpo dei Marines Michael Langley (comandante del Comando Africa degli Stati Uniti) in Gabon a metà gennaio – e dei leader civili statunitensi – come il segretario al Tesoro Janet Yellen in Senegal, Sudafrica e Zambia – fanno parte di un’azione a tutto campo per garantire che gli Stati africani stringano legami più stretti con gli Stati Uniti e i loro alleati rispetto alla Cina.

La designazione del Gruppo Wagner della Russia – che opererebbe nel Sahel – come “organizzazione criminale transnazionale” da parte degli Stati Uniti e il Vertice dei leader USA-Africa, tenutosi a metà dicembre, sono entrambi tentativi di attirare gli Stati africani in una nuova guerra fredda.

Secondo le Nazioni Unite, quasi la metà della popolazione burkinabé vive al di sotto della soglia di povertà e “più di 630.000 persone sono sull’orlo della fame“. Il Paese, tuttavia, non è povero: le sue esportazioni di oro hanno raggiunto i 7,19 miliardi di dollari nel 2020. Questi guadagni non vanno al popolo burkinabé, ma alle grandi compagnie minerarie. L’espulsione dei militari francesi non sarà una risposta sufficiente a questi problemi profondi del Burkina Faso.

Fonte

04/01/2023

Burkina Faso - Il governo chiede l'allontanamento dell'ambasciatore francese

La Francia sta decisamente perdendo la sua influenza sull’Africa. Le autorità di transizione del Burkina Faso non vogliono più avere a che fare con l’ambasciatore francese Luc Hallade.

Secondo una fonte francese, Olivia Rouamba, Ministro degli Affari Esteri burkinabé, ha inviato una lettera ufficiale al Quai d’Orsay alla fine di dicembre chiedendo di “cambiare interlocutore”.

La richiesta arriva dopo che all’inizio di luglio l’ambasciatore Hallade aveva scritto una lettera indirizzata ai deputati francesi secondo cui la crisi della sicurezza in Burkina è “in realtà una guerra civile”, aggiungendo che “parte della popolazione si ribella allo Stato e cerca di rovesciarlo”.

Pochi giorni dopo, durante la commemorazione della festa nazionale francese a Ouagadougou, il diplomatico aveva insultato alcuni utenti sul web definendoli degli “utili idioti” che accusavano la Francia, senza prove, di essere coinvolta nella lotta al terrorismo nel Sahel.

Descrivendo queste osservazioni come “scortesi” e “ostili”, il governo del Burkina Faso aveva protestato vigorosamente con le autorità di Parigi e alcuni cittadini avevano chiesto la sua espulsione.

A metà dicembre, due cittadini francesi sono stati accusati di spionaggio ed espulsi dal Paese africano.

Se confermata, la notizia rappresenterebbe dunque soltanto l’ultimo passo nella rottura diplomatica tra Burkina Faso e Francia che va avanti ormai da diversi mesi, specialmente dopo il colpo di Stato dello scorso 30 settembre – il secondo avvenuto in Burkina nell’ultimo anno – che ha portato al potere il capitano Ibrahim Traoré.

Da allora sono state organizzate diverse manifestazioni contro la presenza di militari francesi nel paese sfociate anche in un assalto contro l’ambasciata francese.

Fonte

06/12/2022

Burkina Faso - Le sfide del processo di transizione “sankarista”

L’articolo che abbiamo qui tradotto è una analisi piuttosto approfondita del difficile processo di transizione politica del Burkina Faso, iniziato il 21 ottobre di quest’anno.

Le due figure di spicco che guideranno questo processo sono il Primo Ministro, Me Kyelem Apollinaire de Tambela, ed il capitano Ibrahim Traoré, nominato presidente della transizione dal Consiglio Costituzionale.

I militari “patriottici” hanno un ruolo preponderante in questo “secondo” tentativo di transizione, dopo la deposizione del colonnello Paul Henri Damiba, avvenuta il 30 settembre, leader della precedente giunta golpista che aveva preso il potere a gennaio di quest’anno.

Tambela e Traoré sono due figure entrambe fortemente influenzate dal sankarismo, i cui profili vengono ben delineati da Bruno Jaffre, mostrando fin dove può spingersi il paragone con il leader panafricanista assassinato nel 1987.

Al centro dell’agenda dell’autorità militare e civile di transizione, infatti, c’è la risoluzione della difficile situazione della sicurezza del Paese, che la presenza militare francese non ha certo contribuito a migliorare, anzi. “La questione del mantenimento della presenza francese” è scritto nell’articolo “rimane all’ordine del giorno“.

Per il momento, le autorità non hanno preso posizione, ripetendo il contenuto delle loro dichiarazioni generali secondo le quali solo gli interessi del Burkina Faso sarebbero presi in considerazione nelle relazioni con i loro partner. Ma il Primo Ministro è tornato a lungo sull’argomento durante il suo discorso di politica generale.

Ha dichiarato: “Pensiamo, forse a torto, che alcuni partner non siano sempre stati leali. Come possiamo concepire che il terrorismo affligge il nostro paese dal 2015, nell’indifferenza, se non con la complicità di alcuni dei nostri cosiddetti partner?

Dove prendono le armi, le munizioni, il carburante e il denaro che hanno in abbondanza? Come possono i paesi che hanno il controllo dello spazio, con moderni mezzi di rilevamento, non fornirci, se sono nostri veri amici, le informazioni necessarie sulle azioni e i movimenti di questi terroristi?

È qui che sorge la domanda. Non siamo stati troppo ingenui nelle relazioni con i nostri partner fino ad ora? Senza dubbio. È necessaria una riflessione. Cercheremo, per quanto possibile, di diversificare le nostre relazioni di partenariato fino a trovare la formula giusta per gli interessi del Burkina Faso.

Ma non si tratta di lasciarsi dominare da un partner, chiunque esso sia. Nella lotta al terrorismo, spetta ai burkinabé, e solo a loro, difendere il proprio paese in pericolo. Con, ovviamente, il benevolo supporto di tutti coloro che vorranno accompagnarci.”


Un messaggio chiaro che rende esplicita la volontà dei burkinabé di riprendere la propria sovranità, anche attraverso la mobilitazione popolare e l’armamento di massa contro il terrorismo ed i gruppi armati presenti nel paese, in collaborazione con chi vorrà assicurare il proprio contributo, ma senza ingerenze.

Il ripristino della sicurezza è la conditio sine qua non per potere riarticolare uno sviluppo autocentrato, per un paese povero di risorse naturali, e prevalentemente agricolo, e devastato dalla guerra,

Una altro aspetto importante è la necessità di una netta discontinuità – e l’istituzione dei relativi processi giudiziari – nei confronti delle cerchie di potere che hanno approfittato in tempi diversi della gestione della cosa pubblica, rompendo con una impunità garantitagli soprattutto dal loro essere state pedine degli interessi occidentali.

È un processo non certo facile, quello dal popolo burkinabé, che ha subito dal 2015 lo sviluppo dello jihadismo in Sahel seguito alla destabilizzazione della Libia da parte della NATO, pagando un tributo di sangue di migliaia di morti, con due milioni di persone che hanno dovuto lasciare le proprie case, ed un milione di bambini che non possono recarsi a scuola, perché più di 5.700 istituti scolastici – più di un quinto di quelli totali – hanno dovuto chiudere a causa del terrorismo islamico nel nord e nell’est del paese, con circa 28mila insegnanti che non possono svolgere il proprio lavoro.

Una situazione drammatica di cui sono perfettamente coscienti gli attuali leader, così come la popolazione, a cui l’Occidente non ha saputo – o non ha voluto – porre soluzione.

