Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
18/10/2024
Maramaldo ed Enrico Toti. A Gaza
Questo significa che i giudizi qui espressi prescindono in larghissima parte dalle identità, e quindi da ogni possibile “immedesimazione”, con i vari protagonisti. In ogni tempo, in ogni luogo, in ogni guerra, senza neanche guardare alle idee e agli interessi dei diversi combattenti, gli atti concreti possono essere valutati con l’oggettività di un entomologo.
Del resto, com’è noto, siamo comunisti ed atei, e dunque non dividiamo gli esseri umani in base al loro credo religioso o alle tradizioni culturali (che hanno certo una grande importanza sul piano più strettamente “politico contingente”), ma in base ai loro atti.
Detto questo, passiamo ad esaminare i fatti.
L’esercito di Israele (Idf) ha detto fin dal primo momento di essersi reso conto dell’identità di Sinwar solo successivamente alla sua uccisione. Dunque per l’Idf quello era un palestinese qualsiasi, uno delle centinaia di migliaia quotidianamente bombardati.
Vero è che, nella ricostruzione ex post comunicata ai media, si narra che alcuni soldati avrebbero visto da lontano tre uomini armati entrare in una palazzina. Quindi hanno chiesto un attacco missilistico contro quell’obiettivo e anche dopo il bombardamento si sono ben guardati dall’avvicinarsi alle macerie, ma hanno inviato un drone dotato di telecamera per verificare se era rimasto qualcuno vivo.
E questo è il video.
Il drone entra in un appartamento devastato, dalle pareti sfondate, e individua una figura umana seduta di spalle, su una poltrona (lo “scontornamento” viene fatto in un secondo momento, dalla “post-produzione” dell’Idf).
Il volto è parzialmente coperto, l’uomo non si muove, è già ferito. Il drone si blocca in aria, continua a fissarlo finché l’uomo fa l’unico gesto che è ancora in grado di fare: tira un bastone all’indietro, come un “vaffa” d’addio, in direzione del drone.
Che a quel punto, si immagina (hanno tagliato i momenti successivi), spara una granata.
Il resto non si vede. I soldati presumibilmente entrano nella palazzina dove sono certi non ci sia più nessuno in vita. Individuano il corpo dell’anziano che aveva osato tanto (Sinwar aveva 62 anni, e certo non passati tra gli agi e i salotti – ben 22 nelle prigioni israeliane).
Ha il cranio sfondato, ma da ciò che resta qualcuno crede di riconoscere il “ricercato numero 1” di Israele, Yahya Sinwar. Parte il tam tam, i festeggiamenti in spiaggia, i brindisi.
Noi, sulla base delle leggi della guerra e della comunicazione, notiamo alcune cose che ci sembrano rilevanti.
La più semplice. Se è vero – e dovrebbe esserlo – che l’esercito non sapeva di avere davanti Sinwar, allora diventa esplicito che quel “trattamento” (bombardare un ferito che agita un bastone) è comunemente riservato a tutti i palestinesi, indipendentemente dall’eventuale appartenenza ad un’organizzazione combattente.
Poteva benissimo essere un anziano proprietario dell’appartamento, non proprio felice di vederlo – e vedersi – ridotto in quelle condizioni.
In secondo luogo. Ci aspettavamo che almeno i media italiani si accorgessero della “potenza comunicativa” di quel gesto estremo – scagliare un inoffensivo bastone contro una macchina da guerra – se non altro perché siamo tutti eredi di una cultura che giustamente ricorda lo “spirito indomito” di Enrico Toti.
In terzo luogo. Sempre restando ben dentro la comune cultura italiana, ed anche alle leggi della guerra, ci saremmo attesi che qualche notista politico – magari appena al di sopra dei bru-bru di Rete4 o dei fogliacci di destra – riconoscesse nel drone e nell’esercito israeliano la figura indecente di Maramaldo, consegnato alla storia per sempre, e con il marchio di infamia, inseguito dalle ultime parole del moribondo Francesco Ferrucci: “Vile, tu uccidi un uomo morto”.
Silenzio assoluto, invece. Segno che Maramaldo oggi lavora nelle redazioni...
