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25/05/2025

Nino Rota, Carlo Savina - 1972 - The Godfather

La nascita di un predestinato

Nino Rota
è stato un predestinato. Nato a Milano nel 1911, figlio dell'imprenditore Ercole Rota e della pianista Ernesta Rinaldi, nipote del compositore Giovanni Rinaldi, mostra fin dall’infanzia doti musicali straordinarie che possono svilupparsi al meglio in un ambiente familiare dove la musica è sempre presente ed è vissuta come fondamento della propria esistenza. Frequenta e studia nella casa di Arturo Toscanini a Milano e tiene piccoli concerti in famiglia fin dall’età di quattro anni, prima con la presenza di soli familiari, poi con ospiti sempre più illustri, sino a comporre, nel 1922 (cioè a undici anni) “L’infanzia di San Giovanni Battista”, la sua prima opera che viene addirittura eseguita lo stesso anno a Milano e l’anno dopo a Tourcoing, in Francia, con un’accoglienza estremamente positiva.
Rota viene accolto nell’ambiente accademico alla stregua di un novello Mozart ed è subito indirizzato verso i migliori insegnanti e i migliori conservatori, diplomandosi presso l'Accademia di Santa Cecilia nel 1929, per poi perfezionare i suoi studi dal 1930 al 1932 negli Stati Uniti al Curtis Institute Of Music.

Il primo approccio con la musica da cinema

Tutto fa presupporre un futuro roseo che in effetti giunge ben presto grazie al legame fortissimo che la sua carriera instaura col cinema, sin dal 1933 con la musica per il film “Treno popolare” di Raffaello Matarazzo. L'incontro con Federico Fellini, avvenuto nel 1952, è uno di quelli che stravolgono una vita (in questi caso due) e dà l'avvio a una collaborazione, si potrebbe dire a una affinità elettiva (come quella, e forse persino di più, tra Ennio Morricone e Sergio Leone) che prosegue per tutta la carriera del regista riminese con capolavori come le soundtrack per “Lo sceicco bianco”, "La dolce vita", "8½", "Amarcord", "Roma" e "Il Casanova di Federico Fellini".

Per i film del regista romagnolo, Rota costruisce un universo sonoro unico, in cui melodie da circo, valzer sghembi e fanfare malinconiche diventano cifra poetica, commento e controcanto a una narrazione onirica e surreale.

Quando nel 1971 il giovane e ancora sconosciuto regista, Francis Ford Coppola, allora trentaduenne, lo contatta per il suo nuovo film, Nino Rota è ormai una celebrità e ha quasi il doppio dei suoi anni. Il compositore milanese inizialmente non sembra interessato, anzi si lamenta con alcuni amici dell’insistenza di certi produttori americani e delle loro continue richieste. Quando i suoi amici gli chiedono chi fosse, il regista lui non ricorda nemmeno il nome e quando gli chiedono almeno il titolo del film, non è sicuro se fosse “Il padre” o “Il padrone”. In sintesi, non sa nulla di quel progetto e non prende ancora minimamente sul serio la richiesta. In questa discussione, si inserisce una signora che intuisce di cosa si stesse parlando e suggerisce che si tratti proprio de “Il padrino”, aggiungendo che il protagonista sarebbe stato addirittura Marlon Brando e consigliando dunque a Rota di non tergiversare troppo...

Il signor Coppola è un regista di grande finezza e un uomo molto coscienzioso
(Nino Rota)

Il rapporto con Coppola e la genesi di un capolavoro

Nino Rota segue così il prezioso consiglio, seppur fissando dei paletti molto chiari alla casa cinematografica (la Paramount) che sembrano fatti apposta per ottenere un rifiuto. Tra questi il peggiore è che lui non dovrà mai recarsi negli Stati Uniti, vista la sua nota avversione verso gli aerei. Per qualunque motivo devono essere gli americani a recarsi in Italia. Francis Ford Coppola non si scoraggia: vuole Nino Rota a ogni costo, soprattutto perché crede fermamente in questo film che - a suo avviso - avrebbe rappresentato la svolta della sua carriera.

L'incontro fatidico tra Rota e Coppola avviene a Roma, nell'agosto del 1971: tra i due scatta subito un feeling completo. Coppola, che conosce praticamente l'intera opera di Rota, gli rivolge richieste molto chiare: desidera una musica che richiami fortemente l’origine dei protagonisti, che ricordi il Sud dell'Italia, in particolare la Sicilia, che abbia melodie mediterranee e che non segua necessariamente la dinamica del film, che si rapporti con la psicologia (tragica) dei personaggi più che con le loro azioni.

Rota è soddisfatto delle richieste, accetta la sfida e dopo vari tentativi si ricorda di aver già scritto anni prima qualcosa di adatto. Nel 1958 aveva infatti composto le musiche del film “Fortunella”, diretto da Eduardo De Filippo, una pellicola dimenticata, che non aveva ottenuto il successo sperato. C’era però una melodia con un ritmo di valzer che, se rallentata e arricchita di pathos, avrebbe potuto creare l'atmosfera richiesta da Coppola.
Un ritmo da valzer, solitamente utilizzato per ballare, immaginato per un film tragico sulla mafia italo-americana. Qualcosa di inaudito a pensarci bene, ma la scelta di Rota si rivela straordinaria. L’orchestrina di archi di “Fortunella” viene sostituita dalla tromba, accompagnata da un mandolino, e il tempo viene decisamente rallentato. L'intro riprende la melodia di apertura della "Prima Sinfonia" di Jean Sibelius. Da questa unione nasce una delle melodie più celebri e struggenti della storia del cinema, “Main Title (The Godfather Waltz)”, che accoglie ogni desiderio del regista: dall’evocatività tragica dei personaggi che sembrano tutti i protagonisti di una tragedia greca, al richiamo alla loro provenienza geografica.