Per questo il popolo burkinabé ha deciso di “contare sulle proprie forze”.

Buona lettura.

*****

Burkina Faso. Transizione in atto, primo ministro sankarista e grandi sfide da affrontare

di Bruno Jaffre – Investig’Action

La transizione è stata completata senza troppe difficoltà, con l’esercito che ha svolto un ruolo di primo piano. Il Primo Ministro, Me Kyelem Apollinaire de Tambela, mostra la sua influenza sankarista. Il duo che forma con il presidente della transizione, il capitano Ibrahim Traoré, sarà in grado di risollevare il Burkina, che sta affondando da diversi anni?

L’ultimo colpo di stato aveva nuovamente fatto precipitare il paese, soprattutto la capitale, in una situazione particolarmente preoccupante. Due clan dell’esercito erano sul punto di scontrarsi. Alla fine, la grande mobilitazione della popolazione della capitale nelle strade e nei luoghi in cui i due clan si sono affrontati, in particolare intorno alla base aerea, è stata senza dubbio decisiva per evitare il peggio. Questa mobilitazione è certamente dovuta al rifiuto del tenente colonnello Paul Henri Damiba di rinunciare al potere, leader del paese dall’ultimo colpo di stato del gennaio 2022, ma anche alla diffusione di notizie false secondo le quali sarebbe stato protetto dalle truppe francesi.

Dopo la fuga in elicottero di Paul Henri Damiba, la popolarità del capitano Ibrahim, portato in trionfo al termine del suo ultimo discorso televisivo, è ai massimi livelli.

Una conferenza nazionale ben strutturata e consensuale

Sono state rilasciate pochissime informazioni prima della conferenza nazionale, prevista per il 14-15 ottobre 2022. La bozza della carta non era stata resa pubblica ed era stata distribuita solo il giorno prima, intorno alle 16, ai partecipanti che avrebbero potuto essere coinvolti. La stampa non ha riportato i lavori e i dibattiti che si sono svolti.

Nell’elenco dei partecipanti che abbiamo ricevuto, c’era una forte presenza delle FDS (Forze di Difesa e Sicurezza), quasi un terzo, diviso tra i rappresentanti del MPSR2 (Movimento Patriottico per la Salvaguardia e il Ripristino della 2ª Formula) e vari corpi, gendarmeria, polizia nazionale e municipale, dogana, sicurezza carceraria, acqua e foreste.

L’elenco mostra 100 rappresentanti dell’MPSR2. Secondo un organizzatore, una buona metà di loro, i civili, sono rappresentanti dei cosiddetti “panafricanisti”, noti soprattutto per le loro dichiarazioni antifrancesi che chiedono un’alleanza con la Russia. Per errore sono stati raggruppati con l’MPSR2 nell’elenco, mi hanno detto.

I rappresentanti delle CSO (organizzazioni della società civile) dovevano essere rappresentati da quelle che chiamiamo organizzazioni ombrello (raggruppamenti di CSO). Molti di loro ora affermano di essere panafricanisti. Alcuni di essi sono molto recenti e non hanno un’esistenza legale. D’altra parte, il Consiglio Nazionale delle OSC, un’organizzazione ombrello molto antica e riconosciuta come interlocutore rappresentativo dei vari poteri, aveva solo due rappresentanti.

Tra le organizzazioni istituzionalizzate e di lunga data, era rappresentato il CGD (Centro per la Governance Democratica), ma non la REN LAC (Rete Nazionale per la Lotta alla Corruzione), né il Balai citoyen. Il centro stampa Norbert Zongo era stato invitato ma non ha inviato alcun delegato. Infine, i partiti politici avevano 30 rappresentanti. Da notare anche la presenza di sfollati interni (IDP), elencati sotto il Segretariato Generale del Ministero della Solidarietà Nazionale e dell’Azione Umanitaria.

Diversi personaggi noti della società civile, che non sono stati invitati, non hanno ritenuto utile partecipare a un’assemblea le cui decisioni erano note in anticipo, definendola a volte una farsa.

La Carta della Transizione è stata messa online per consentire i contributi su Internet, che sono stati più di diecimila secondo quanto mi ha detto un membro dell’organizzazione.

Durante la sessione di apertura, la discussione si è concentrata sulla metodologia e poi è stata aperta la parola ai commenti iniziali sulla Carta di Transizione. Poi gli articoli sono stati discussi uno per uno. Il dibattito si è concentrato sulla composizione dell’Assemblea di transizione, sul numero di ministri e sui criteri di scelta.

Dopo le 17, il dibattito si è concentrato sugli obiettivi da assegnare alla Transizione. L’incontro si è concluso con la firma della Carta della Transizione che ha consacrato Ibrahim Traoré, Presidente dell’MPSR2, come “Presidente della Transizione, Capo di Stato, Capo Supremo delle Forze Armate Nazionali”.

Per un altro ex leader della società civile, gli incontri sono andati bene. Secondo lui, non c’era nulla di realmente in gioco dal momento che la bozza di statuto prevedeva che il presidente della transizione fosse quello dell’MPSR. Una grande folla di persone si è accalcata intorno alla sala del congresso dove si è tenuta la riunione e l’unica preoccupazione sembrava essere quella di designare il capitano Ibrahim Traoré come presidente.

Tra le decisioni di questi ultimi incontri, notiamo soprattutto la durata della Transizione fissata a 21 mesi, il numero di ministri che non deve superare i 25, l’impossibilità per il Presidente, il Primo Ministro e il Presidente dell’Assemblea Legislativa della Transizione di candidarsi alle future elezioni.

Infine, “La funzione di membro dell’Assemblea Legislativa è gratuita” ma “i membri ricevono un’indennità di sessione” stabilisce l’articolo 13, che rappresenta un importante cambiamento rispetto alla precedente Transizione. L’aumento degli stipendi dei ministri deciso dal MPSR1 aveva provocato un’ondata di malcontento all’epoca. Il futuro governo lo cancellerà.

Confronto tra l’attuazione delle transizioni nel 2014, gennaio e novembre 2022

Le principali differenze tra quanto accaduto nel 2014 e nel 2022 risiedono nell’equilibrio di potere. Nel 2014, le organizzazioni della società civile hanno preso l’iniziativa di chiamare l’esercito, all’indomani dell’esfiltrazione di Blaise Compaoré da parte dell’esercito francese, sotto la spinta del Balai citoyen.

Quest’ultima ha ritenuto che il suo ruolo fosse terminato in quella fase e altri membri della società civile hanno preso l’iniziativa di consultarsi per impostare la transizione, anche se l’esercito ha gradualmente acquisito un peso sempre maggiore. Ciò è dovuto in gran parte alle differenze tra civili, partiti e CSO.

All’epoca, diversi leader della società civile erano più o meno riconosciuti e identificati e si erano fatti notare combattendo contro il regime di Blaise Compaoré. Le prime decisioni importanti sono state prese in un’assemblea generale da cui è emerso il progetto di redigere una bozza di Carta della Transizione, ma anche di istituire un coordinamento di CSO che avrebbe condotto i negoziati, prima con i partiti politici, poi con le autorità religiose.

Il lavoro viene svolto da due rappresentanti di ciascuno di questi gruppi. A quel punto sono stati avviati i negoziati con i rappresentanti dell’esercito, che hanno anche lanciato una bozza di Carta scritta con l’aiuto di alcuni avvocati civili e costituzionalisti. Le trattative finali sono state lunghe e noiose e sono state fatte concessioni da entrambe le parti.