Infine. Non c’è bisogno di essere dei colti cinefili per riconoscere in quel video la logica di Terminator. La macchina che uccide gli uomini, con la stessa “emozione” con cui spegne o accende la luce.
E quindi è facile capire che, davanti a quella scena, i comuni mortali si possono identificare soltanto con l’unico essere umano presente. Non certo con la macchina che vola, filma e spara.
E non stiamo parlando soltanto dei palestinesi, che da oggi in poi, per generazioni e generazioni, inseriranno Sinwar nell’affollatissimo pantheon dei combattenti per la sopravvivenza e la libertà del loro popolo. Stiamo parlando dell’umanità “normale”, quella che reagisce ad ogni disastro porgendo la mano al proprio simile e comunque al “vivente”, non certo a Terminator.
Certo, ce ne sono tanti che hanno brindato vedendo il video, magari mentre continuavano a fare il bagno o sulla spiaggia. Ma, per l’appunto, non bastano due gambe e due braccia per fare un essere umano.
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07/09/2024
Israele, ultima frontiera del colonialismo occidentale
Foto e video che non si vergognano affatto di pubblicare su Instagram o Tik Tok. Non so se assumano cocaina o altri stupefacenti, ma è certo che c’è, in tantissimi militari delle forze di occupazione israeliane, un forte elemento di sadismo, di cattiveria gratuita e non capisco se hanno quelle facce perché sono incoscienti, oppure, invasati. Forse, tutt’e due le cose.
Di certo, nell’ideologia sionista – con cui sono stati pesantemente indottrinati sin da piccini – c’è una fortissima componente di razzismo che li induce a trattare i poveri inermi civili palestinesi come cose, oggetti, sub-umani. Ma poi mi ricordo che, in fin dei conti, anche tutti i colonialismi del passato erano basati sulla de-umanizzazione dei popoli colonizzati e sulla violenza come elemento centrale, strutturale, del dominio dei colonizzatori sui colonizzati.
“Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’” aveva detto, non molto tempo fa, Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo Netanyahu, intervenendo a Parigi a una cerimonia commemorativa per Jacques Kupfer, un esponente della destra israeliana. Il popolo palestinese, aveva spiegato, “è una finzione elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista”.
Ma la teoria di Smotrich sulla «non esistenza» dei Palestinesi e del popolo palestinese non è certo una novità. Si tratta di una vecchia invenzione dai primi sionisti giunti dall’Europa in terra di Palestina. Il Sionismo dei primi decenni si basava proprio sulla negazione dei nativi palestinesi. Il nocciolo primordiale di questa narrazione era che gli ebrei, grazie ai sionisti, «tornavano dopo duemila anni di esilio nella loro terra». E i palestinesi? Una “creazione a tavolino” per ostacolare il ritorno alla “terra promessa” secondo i dettami della Torah. Non ci sono palestinesi ma soltanto terroristi arabi, veri o potenziali. Ecco perché uccidono, di proposito, i bambini. Lo fanno i cecchini dell’IDF mirando alla loro testa come hanno testimoniato i medici dell’ospedale pubblico Europeo di Gaza che hanno lavorato come volontari a Gaza per la popolazione.
Correva l’anno 1969 e la “laburista” Golda Meir, icona indiscussa del movimento sionista in una intervista al The Sunday Times dichiarò che «Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano». Ecco perché, a decenni di distanza, la maggioranza degli israeliani ebrei continua a credere che i palestinesi (compreso il milione e mezzo che vive dentro Israele) non abbiano alcun diritto perché il popolo palestinese, semplicemente, “non è mai esistito”.
La deumanizzazione dei palestinesi e la cancellazione della loro identità è funzionale alla violenza ed all’oppressione che il popolo palestinese è costretto a subire, tutti i giorni, spesso con pretesti banali, dalla polizia, dall’esercito di occupazione e dai coloni. Ecco perché gran parte degli ebrei israeliani ritiene legittimo che una striscia di terra di 360 chilometri quadrati che contiene 2 milioni e mezzo di civili sia sottoposta ad un incessante bombardamento che va avanti da più di 10 mesi durante il quale sono state lanciate 8.500 tonnellate di bombe causando la morte di almeno 50.000 civili (più 130.000 dispersi secondo l’autorevole rivista scientifica The Lancet).