Nel 2022, l’esercito ha preso l’iniziativa. Le due carte della transizione non sono più state redatte da gruppi che avrebbero dovuto rappresentare le forze vive della nazione, ma da persone scelte dagli artefici del colpo di stato, che non sono noti con precisione.

Queste bozze di carte non vengono negoziate tra i rappresentanti delle forze vive ma discusse in plenaria durante le assemblee nazionali, dove la bozza viene certamente discussa ma poco contestata nella sua interezza. E le persone presenti alla conferenza nazionale hanno avuto a malapena il tempo di riunirsi per entità e riflettere su di essa. La composizione dell’Assemblea legislativa di transizione è caratterizzata dalla preponderanza dei militari.

La bozza di statuto di ottobre stabiliva all’articolo 14 che le quote di ogni componente dovevano essere stabilite dal Presidente della Transizione, ma non forniva una cifra.

Le differenze tra il Consiglio Nazionale di Transizione del 2014 e le due assemblee legislative del 2022 sono notevoli. È da notare, tuttavia, che i rappresentanti dei partiti sono più numerosi dei rappresentanti delle CSO nella versione di ottobre, mentre nella versione di febbraio era vero il contrario. Ciò che è ovvio è che la maggioranza assoluta è assicurata con i soli voti dell’SDF e delle numerose personalità scelte dal Presidente.

Secondo le informazioni che ho potuto raccogliere da un leader di un’organizzazione ombrello di CSO, sebbene le assemblee per scegliere i delegati delle regioni siano state organizzate su iniziativa delle autorità amministrative, essi sono stati scelti tra le forze attive. La stampa non ha quasi mai riportato alcuna contestazione di queste scelte.

Al momento dell’adozione della Carta, Ibrahim Traoré sembrava essere stato eletto esclusivamente sulla base del suo desiderio di rilanciare la lotta all’insicurezza ripristinando l’ordine nell’esercito. L’esasperazione della popolazione è tale che il loro sostegno è simile a “tutto tranne che continuare con Damiba”, se non fosse che Ibrahim Traoré comandava un’unità con sede a Kaya e sembra essere più consapevole della realtà della guerra di quanto non lo fosse sul campo.

La vera domanda da porsi è se questa assemblea avrà effettivamente un potere. È difficile capire come possa intervenire in quello che è l’obiettivo principale di questa transizione, ovvero la riduzione dell’insicurezza, che richiede una riorganizzazione dell’esercito che verrà discussa solo all’interno delle forze armate.

“L’assemblea legislativa durante la transizione istituita dall’MPSR1 è stata la peggiore nella storia del Burkina indipendente. E se lo chiedi ai burkinabè, pochissimi sarebbero in grado di dare un resoconto del suo lavoro”, mi ha confidato un leader di un’importante CSO.

Ibrahim Traoré è il nuovo Sankara?

Un’affermazione che è stata sulla bocca di tutti fin dalle sue prime apparizioni, ma sempre in forma interrogativa. Era sufficiente che fosse un capitano, che indossasse un berretto rosso, che avesse più o meno la stessa età quando prese il potere e che concludesse i suoi discorsi con “la patria o la morte, vinceremo”, perché molti burkinabè, nostalgici del loro eroe, alla ricerca dell’uomo provvidenziale, vedessero in lui un nuovo leader nella tradizione di Thomas Sankara. E pochi giorni dopo, i termini utilizzati si riferiscono chiaramente a questo.

Ibrahim Traoré ha posto il suo discorso inaugurale sotto il segno della rivolta facendo riferimento a Thomas Sankara: “...come ci è stato inculcato dal nostro predecessore citato dal presidente ad interim del Consiglio Costituzionale, il capitano Thomas Sankara, ha detto così, abbiamo deciso in tutta coscienza davanti alla storia di assumere la nostra rivolta”.

Rivolta di fronte alle tante vittime della guerra contro l’incapacità del precedente regime di arginare il terrorismo; rivolta degli sfollati interni, dei soldati al fronte, del VDP, della popolazione delle località colpite e “di tutti i burkinabè consapevoli dell’abisso in cui si trovava la nazione”.

Egli elenca i suoi obiettivi come segue: “Vorrei ricordarvi i nostri obiettivi. I nostri obiettivi non sono altro che la riconquista del territorio nazionale occupato da queste orde terroristiche. I nostri obiettivi non sono altro che dare una nuova vita a tutti i connazionali afflitti da questo conflitto. Si tratta anche di prevedere uno sviluppo endogeno contando solo su noi stessi e cercando di ripensare profondamente la nostra agricoltura, il nostro allevamento, la nostra tecnologia e mettendo in discussione le basi delle nostre azioni, delle nostre ispirazioni alla prosperità“.

Quest’ultimo passaggio può essere visto come un riferimento alla Rivoluzione, ma l’espressione “sviluppo endogeno” era regolarmente utilizzata anche sotto il regime di Roch Marc Christian Kaboré.

All’epoca, dichiarò più volte di non essere interessato al potere, ma di voler fare la guerra.

In questo senso, i leader del Thomas Sankara Memorial hanno voluto organizzare la cerimonia di commemorazione dell’assassinio di Thomas Sankara e dei suoi compagni, il 15 ottobre 2022, all’insegna del “passaggio della fiaccola della Rivoluzione ai giovani”.

La conferenza nazionale fu abbreviata, probabilmente per permettere al giovane capitano Ibrahim Traoré, appena nominato Presidente della Transizione e Capo di Stato, di partecipare. Ha così potuto ricevere i trofei insieme ad altri dodici giovani, il suo in rappresentanza del “padre della Rivoluzione”.

Questo era un modo per suggerirgli di ispirarsi alle idee di Thomas Sankara. "Apprezziamo che, nonostante questo compito difficile e urgente, tu abbia accettato di presiedere questa cerimonia, che è la prima nell’esercizio delle tue alte funzioni. Questo dimostra, se fosse necessario dimostrarlo, l’importanza che attribuite al pensiero e ai valori incarnati dal nostro glorioso eroe nazionale, il Capitano Thomas Sankara”, ha detto Pierre Ouedraogo, ex segretario generale della CDR, nuovo presidente del Comitato per il Memoriale, nel suo discorso.

Altri oratori sono andati nella stessa direzione: “...Pensiamo che il nuovo presidente sarà in grado di attingere alla fonte della rivoluzione, di arare il campo che i suoi predecessori gli hanno lasciato per fare del Burkina un paese produttivo, un paese ricco, un paese d’amore”, ha detto Jean Hubert Bazié.

Mentre Me Bénéwené Sankara, ha voluto in sua presenza rendere omaggio a Thomas Sankara: “è il suo impegno personale nel suo patriottismo a poter portare avanti la sua lotta, la sua missione durante i 21 mesi, a immagine del Presidente Sankara”, ha detto Me Benewendé Stanislas Sankara, avvocato della famiglia Sankara. (vedi qui).

Ma il giovane capitano, indubbiamente prudente, a meno che non si tratti di modestia, ha evitato di rilasciare dichiarazioni durante la cerimonia.

Tuttavia, cercherà gradualmente di onorare ciò che ci si aspetta da lui.

Durante l’incontro con i segretari generali dei ministeri invitati a gestire gli affari correnti (vedi qui), ha dato loro una lezione: “Dobbiamo fare in tre mesi quello che si dovrebbe fare in dodici mesi... Dobbiamo darci un ritmo, dobbiamo andare veloci, dobbiamo rinunciare alla burocrazia". Ha anche annunciato la requisizione di pick-up per inviarli al fronte dove, secondo lui, saranno più utili.

Il suo discorso (vedi qui) dell’11 novembre ai rappresentanti dei partiti politici e delle CSO li ha colpiti per la sua franchezza senza compromessi. Ha dipinto un quadro catastrofico della situazione della sicurezza, soffermandosi a lungo sulle condizioni di vita della popolazione del nord, abbandonata per troppo tempo.

Evocando “la malizia dei burkinabè tra di loro”, accusa chiaramente i presenti, i leader dei vari partiti politici, di essere responsabili della situazione in cui è sprofondato il loro paese, della loro negligenza, della loro inazione. Le immagini mostrano i volti sconfortati della maggior parte di loro.

Questo discorso, che probabilmente voleva essere un elettroshock, ha lasciato il segno e ha portato a molti commenti. Un amico burkinabè vuole vederlo come un’accusa al regime di Blaise Compaoré, un altro è soddisfatto del discorso, ma pensa che dovrebbe essere seguito da azioni. “Sankara faceva questi discorsi”, mi dice uno dei suoi anziani.

La sensibilità del nuovo presidente verso le sofferenze dei burkinabè ricorda quella di Sankara verso la povertà negli anni ’80, che si riflette in alcuni dei suoi discorsi. Ma ci sono differenze importanti.

Thomas Sankara era conosciuto da molto tempo prima di prendere il potere, cosa che non è avvenuta con Ibrahim Traoré. Prima per le sue imprese militari durante la prima guerra con il Mali nel 1974, poi per la sua attività politica, le sue dimissioni pubbliche dalla carica di Segretario dell’Informazione durante il CMRPN, dichiarando “guai a chi imbavaglia il popolo”, le sue dichiarazioni rivoluzionarie dopo la nomina a Primo Ministro, il suo appello ai giovani che portò al suo arresto nel maggio 1983.

Un arresto che ha portato a manifestazioni giovanili. Tutte queste azioni lo hanno reso il leader noto e riconosciuto dei progressisti del paese. Da allora siamo venuti a conoscenza anche della sua grande cultura politica, che aveva pazientemente costruito fin dai suoi studi in Madagascar all’inizio degli anni ’70, nonché dei suoi continui contatti con i leader delle organizzazioni marxiste clandestine.

Sebbene Ibrahim Traoré e Thomas Sankara siano saliti al potere più o meno alla stessa età, i loro itinerari sono molto diversi. Ibrahim Traoré era praticamente sconosciuto tra i civili all’epoca del colpo di stato. Possiamo quindi comprendere la sua attuale modestia, che consideriamo una qualità apprezzabile. Infatti, avrebbe senza dubbio ricevuto una standing ovation se avesse formalmente affermato di essere il figlio di Thomas Sankara prendendo in prestito alcune delle sue note citazioni.

La nomina a sorpresa di uno dei migliori conoscitori della Rivoluzione come Primo Ministro

Apollinaire Kelyem de Tambela è stato nominato Primo Ministro il 21 ottobre e investito della carica il 26 ottobre. Attivista della CDR durante i suoi studi a Nizza, in Francia, dottore in legge, avvocato di professione, insegnante e ricercatore, è stato direttore e presidente del Centro di Ricerca Internazionale e Strategica.

Nell’ultimo periodo, è apparso regolarmente sul canale televisivo BF1 come opinionista. Descritto come un polemista per le sue notevoli esternazioni durante i dibattiti televisivi, dimostra comunque una certa forza di carattere, qualità indispensabile se si deve lavorare con soldati che hanno compiuto un colpo di stato.

Una volta nominato, Apollinaire Kyelem de Tambela ha svelato i tre obiettivi principali del suo governo: mettere in sicurezza il territorio, migliorare la qualità della vita dei burkinabè e migliorare il sistema di governance, simile a quello di Ibrahim Traoré.

Viene anche subito descritto come un “sankarista”. Ha pubblicato un libro molto ampio sulla rivoluzione, intitolato Thomas Sankara et la révolution au Burkina Faso, une expérience de développement autocentré fruit d’un énorme travail, di cui ha già pubblicato due ristampe.

Scrivemmo all’epoca: “Senza le difficoltà incontrate nella distribuzione, questo libro avrebbe tutte le carte in regola per diventare il riferimento sulla rivoluzione burkinabé... Ma soprattutto, e questo è uno dei maggiori interessi, oltre alla sintesi e alla ricchezza delle informazioni fornite, è l’erudizione dell’autore”.

Il libro è ricco di citazioni da un’ampia gamma di fonti, da Lenin a Rosa Luxembourg, passando per Cheikh Anta Diop e molti africanisti e filosofi di varie origini. In questo modo integra il suo lavoro e soprattutto questa rivoluzione nel movimento del pensiero umano e rende la rivoluzione burkinabé parte della storia. Un libro di grande importanza, denso, ricco e di ottima qualità. Rimanendo fuori dalla giostra politica, beneficia di un’importante cultura politica.

Apollinaire Kyelem de Tambela ha spiegato le sue motivazioni in una lunga intervista pubblicata sul sito thomassankara.net: “...Ho notato che molti parlavano di Thomas Sankara e del periodo rivoluzionario senza basi serie, senza logica, senza linee guida. Alcuni in buona fede, altri in cattiva fede.

Non si può capire e apprezzare davvero la politica di Thomas Sankara se non se ne comprende la filosofia, le basi, le motivazioni principali. A quel punto mi sono detto che era davvero opportuno proporre un documento di base per comprendere la rivoluzione burkinabé e contribuire a perpetuare la memoria di Thomas Sankara"
. Un libro ambizioso, e si sarebbe voluto che coloro a cui fa riferimento lo avessero letto con attenzione.

Non sembra essere cambiato molto. Nella sua prima intervista da Primo Ministro, ha dichiarato: “Ho già detto che il Burkina Faso non può svilupparsi al di fuori della linea tracciata da Thomas Sankara. Non è possibile perché siamo un paese sottosviluppato con poche risorse, quindi possiamo contare solo sulle nostre forze”, ha detto, aggiungendo: “Avete notato che stiamo temporeggiando da molto tempo? Perché i nostri prodotti, ciò che produciamo, non viene consumato e consumiamo ciò che viene da altrove. Questo è un chiaro riferimento a una delle parole chiave della Rivoluzione: Produciamo e consumiamo Burkinabé“.

Appare quindi come uno dei migliori conoscitori della Rivoluzione in Burkina. Thomas Sankara probabilmente lo ispira e, a differenza di molti altri che si definiscono “sankaristi”, sa di cosa parla quando si tratta della Rivoluzione, avendola studiata nel dettaglio.

L’altro importante pregio di questo Primo Ministro è proprio quello di non essere entrato nelle polemiche che hanno dilaniato i partiti sankaristi. Per questo motivo non è affetto dalla sfiducia che li ha portati al discredito. In un certo senso è come un uomo nuovo, senza passato politico, che ha assunto questo incarico. Questo è senza dubbio ciò che Ibrahim Traoré ha cercato scegliendo lui.

Prima di essere nominato, tuttavia, è stato un po’ troppo veloce a spiegare le sue ali in televisione. Ad esempio, ha accusato Basolma Bazié, ex segretario generale della potente CGTB, di “una certa immaturità psicologica e intellettuale”. Eppure Basolma Bazié è stata riconfermata e addirittura promossa a ministro di Stato! A dimostrazione del peso che questo ministro ha nel governo, quest’ultimo ha deciso di rimborsare, in via eccezionale, le trattenute per le azioni di sciopero effettuate, esclusivamente nel periodo dal 2016 al 2021.

In un altro esempio di commenti un po’ prematuri quando non era ancora stato nominato, Kyelem de Tambela ha dichiarato: “Ibrahim Traoré deve solo assumere il potere senza un primo ministro. Tutto ciò che deve fare è governare con un’ordinanza e in questo modo andrà tutto liscio!”