Frantz Fanon nei “I dannati della terra” (saggio scritto nel 1961) sviluppa la sua teoria della violenza applicata al mondo coloniale.
Quest’ultimo viene definito da Fanon come un mondo a scomparti, caratterizzato da una doppia natura e descritto nel modo seguente:
“La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù” [1].Nella tragica vicenda del colonialismo sionista ai danni del popolo palestinese, la prima città è Tel Aviv. La seconda è simile, in tutto e per tutto, alle città della Striscia di Gaza: Bani Suheila, Beit Hanun , Beit Lahia, Dayr al-Balah, Gaza, Jabalya, Khan Yunis, Rafah.
Note
[1] Frantz Fanon, “I dannati della terra”, prima edizione 1961
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10/03/2024
Jorit, lo street artist che “buca” i muri
Che la Russia attuale non sia né un “faro della democrazia“, né, tanto meno, una “culla del socialismo“, non ci piove. Ma Jorit non è un politico, è un artista e gli artisti, quelli veri, vanno controcorrente.
Demistificano, dissacrano, destrutturano, in altre parole, rompono di molto i cojones. E allora come vogliamo o possiamo interpretare la sua performance con Putin dell’altro ieri?
Innanzitutto va detto che Jorit me lo ricordo benissimo in un serrato confronto in TV di circa un anno fa con quell’aquila della De Girolamo (gira ancora in rete), con quest’ultima che continuava a ripetere come un disco rotto che noi mandavano le armi per “difendere la democrazia Ucraina contro la dittatura sanguinaria di Putin“.
Mi chiedo ancora dove fosse lei, il suo partito (Forza Italia) e tutto l’establishment europeo fino a qualche mese prima del 22 febbraio 2022. Ma certo... a Mosca, a ribadire l’importanza dei rapporti euro-italo-russi sul piano degli scambi commerciale ma, soprattutto, su quello degli approvvigionamenti di gas e di altre risorse primarie che la Russia ha in abbondanza.
Poi, dopo il 22 febbraio 2022, il noto ribaltone.
Eppure dal golpe EuroMaidan del 2014 in poi (massacro di Odessa compreso) i rapporti tra UE e Russia erano rimasti eccellenti e nessun rappresentante della Commissione Europea né, figuriamoci, prima ancora, nessun esponente dell’allora governo in carica guidato da Romano Prodi, inviò una benché minima nota di protesta per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, avvenuto nell’ottobre del 2006.
Jorit, nel corso di quella conversazione con la tipa di Forza Italia (messa apposta in RAI a fare un talk con lo share dello 0,2%) fece un discorso molto chiaro: dal 22 febbraio ci dite che Putin è un feroce dittatore mentre continuate a fare affari miliardari con l’Arabia Saudita, con l’Egitto di Al Sisi, con la Turchia di Erdogan e con l’India delle caste.
E poi, aggiunse, quale autorità e quale credibilità ha l’Occidente, quello che ha fatto uccidere Allende ed ha bombardato mezzo mondo in nome della “democrazia“? “Se questo il discrimine“, aggiunse “allora non dovremmo parlare più con nessuno ed anzi dovremmo auto-bombardarci perché anche le nostre democrazie non sono esenti da ombre e forti spinte autoritarie“. Non fa un plissé, dicono a Milano.
Insomma, a mio modestissimo parere, Jorit, da vero artista qual è, ha messo in gioco il proprio corpo e la propria faccia per dire al mondo intero: “Guardate: questo è Putin, è come noi, nel bene e nel male“.
Il messaggio sottostante è: avete rotto il cazzo con la disumanizzazione del nemico funzionale ai propositi di guerra. Putin non è né meglio né peggio di tanti altri, voi occidentali compresi che, anzi, da due anni a questa parte, continuate ad usare in perfetta mala fede e in modo assolutamente strumentale l’argomento “dittature/democrature” soltanto come pretesto per fare la guerra.
In buona sostanza, quella di Jorit con Putin è stata una provocazione, una “performance“, intesa a bucare il muro di propaganda bellica – in onda 24h a reti unificate su tutti i grandi mezzi di comunicazione occidentali – funzionale alla strategia espansionistica dei paesi della Nato a guida USA che vede l’irriducibile entità Russia come un ostacolo ai propri disegni di dominio assoluto in Europa e nel mondo.