Ibrahim Traoré non ha seguito questa strada, sarebbe stato senza dubbio fortemente contestato, anche se una parte della popolazione non avrebbe trovato nulla di cui lamentarsi, e Kyelem de Tambela si è lasciato trasportare dal suo entusiasmo.

Ma non è tutto. Una volta nominato, fu più o meno rinnegato. Pur sostenendo che due ministri contestati sarebbero stati nominati comunque, alla fine sono stati sostituiti da altri.

Questi intoppi sono probabilmente dovuti alla sua mancanza di esperienza nel rimanere fuori dalla palude politica. Ma ha subito rettificato la situazione e ha già dimostrato di imparare in fretta, come dimostrano i recenti comunicati del dipartimento di comunicazione del suo ministero (vedi il capitolo sui partenariati in cui sono citati i comunicati emessi dopo l’incontro con l’NDI e l’ambasciatore francese).

Questa nomina a sorpresa può essere fonte di speranza, anche se tutto è ancora da fare in una situazione particolarmente fragile in cui numerose insidie ostacoleranno il duo che formerà con Ibrahim Traoré. Questo duo dovrà essere solido di fronte alla gravità della situazione.

Il suo discorso di politica generale pronunciato il 19 novembre davanti all’assemblea legislativa della Transizione aiuterà forse a dimenticare il suo inizio un po’ imbarazzante. Senza dilungarsi, ha esordito confermando i tre obiettivi sopra citati, affinando i termini utilizzati: il ripristino dell’integrità territoriale del Paese e la messa in sicurezza di persone e beni (I), il benessere dei Burkinabè (II) e la rifondazione della società attraverso una governance virtuosa e visionaria (III). Il suo discorso è intervallato da riferimenti storici che illustrano la ricerca della creatività necessaria nel percorso di sviluppo.

Ha poi illustrato una serie di progetti in linea con quanto messo in atto da Thomas Sankara. L’economia dovrebbe essere costruita sulla produzione agricola e soprattutto sulla sua trasformazione e sul suo consumo nel paese, citando il noto motto dell’epoca: “Produciamo e consumiamo Burkina Faso”.

Ha persino ripreso, quasi parola per parola, le parole di Thomas Sankara al vertice dell’OUA del luglio 1987, sfoggiando il suo abito Faso Dan Fani (realizzato con cotone locale): “Non un filo è venuto dall’estero”. Non sono venuto per una sfilata di moda.

Ha inoltre annunciato particolari sforzi nel campo dell’istruzione, che deve formare uomini che rispondano al bisogno di personale qualificato per questa economia endogena, per la riappropriazione della cultura per contrastare la perdita di punti di riferimento dei giovani, per sviluppare la rete stradale, e la sanità, al fine di soddisfare le esigenze della popolazione e promette una lotta spietata alla corruzione.

Tuttavia, compaiono alcune novità, come lo sviluppo del consumo di latte e della produzione di formaggio, la menzione della digitalizzazione del catasto e uno studio sulla possibilità di fissare un prezzo massimo per gli appezzamenti abitativi in un momento in cui la speculazione fondiaria sta raggiungendo nuove vette.

Tra le nuove proposte: “Per una migliore gestione della società, i cittadini saranno chiamati a istituire comitati locali di monitoraggio e sviluppo (LDC) che consentiranno loro di prendere in mano il proprio destino a livello di base”.

Questo è uno dei ruoli chiave assegnati ai CDR (Comitati per la Difesa della Rivoluzione) che, contrariamente a quanto si crede, non erano solo responsabili della repressione, ma anche della mobilitazione per lo sviluppo attraverso numerosi progetti nei quartieri o a livello nazionale, oltre a incoraggiare il consumo di prodotti locali.

Va ricordato che i CDR sono stati creati molto rapidamente e con entusiasmo, dopo il 4 agosto 1983, nei quartieri, in particolare sotto la spinta di militanti di organizzazioni rivoluzionarie clandestine.

Il discorso è stato approvato dai deputati della Transizione con 64 voti favorevoli, 4 contrari e un’astensione!

Si tratta certamente di “attaccare vigorosamente la corruzione”, una promessa annunciata ad ogni cambio di governo, senza menzionare la parola “impunità” all’origine di questo malgoverno che ha fatto così tanto male a questo paese. Non è mai stato aperto alcun processo contro i dignitari del regime di Blaise Compaoré, né contro quelli del regime di Roch Marc Christian Kaboré, che i burkinabé spesso riconoscono essere caratterizzato da un aumento della corruzione.

Tuttavia, si tratta di una fonte di entrate che dovrebbe essere utilizzata con vigore, dato che il paese deve inventare un’economia di guerra. Ricordiamo che lo svolgimento di questi processi davanti ai TPR (Tribunali del Popolo della Rivoluzione) ha avuto un forte ruolo dissuasivo oltre che educativo.

Il Primo Ministro non si è soffermato sulle fonti di finanziamento o sul calcolo delle spese. Le eccezioni sono un piano di sostegno alla campagna agricola adottato il 9 novembre e un progetto di sicurezza alimentare, la cui componente a breve termine è destinata agli sfollati interni. Normalmente il dibattito e il voto sul bilancio dovrebbero svolgersi abbastanza rapidamente in assemblea.

Il Primo Ministro vuole iniziare a lavorare su una nuova costituzione. Perché no? Il problema è che la costituzione è stata redatta durante la transizione del 2014, dopo un lavoro colossale e una grande consultazione tra le forze attive. Non dovremmo prima guardarlo? Il governo di Roch Marc Christian l’ha superbamente ignorata. Questo nuovo governo dovrebbe davvero fare lo stesso?

Priorità alla sicurezza del territorio

Come abbiamo visto, sia per il Presidente della Transizione che per il Primo Ministro, la priorità deve essere la sicurezza del territorio. Ci sono ancora molti attacchi in gran parte del paese. E gli HANI (uomini armati non identificati) stanno diventando sempre più spericolati.

Il quotidiano L’Observateur ha riferito che un gruppo ha attaccato il presidio della gendarmeria a Houndé, una città sulla strada Bobo Dioulasso Ouagadougou. Si tratta di una novità assoluta sulla strada più trafficata del paese, che collega le due città più grandi.

Durante la sua prima intervista a Radio Omega il 23 ottobre, il Primo Ministro ha dichiarato: “Il Presidente è un militare, è un uomo di campo, mi ha fatto capire che ciò che lo preoccupa di più è la sicurezza del territorio e il ritorno degli sfollati nei loro luoghi di origine e che se ne occuperà. Quindi penso che il Presidente si occuperà principalmente dell’aspetto della sicurezza e io mi occuperò dell’aspetto civile, cioè della governance del territorio".

Secondo i ruoli che hanno condiviso, il capitano Ibrahim Traoré si impegna a rendere operativo l’esercito. Questo governo sarà essenzialmente giudicato, e piuttosto rapidamente, in base all’inversione di tendenza nella lotta al terrorismo. Questa è la priorità del Burkinabè. Difficilmente rilascerà una vera e propria dichiarazione su un possibile progetto politico, ad eccezione di ciò che abbiamo menzionato sopra.

Numerosi annunci mostrano un’attenzione particolare e un cambiamento di velocità e organizzazione rispetto al governo precedente, comprese le nuove nomine nell’esercito. Il 24 e 25 ottobre è stato annunciato il reclutamento di 50.000 VDP (Volontari per la Difesa della Patria). Ne parleremo più avanti.