E volevo farla breve.
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26/11/2023
La “disumanizzazione” dei palestinesi nei mass media. Sotto accusa anche la BBC
Temendo rappresaglie, i giornalisti hanno chiesto l’anonimato e non hanno intenzione di inviare la lettera ai dirigenti della BBC, ritenendo che “è improbabile che una tale mossa porti a discussioni significative“.
“La BBC non è riuscita a raccontare accuratamente questa storia – attraverso l’omissione e la mancanza di un impegno critico con le affermazioni di Israele – e quindi non è riuscita ad aiutare il pubblico a impegnarsi e comprendere le violazioni dei diritti umani che si stanno verificando a Gaza“, afferma la lettera aggiungendo che: “Migliaia di palestinesi sono stati uccisi dal 7 ottobre. Quando il numero sarà abbastanza alto da far cambiare la nostra posizione editoriale?“
I giornalisti si sono lamentati del fatto che termini come “massacro” e “atrocità” sono stati usati solo per descrivere le azioni del gruppo di resistenza palestinese, Hamas.
La BBC ha dipinto Hamas come “l’unico istigatore e perpetratore di violenza nella regione“, il che è “impreciso ma in linea con la copertura complessiva della BBC”, si legge nella lettera. “Chiediamo alla BBC di riflettere meglio e di rimettersi ai risultati basati sull’evidenza di organizzazioni umanitarie ufficiali e imparziali”.
Hanno affermato che la BBC “ritrae attentamente la sofferenza israeliana, ad esempio, dicendo al pubblico i nomi delle vittime, coprendo i singoli funerali e intervistando le famiglie colpite”, denuncia la lettera.
“In confronto, è mancata una copertura umanizzante dei civili palestinesi. È una scusa povera per dire che la BBC non potrebbe coprire meglio le storie di Gaza a causa delle difficoltà di accesso alla Striscia [di Gaza]… Pochi tentativi sono stati fatti per utilizzare appieno l’abbondanza di contenuti sui social media da parte di coraggiosi giornalisti a Gaza e in Cisgiordania”.
La lettera afferma che “è in gran parte nelle ultime settimane – poiché le morti civili sono aumentate in modo esponenziale e l’appetito dei paesi occidentali per gli attacchi israeliani è diminuito – che la BBC ha fatto maggiori sforzi per disumanizzare i civili palestinesi“.
Secondo quanto riferito, ha anche insistito sul fatto che l’emittente non ha fornito un contesto sullo sfondo dell’attuale crisi, inclusi “75 anni di occupazione, la Nakba o il bilancio asimmetrico delle vittime nel corso dei decenni".
Un portavoce della BBC ha negato le accuse, dicendo che “in tutti i nostri servizi sul conflitto la BBC ha chiarito il devastante costo umano per i civili a Gaza e in Israele“.
Il sito web Declassified ha pubblicato uno studio che spiega questo processo di disumanizzazione, concentrandosi sul modo in cui cinque importanti testate – Washington Post, New York Times, The Times, The Guardian e BBC – hanno coperto il mattatoio scatenato dagli israeliani a Gaza tra il 7 e il 26 ottobre.
I media britannici e statunitensi sono puntuali e abitudinari nel dare priorità alla copertura delle sofferenze israeliane, mentre i palestinesi sono abitualmente rappresentati come vittime senza volto di un disastro naturale, che meritano la magnanimità dell’Occidente e gli atti di aiuto israeliani, ma non un intervento politico o militare in loro difesa, ha aggiunto lo studio.
L’analisi ha anche indicato che ci sono state sospensioni e licenziamenti di giornalisti che hanno parlato contro le politiche israeliane, mentre i discorsi disumanizzanti sui palestinesi sono stati trasmessi senza essere contestati.
Secondo lo studio, i media statunitensi e britannici trattano i palestinesi come un popolo colonizzato, ricordando il filosofo politico Frantz Fanon che, durante la guerra coloniale francese in Algeria, denunciava come gli algerini venissero descritti come “orde di statistiche vitali”, “masse isteriche“, “volti privi di ogni umanità” e “bambini che sembrano non appartenere a nessuno“.