Il 14 novembre un decreto presidenziale ha annunciato la nomina di nuovi comandanti nelle regioni militari. Un altro decreto annuncia la nomina di 18 nuovi capi di corpo. Il 15 novembre, un altro decreto ha annunciato la creazione di sei battaglioni di intervento rapido i cui comandanti sono stati posti sotto la diretta autorità del Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Ce n’erano solo due, create nell’agosto del 2022, che sono state sciolte nello stesso momento.

Dopo la nomina del governo il 26 ottobre, in un’intervista rilasciata alla radio e alla televisione burkinabé il 30 ottobre, Kyelem de Tambela ha dichiarato in merito agli armamenti: “Posso dire che abbiamo fatto acquisizioni abbastanza solide e abbastanza consistenti e questo continua".

Inoltre, il Capo dello Stato è presente in questo file. Puoi essere rassicurato sul fatto che questo continuerà. Si spera che l’esercito sia finalmente riuscito a ottenere, probabilmente durante l’MPSR1, mezzi di spostamento rapido, veicoli terrestri veloci, elicotteri e forse aerei, o che si stia preparando a riceverli, ma su questo punto non comunica una cifra.

Reclutamento di 50.000 volontari per la difesa della patria

Sotto il governo di Roch Marc Christian Kaboré, Ministro della Sicurezza, Ousseini Compaoré, ex comandante della gendarmeria durante la Rivoluzione, creò il VDP (Volontari per la Difesa della Patria). Dopo un corso di formazione di 15 giorni, venivano arruolati in gruppi armati sotto l’autorità dell’esercito e ricevevano una modesta retribuzione.

Il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba ha creato la Brigade de veille et de défense patriotique (BVDP), sotto l’autorità di un comandante dell’esercito, per migliorare l’organizzazione e l’assistenza. I rapporti regolari sulle vittime nei combattimenti con gli HANI (uomini armati non identificati) dimostrano che questi volontari sono pienamente impegnati nella guerra e stanno pagando un prezzo pesante.

Il nuovo governo sembra voler andare oltre, annunciando il reclutamento di 50.000 VDP (Volontari per la Difesa della Patria): 15.000 che possono essere dislocati in tutto il paese e che sono destinati ad entrare nell’esercito, e 35.000 volontari comunali, cioè 100 per comune, la cui missione è “proteggere la popolazione e i beni dei loro comuni di origine a fianco delle Forze di Difesa e Sicurezza”. Una dichiarazione che sarà seguita da una grande campagna di arruolamento della popolazione.

Così il Primo Ministro ha lanciato in televisione un appello all’arruolamento “Siamo convinti che spetti a noi difendere il nostro Paese”, rivolgendosi in termini velati a chi continua a chiedere l’intervento di truppe straniere e aggiungendo “Il miglior sostegno per il capitano Traoré e per il regime è andare al fronte... se non puoi andare al fronte, puoi dare il tuo contributo attraverso un contributo finanziario, o in questo o in quello, o in attrezzature, o per aiutare le vittime del terrorismo piuttosto che passare il tempo a camminare”.

Un riferimento alle manifestazioni tenutesi a Ouagadougou e Bobo, che chiedevano la partenza delle truppe francesi e si appellavano alla Russia, rifiutando anche la nomina di 5 ministri già presenti nel governo sotto il MPSR1.

In un’altra occasione, in un’intervista alla televisione nazionale, Kyelem de Tambela ha attaccato le CSO “che vengono da noi a chiedere finanziamenti per sostenere il regime” aggiungendo: “Non ci sono mezzi per finanziare le CSO vuvuzela (...)”. Una nuova rottura con il governo precedente. Abbiamo già sottolineato la nostra sorpresa per la moltiplicazione delle CSO durante la MPSR1. La realtà di questa rottura diventerà presto chiara.

Mentre un rapporto parlava di difficoltà nel trovare volontari a Dori, i risultati ufficiali della campagna di reclutamento annunciavano che si erano registrati 90.000 volontari e che non tutti sarebbero stati accettati. Alcuni personaggi pubblici, di cui non faremo i nomi, hanno utilizzato questo mezzo di comunicazione per la loro immagine. Tuttavia, fino ad ora, le regole prevedevano che dovessero avere meno di 50 anni, il che sembra piuttosto logico, ma non è così.

Se questa campagna di reclutamento era ambiziosa, la supervisione di 50.000 nuovi combattenti sarà una sfida, soprattutto perché il comandante della Brigade de Veille et de Défense ha promesso un miglioramento dell’addestramento (inizialmente previsto per 15 giorni) e un aumento degli emolumenti del VDP.

Partenariati basati sugli interessi del Burkina

Dopo un viaggio di Ibrahim Traoré in Mali durante il quale ha incontrato il capo della giunta, il colonnello Assimi Goita, un’importante delegazione dell’esercito maliano composta dal Ministro della Difesa, dal Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate e da diversi ufficiali è venuta in Burkina per una sessione di lavoro in cui hanno fatto il punto sul loro partenariato.

“Abbiamo ricevuto istruzioni dai nostri capi di Stato di lavorare insieme, di unire non solo i nostri sforzi ma anche le nostre risorse per affrontare il nostro nemico comune e per il benessere del nostro popolo”, ha dichiarato il ministro della Difesa maliano, il colonnello Sadio Camara.

Le dichiarazioni rimangono per il momento piuttosto vaghe sull’evoluzione delle partnership nella guerra. Si ricorda piuttosto che le autorità vogliono partenariati la cui priorità resti l’interesse del Burkina. L’appello alla Russia, sostenuto da alcune CSO, per il momento non sembra aver avuto seguito. I suoi appelli sembrano diminuire in modo significativo.

Ed è in un dispaccio della Reuters che apprendiamo la posizione del Burkina sulla Russia e su Wagner. Secondo quanto riportato da Reuters il 26 ottobre, Victoria Nuland, sottosegretario statunitense per gli affari politici, ha dichiarato dopo un tour nella regione: “Abbiamo avuto la possibilità di sederci con il Presidente ad interim Traoré e il suo team di leadership, compreso il suo ministro della difesa. È stato inequivocabile nel dire che solo i burkinabè difenderanno il loro paese. Non hanno intenzione di invitare Wagner”.

Per quanto riguarda l’ECOWAS, sembra che le sanzioni non siano più in discussione. Una delegazione della commissione guidata dal Commissario per gli Affari Politici, la Pace e la Sicurezza, Abdel-Fatau Musah, ha incontrato il Primo Ministro l’11 novembre.

“Ha sostenuto che non si può parlare di ritorno all’ordine costituzionale in un paese che è sotto il controllo dei terroristi e ha problemi umanitari. È quindi per aiutare il nostro paese a porre fine alle crisi umanitarie e di sicurezza che la delegazione dell’ECOWAS si trova lì“, si legge nella dichiarazione ufficiale.

E il commissario ha dichiarato: “Oggi c’è una nuova amministrazione alla guida dell’ECOWAS. Stiamo riflettendo sul ruolo stesso di questa Organizzazione, per consentirle di assistere i paesi membri su questioni come il terrorismo e le crisi umanitarie”.

Ha anche aggiunto che si tratta di vedere come la Commissione possa mobilitare una forza per venire in aiuto del Burkina Faso, insieme all’Unione Africana e alle Nazioni Unite. Cambiamento di atteggiamento da parte dell’ECOWAS? Il futuro dovrebbe confermarlo.