Lo studio ha fornito una serie di esempi di disumanizzazione dei palestinesi nei reportage pubblicati dagli organi di informazione sopra citati:
1. Gli israeliani vengono uccisi dai palestinesi e meritano sostegno, mentre i palestinesi muoiono senza volto.
2. I bambini palestinesi sono chiamati persone di età pari o inferiore a 18 anni.
3. Riportare gli attacchi aerei israeliani su Gaza senza menzionare “Gaza” nel titolo.
Una rivolta morale e deontologica del genere nel giornalismo in Italia ancora non l’abbiamo vista. I Tg della Rai, di Mediaset ma anche de La 7, incluso quello condotto da Mentana, non si sottraggono affatto al format mediatico denunciato contro la BBC e altre testate.
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13/07/2023
Un incubo ad alta tecnologia
di Paolo Lago
Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.
Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.
La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.
In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? Quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.
Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“...tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.
In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria, come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.
12/07/2022
L’uomo-macchina, l’amicizia e il Covid: “siamo tutti in pericolo”
Nomen amicitiae, sic, quatenus expedit, haeret
La parola amicizia solo se serve dura
Petronio, Satyricon
Una cosa è certa: gli strascichi sociali e psicologici dell’emergenza Covid hanno ‘macchinizzato’ ancora di più le persone. Già negli anni Sessanta, Herbert Marcuse, nel suo celebre saggio L’uomo a una dimensione, osservava come gli individui, nella società industriale avanzata, fossero ormai ridotti a degli ingranaggi, a delle macchine, sottoposti a una diffusa disumanizzazione e meccanizzazione. Pier Paolo Pasolini (il cui pensiero deve non poco a Marcuse e agli altri ‘francofortesi’) poco prima di essere ucciso, il 2 novembre del 1975, rilasciò un’intervista, poi pubblicata col titolo Siamo tutti in pericolo, in cui affermava: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra” (Siamo tutti in pericolo, in “Tuttolibri”, I, 2, 8 novembre 1975 ora in P.P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2016). Queste “strane macchine che sbattono l’una contro l’altra” sono irretite in una fitta maglia di poteri. Un anno dopo l’intervista di Pasolini, nel 1976, Michel Foucault, in una conferenza pronunciata alla facoltà di filosofia dell’università di Bahia, così si esprimeva: “Una società non è un corpo unitario in cui si esercita soltanto un potere; in realtà, è una giustapposizione, un legame, una connessione, anche una gerarchia di differenti poteri, che però conservano la loro specificità” (ora in M. Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 159). Sono poteri che si intersecano, che uniscono, avvicinano ed escludono.
Per ‘macchinizzazione’ degli individui si intende qui un processo di disumanizzazione. Come sappiamo, e come è stato riportato da dati statistici relativi ad analisi di tipo sociale, dopo la pandemia ci sono state rotture e divisioni fra amici, spaccature di gruppi amicali per il modo d’intendere l’emergenza, soprattutto in relazione al lockdown e al vaccino. Ora, qui, vorremmo osservare tutti questi fenomeni per mezzo di una distanza fredda e oggettiva, come se il nostro fosse lo sguardo distaccato dell’entomologo che osserva i suoi oggetti di studio. Da una parte, gruppi di amici anche stretti e intimi si sono spaccati perché sono stati isolati i cosiddetti ‘no vax’ (epiteto creato dalla stampa borghese e che qui utilizzo non senza un certo ribrezzo, giusto per farmi capire): allora, gli ‘amici’ che hanno rifiutato il vaccino sono stati immediatamente isolati e ghettizzati. Ma è vero anche il contrario: c’è anche chi è stato isolato dai suoi amici contrari al vaccino semplicemente perché si è fatto inoculare il siero. Perché, loro, alfieri della libertà e della resistenza, non riconoscono più il loro amico che è diventato schiavo del governo e del potere. Ma abbiamo appena capito, grazie a Foucault, che di potere non ce n’è uno solo: anche loro, isolandolo, hanno usato una forma di potere nella sua forma più estrema e brutale. Da entrambe le parti si è messo in atto il potere dell’esclusione, della ghettizzazione, della discriminazione. Gli esclusi, i ghettizzati, i discriminati non sono degli sconosciuti, ma degli amici che fino a poche ore prima condividevano una gran parte della loro vita con chi li ha esclusi (e il potere escludente diventa ancora più terribile e disumano se è stato introiettato e utilizzato da un gruppo contro un singolo).