Da parte sua, l’Unione Europea ha annunciato l’11 novembre tramite il suo Commissario per la gestione delle crisi, Janez Lenarčič, in visita a Ouagadougou, “di voler lanciare un’operazione nel quadro del ponte aereo umanitario dell’UE per rendere disponibili fino a 800 tonnellate di beni di prima necessità nell’arco di 3 mesi”.

Il 29 novembre si è tenuto un incontro tra il Primo Ministro e l’Ambasciatore francese Luc Hallade. Secondo quanto riportato dal sito web lefaso.net, l’incontro si è svolto all’insegna della franchezza. Luc Hallade ha parlato alla fine dell’incontro, qui la sua dichiarazione

Ha espresso la franchezza del Primo Ministro, lamentando lui stesso che la sua ambasciata ha ricevuto pietre per quasi 3 ore. Dice di voler continuare a collaborare con il Burkina. Tuttavia, è apparso piuttosto umiliato dalle decisioni che il governo avrebbe preso, annunciando che nel corso della giornata si sarebbe tenuto un incontro tra il Ministro della Difesa e il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate per rivedere la cooperazione militare. Sebbene voglia continuare a collaborare con la Francia, al momento in cui scriviamo non c’è stato alcun annuncio ufficiale da parte del governo.

Il Primo Ministro si è prontamente espresso attraverso un comunicato del suo servizio stampa, chiaramente un modo per rivolgersi al suo popolo, per dare conto della sua attività... e per rivelare le sue posizioni.

Apprendiamo che il Primo Ministro si è lamentato della differenza di sollecitudine rispetto all’atteggiamento della Francia nei confronti dell’Ucraina, poi leggiamo: “Per il Primo Ministro, questo atteggiamento della Francia mette in discussione la franchezza delle relazioni di amicizia e cooperazione che legano i nostri due Paesi".

Apollinaire Joachimson Kyelem de Tambela è stato molto chiaro: “I burkinabè sono alla ricerca di un’ancora di salvezza per il loro paese; e se questa ancora di salvezza deve venire da un altro paese che non sia la Francia, perché no?" Si tratta di un linguaggio molto lontano da quello dell’epoca. Potrebbe sembrare una minaccia dal punto di vista della Francia?

Poi, “Il capo del governo ha anche sottolineato che gli sforzi dei partner devono concentrarsi sulle profonde aspirazioni del popolo burkinabé, un popolo impegnato a difendersi per la libertà, contro la barbarie e il terrorismo”. Questa è la giustificazione per il lancio dell’operazione di reclutamento di 50.000 Volontari per la Difesa della Patria (VDP), ha spiegato.

Su quest’ultimo punto, l’ambasciatore ha indicato che "la Francia potrebbe aiutare la resistenza popolare fornendo armi e munizioni e anche tenendo conto del sostegno finanziario dei coraggiosi combattenti”. E ancora: “Per quanto riguarda la partenza o il mantenimento delle forze speciali francesi, l’ambasciatore ha indicato che tutte le opzioni sono sul tavolo". Luc Hallade ha menzionato la possibilità di organizzare missioni congiunte tra le forze francesi e quelle burkinabé sotto il comando di un ufficiale burkinabé.

Questo sembra un vero e proprio cambiamento nella natura della relazione. Il Burkina ha espresso le sue esigenze, anche con minacce, e la Francia, attraverso il suo ambasciatore, si è dichiarata pronta a rispondere alle richieste. Senza dubbio per paura di perdere qualsiasi presenza significativa nel paese.

Stesso atteggiamento dopo un incontro con l’NDI (National Democratic Institute)[i]? Il comunicato è stato diffuso dai suoi servizi di comunicazione. Se cita alcune azioni di questa organizzazione, in particolare nella direzione delle associazioni femminili, riporta il seguente resoconto del pensiero del Primo Ministro: “Non siamo più in sintonia con questo tipo di trasferimento di cultura, tradizione e pratiche estranee alla nostra società. Questa visione occidentale della democrazia che state implementando nel nostro Paese non è in linea con le aspirazioni della nostra gente, e questo spiega la ricorrente instabilità dei nostri Stati”, ha spiegato.

Infatti, il signor Apollinaire Joachimson Kyelem de Tambela ritiene che il popolo non si riconosca in questo tipo di politica, al punto da perdere interesse o addirittura sfidare le istituzioni risultanti da questo sistema di trasposizione e imposizione di valori stranieri.

Mentre nel comunicato sopra riportato si legge che “NDI esprime alle autorità la propria fiducia nel futuro”, gli Stati Uniti hanno deciso di escludere il Burkina dall’AGOA, l’accordo commerciale tra gli Stati Uniti e l’Africa che consente ai paesi del continente di esportare nel mercato statunitense senza dazi. "Ho preso questa decisione perché ho stabilito che il governo del Burkina Faso non ha stabilito, o non ha fatto continui progressi verso l’instaurazione del rispetto dello stato di diritto e del pluralismo politico”, elementi necessari del programma African Growth Opportunities Act (Agoa), ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in una lettera al Congresso americano.

Gli Stati Uniti non si preoccupano dello stato d’animo, una posizione che sembra piuttosto dogmatica e lontana dalla realtà di questo paese.

E per quanto riguarda le questioni militari e il rapporto tra l’esercito francese e quello burkinabé?

Il 18 novembre si è svolta una nuova manifestazione per chiedere la partenza dei militari francesi, che ha dato luogo a nuovi incidenti nei pressi dell’ambasciata francese e della caserma Kamboinsé dove si trovano i soldati francesi del comando delle operazioni speciali.

I manifestanti hanno nuovamente attaccato con violenza l’ambasciata, lanciando grosse pietre. Alla fine sono stati sloggiati dalla gendarmeria. Questa volta è stata l’Unione Europea a rilasciare una dichiarazione di protesta che “deplora la mancanza di una reazione adeguata da parte delle forze di sicurezza”.

La questione del mantenimento della presenza francese rimane all’ordine del giorno. Per il momento, le autorità non hanno preso posizione, ripetendo in generale il contenuto delle loro dichiarazioni generali secondo le quali solo gli interessi del Burkina Faso saranno presi in considerazione nelle relazioni con i loro partner.

Ma il Primo Ministro è tornato a lungo sull’argomento durante il suo discorso di politica generale. Ha dichiarato: “Pensiamo, forse a torto, che alcuni partner non siano sempre stati leali. Come possiamo concepire che il terrorismo affligge il nostro paese dal 2015, nell’indifferenza, se non con la complicità di alcuni dei nostri cosiddetti partner?

Dove prendono le armi, le munizioni, il carburante e il denaro che hanno in abbondanza? Come possono i paesi che hanno il controllo dello spazio, con moderni mezzi di rilevamento, non fornirci, se sono nostri veri amici, le informazioni necessarie sulle azioni e i movimenti di questi terroristi?

È qui che sorge la domanda. Non siamo stati troppo ingenui nelle relazioni con i nostri partner fino ad ora? Senza dubbio. È necessaria una riflessione. Cercheremo, per quanto possibile, di diversificare le nostre relazioni di partenariato fino a trovare la formula giusta per gli interessi del Burkina Faso.

Ma non si tratta di lasciarsi dominare da un partner, chiunque esso sia. Nella lotta al terrorismo, spetta ai burkinabé, e solo a loro, difendere il proprio paese in pericolo. Con, ovviamente, il benevolo supporto di tutti coloro che vorranno accompagnarci.”


Naturalmente il Primo Ministro non cita la Francia per nome, ma è difficile pensare che un paese diverso dalla Francia sia il più coinvolto, anche se gli Stati Uniti e diversi paesi europei dovrebbero fornire il loro sostegno. Si tratta davvero di un cambiamento di discorso.

Il registro delle domande e delle risposte che sono seguite non sembra essere reperibile su internet, ma un quotidiano digitale, minute.bf, riporta la sua risposta a una domanda sulla cooperazione con la Francia.

Ha risposto: “[I soldati francesi] sono lì in base a un accordo tra lo Stato burkinabé e lo Stato francese. È nella lotta contro l’insicurezza nel Sahel ... che loro (i soldati francesi) dovevano portarci aiuto ... Intervengono su richiesta delle autorità burkinabé ... Ultimamente, le autorità burkinabé non hanno bisogno di loro e preferiscono continuare la lotta con i propri mezzi per salvaguardare la nostra sovranità“.

Queste domande sono simili a quelle che abbiamo sollevato alla fine del nostro precedente articolo. Abbiamo citato un articolo di Africa Intelligence del 12 ottobre 2022 in cui si chiedeva alla Francia di fornire attrezzature di seconda mano, cosa che non era mai stata fatta prima, e di fare pressione affinché il Burkina Faso potesse beneficiare del Fondo Europeo per la Pace (EPF). Questo strumento finanziario, istituito da Bruxelles nel 2021, consente all’UE di fornire agli eserciti stranieri attrezzature letali. Ci siamo chiesti in particolare perché così tardi...

Una nuova informazione non fa che rafforzare queste domande. Un articolo pubblicato sul sito web delle operazioni esterne della Francia ci informa il 16 novembre che “l’aeronautica nigeriana ha ricevuto altri due elicotteri d’attacco Gazelle, portando a cinque il numero di velivoli di questo tipo donati dalla Francia”.

E poco più avanti che “tre Gazzelle sono stati regalati da Parigi nel 2013, portando a cinque il numero di elicotteri di questo tipo... con cannoni da 20 mm [Giat M621] e un lotto di pezzi di ricambio”. Lo stesso articolo ricorda che nell’ottobre 2021 la Francia ha consegnato 28 veicoli e 71 mitragliatrici pesanti. Questo sito consente di effettuare una ricerca per paese.

Tornando al 2013, non c’è traccia di forniture di armi al Burkina Faso, ma solo un inventario di tutti gli interventi francesi nel paese. Se dobbiamo credere all’inventario delle azioni francesi su questo sito, non ci sarebbe stato nulla in termini di donazioni di attrezzature dal 2013... Perché così tardi...

C’è qualche speranza?

Non c’è più tempo da perdere. La situazione è drammatica e richiede decisioni rapide, chiare e pertinenti.

Le nuove autorità, in particolare il duo Ibrahim Traoré e Kyelem de Tambela, hanno impostato la transizione senza troppe difficoltà, in modo abbastanza direttivo. Ma la maggioranza dei burkinabé non glielo rinfaccerà. Vogliono risultati e li vogliono in fretta.

Il duo alla guida del paese sa di non avere molto tempo per dimostrare il proprio valore. Sembrano essere abbastanza complementari, con i compiti assegnati l’uno all’altro chiaramente definiti.

Nonostante alcuni errori iniziali, con conseguenze trascurabili, danno l’impressione di voler fare del loro meglio e affermano una certa integrità e impegno patriottico. Per quanto riguarda la guerra, l’esercito si trasformerà, con una gerarchia rinnovata e reclutamenti molto importanti. Mai negli anni passati il governo aveva reclutato così tanti soldati e VDP! Ma il compito di integrarli sembra immenso.

Il duo ha scelto di fare a meno dei partiti politici. Poche voci nel paese sembrano trovare da ridire su questo. Anche i partiti politici, le cui attività sono state sospese, non sembrano essere offesi per il momento.

Per quanto riguarda i rapporti con i partner, probabilmente è arrivato il momento di mettere le cose in chiaro. Il Burkina riafferma questi principi e la sua sovranità.

Resta il fatto che questo governo ha anche il compito di rifondare il paese prima di mettere in atto un buon governo. Considerato il periodo passato, questo obiettivo rimane importante. Da questo punto di vista, le dichiarazioni appaiono un po’ timide. Tuttavia, questa è un’importante aspettativa della popolazione, che attende decisioni tangibili dall’insurrezione del 2014.

L’impunità rimane uno dei principali ostacoli allo sviluppo e, naturalmente, alla necessaria fiducia della popolazione per impegnarsi davvero a difendere il proprio paese e ricostruirlo... Come si erano impegnati durante la Rivoluzione, a volte, è vero, non senza costrizioni. Ma tutti i burkinabè sono ora orgogliosi di questo.

Finora non si è parlato ufficialmente di giustizia. Il Burkina ha un grosso problema con il suo sistema giudiziario. È vero che il sistema giudiziario ha mostrato il suo lato migliore con il successo del processo Sankara. Tuttavia, quasi nessuno dei dignitari del regime di Blaise Compaoré, né di quello di Rock Marc Christian Kaboré, è stato perseguito. Molte fortune sono state fatte rapidamente e apertamente.

Luc Marius Ibriga, un’eminente figura della società civile, a capo dell’ASCE LC (Autorità Superiore per il Controllo dello Stato e la Lotta alla Corruzione), dichiarava ogni anno che i fascicoli di un certo numero di persone erano nelle mani del sistema giudiziario e si stupiva che non ci fosse alcun seguito.

È illusorio parlare di buon governo se la giustizia non fa il suo lavoro e se l’impunità continua a persistere. Inoltre, non si tratta solo di appropriazioni indebite o di altre malversazioni per cui il sistema giudiziario non fa il suo lavoro: ci sono anche molti crimini, per non parlare dei casi di tortura che non sono stati giudicati.

Abbiamo già parlato del dramma di Inata in questo blog. Cinquanta gendarmi sono stati attaccati da HANI e altri rapiti. Erano rimasti senza cibo per quasi due settimane. È stato commissionato un rapporto su questo massacro. Una prima versione fu consegnata al Presidente Roch Kaboré che la rifiutò.

Un altro è stato riscritto nel frattempo. Sembra che non se ne sia più parlato dopo il colpo di stato, mentre il paese è in attesa. La pubblicazione, o almeno l’annuncio di responsabilità, sarebbe la prova che anche all’interno dell’esercito le cose sono cambiate. Si potrebbe citare il massacro di Yirgou nel gennaio 2019, dove molti Peuhls sono stati massacrati. Da allora è in corso un’indagine, ma non ci sono state molte notizie...

Senza gesti forti per dire la verità su questi massacri, sarà difficile costruire la fiducia. La grande sfida che questo governo deve affrontare è quella di mobilitare la popolazione.

Mettere fine al mito del ritorno di Sankara

Il minimo segno di somiglianza porta immediatamente il Burkinabé a evocare Sankara! Il periodo non è più lo stesso, la rivoluzione non è all’ordine del giorno perché il paese è in guerra. E Thomas Sankara è per molti versi un uomo eccezionale. Annunciare progetti ispirati a Thomas Sankara è una cosa.

Ma Thomas Sankara è anche un metodo... la cui parte essenziale sta nella pedagogia che usava per dare fiducia al suo popolo. Senza la sua mobilitazione non si sarebbe potuto ottenere molto. Speriamo che il periodo attuale permetta a coloro che si dichiarano seguaci di Thomas Sankara, praticamente l’intero paese attualmente, di comprendere meglio ciò che ha fatto la ricchezza della Rivoluzione e i suoi successi.

Un progetto, per quanto bello, è un guscio vuoto se non si sa come realizzarlo. La garanzia di successo è la fiducia del popolo nei propri leader. E viceversa, la fiducia dei leader nei confronti dei loro collaboratori. Dovremo tornare su questo argomento più a lungo.

Fonte