Chi, in nome della sua presunta libertà, in nome della ribellione a una imposizione giunta dall’alto, giunge ad allontanare i propri amici a causa della loro scelta è il peggiore schiavo di tutti, è l’uomo-macchina perfetto. Con ciò, non intendo certo negare che da parte dei poteri ‘alti’, per mezzo della campagna di vaccinazione, non ci sia stata una coercitiva volontà di disciplinamento collettivo mai vista prima. Basta dare un’occhiata a tutti gli articoli che ho scritto su questo sito dalla primavera 2020 fino a tutto il 2021. Quello che invece vorrei porre in rilievo, in nome dell’intelligenza e della razionalità, è che la campagna di disciplinamento da parte dei piani alti ha funzionato perfettamente. Chi si crede libero avendo allontanato dalla propria vita un suo ‘ex amico’ perché non ha fatto il vaccino o perché lo ha fatto, ha obbedito in tutto e per tutto a ciò che avrebbero voluto quei fantomatici poteri ‘alti’. Si è disumanizzato, si è trasformato in una macchina. Come un perfetto consumatore che, in un centro commerciale, predilige alcuni oggetti rispetto ad altri. Dimenticando la sua essenza umana, ha scelto i propri amici in base a un diktat ideologico e non in base all’umanità, nello stesso identico modo in cui in un supermercato sceglie una merce piuttosto che un’altra. Le fitte maglie di poteri che agiscono nell’universo digitale dei social, in definitiva, stanno snaturando lo stesso concetto di ‘amicizia’. Certo, cosa volete che sia, è facile cancellare un amico da Facebook e così, sembra, anche nella vita reale. Miserevolmente, ci sentiamo eroi perché abbiamo resistito alle imposizioni del governo e abbiamo allontanato i nostri amici servi del governo. Vorrei essere chiaro: parlo in nome della razionalità e della lucidità perché odio e aborro qualsiasi tipo di fanatismo, e sono colto da conati di vomito quando sento la parola “eroe”.
Spesso, magari, questi gruppi di amici si sono sfaldati senza neanche più vedersi, soltanto parlandosi con i messaggi watsapp, telegram o messenger. È bastato un messaggio: “basta, non hai fatto (o hai fatto) il vaccino, non ti voglio più vedere!”. Infatti, come osserva David Lapoujade in un volume in cui rilegge in modo interessante il pensiero di Deleuze, “non siamo soltanto assoggettati alle macchine, siamo anche asserviti a esse, nel senso che, come l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una mega-macchina imperiale, le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. Lo studioso, poi, continua così: “Viviamo in un mondo-schermo, un mondo popolato esclusivamente d’immagini che sfilano senza posa e comunicano direttamente le loro informazioni a un cervello continuamente saturo. All’estremo, non c’è più un mondo esteriore in cui agire; non c’è altro che uno schermo o una tavola d’informazione con la quale interagire” (D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a c. di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 258-259).
Il fatto che molte amicizie e molti gruppi sociali si siano fratturati e divisi dopo l’emergenza Covid, dimostra che viviamo ormai in una società completamente macchinizzata e digitalizzata, un mondo virtuale come quello che ha genialmente riscostruito Steven Spielberg in Ready Player One. Siamo davvero “tutti in pericolo”, al di là di qualsiasi metafora, perché le idee e i fanatismi emersi dal mondo-schermo che ci governa sono diventati più importanti dei rapporti sociali in carne e ossa, dei momenti condivisi, delle gioie e dei dolori vissuti insieme, dei sorrisi, degli abbracci passati, dei dolci irripetibili momenti. E chi non si è completamente disumanizzato, chissà, si ritroverà con le “energie disperse, a ricercare i visi che ti han dimenticato, vestendo abiti lisi, buoni a ogni esperienza”, come cantava Guccini, dopo aver finalmente gettato il suo smartphone in un mare profondo come la notte.