Ma questa melodia se variata in velocità o suonata con strumenti differenti può andar bene anche per scenari molti diversi, nel caso si accentui l'aspetto sinfonico (“The Godfather Finale”), il legame con la tradizione siciliana (“Sicilian Pastorale”) o si sottolinei maggiormente il ritmo di valzer fino al limite del ballabile con batteria, mandolino e oboe (“The Godfather Waltz”).

Le stesse note che all'inizio creano una introduzione da tragedia imminente possono andare bene per le sequenze ambientate in Sicilia, dal mandolino di “Apollonia” al magnifico mix orchestrale di archi e fiati di “Love Theme”, poi reinterpretato in “Speak Softly Love” da Andy Williams.

Una seconda melodia emerge in “The Pickup”, poi ripresa nel finale di “The New Godfather”, composizione bizzarra che in appena due minuti unisce piano jazz, archi sinfonici dalle tonalità molto basse e un finale cinematico hitchcockiano. “The Halls Of Fear” utilizza la trama melodica principale prima di introdurre dei battiti di percussioni ribattuti col pianoforte ad accentuare la tensione.

L'apoteosi si raggiunge ovviamente nel gran finale di “The Godfather Finale”, in cui tutto si ritrova in un sintesi perfetta. Prima l'orchestra, poi la melodia di mandolino, l’ingresso di una chitarra acustica, un coro, un oboe, una melodica e di nuovo la melodia ripresa da un violino solista, prima dell’ingresso di tutta l’orchestra e il ritorno a mandolina e melodica. Uno dei capolavori dell'opera della coppia Rota/Coppola, grazie al montaggio cinematografico, è la scena del battesimo (“The Baptism”) dove l’organo riesce a creare un mix duplice di musica religiosa e violenta allo stesso tempo, facendo da colonna sonora alle immagini della liturgia del nipote del nuovo padrino, costantemente interrotte da una lunga serie di omicidi. Questa duplicità di un stesso tema musicale esemplifica da una parte l’ambiguità della vita delle famiglie mafiose, dall’altra il destino inevitabile cui andrà incontro il nipote. Le stesse note di organo fanno da collante a un tema che si presta a colonna sonora religiosa per il battesimo e musica d'azione per accompagnare gli omicidi, come se Bach incontrasse Morricone per poco più di un minuto. Un’apoteosi per Nino Rota.

Nonostante ciò, la produzione nutre dei dubbi sulla colonna sonora. La Paramount è convinta che la musica sia troppo triste e sentimentale per un film di gangster e pretende un cambio. Coppola oppone un netto rifiuto e chiede che Rota non venga informato di queste richieste, temendo che il compositore possa accettare di fare delle modifiche. In un teso incontro con la produzione, il regista minaccia di abbandonare il progetto. La Paramount tenta addirittura un cambio di regia in corsa, ma Marlon Brando minaccia, a sua volta, di dimettersi in quella eventualità. Alla fine, viene raggiunto un accordo e il risultato è l’album che oggi conosciamo, inciso dall’orchestra Hollywood Studio Symphony sotto la guida del maestro Carlo Savina (già scelto diverse volte da Rota per dirigere le proprie musiche).

Il premio Oscar perduto

Nel 1973 sembra quasi certa la vittoria dell'Oscar come miglior colonna sonora per Nino Rota. Francis Ford Coppola viene premiato con l'Oscar come Miglior film, per una pellicola destinata a rimanere tra i capolavori assoluti della storia del cinema, Marlon Brando come Miglior attore protagonista, Mario Puzo (l’autore del romanzo), insieme a Coppola, per la Miglior sceneggiatura non originale. Ma per quanto riguarda la colonna sonora, poco prima del previsto trionfo succede un incredibile imprevisto. Poco prima della premiazione, giunge infatti un telegramma anonimo firmato dai "Compositori di musica da film italiani” che segnala come la musica de “Il padrino” sia in realtà una rivisitazione della colonna sonora del film “Fortunella” del 1958. Nonostante le due colonne siano in effetti completamente diverse, secondo il regolamento la musica di Nino Rota deve essere esclusa dal premio e il suo posto viene preso da John Addison, autore della soundtrack del film “Gli insospettabili”. Incredibilmente, a vincere l'Oscar per la migliore colonna sonora sarà Charlie Chaplin per il film "Luci della ribalta" del 1952. Una decisione perlomeno discutibile, che la commissione giustificherà ricordando che il film era stato boicottato negli Stati Uniti per le presunte idee politiche filo-comuniste di Chaplin e non era quindi mai stato distribuito ufficialmente.

Nino Rota otterrà la sua rivincita nel 1975, quando vincerà l'Oscar per “Il padrino - Parte II”, secondo capitolo della saga di Coppola.

Bibliografia

  • Fra cinema e musica del Novecento: il caso Nino Rota. Francesco Lombardi (Olschki, 2000)
  • Musica per film. Storia, estetica, analisi, tipologie. Sergio Miceli (Ricordi, 2009)
  • Nino Rota. Storia del mago Doppio e della fata Giglia. Francesco Lombardi (Feltrinelli, 2024)
Fonte

02/01/2025

“Megalopolis”, un peplum per l’era digitale

Una volta, partecipando ad una trasmissione televisiva su Ovidio, Alessandro Barbero disse che il mondo frequentato dal poeta augusteo doveva essere assai simile a quello della upper class di New York o di Washington fatto di feste, festini e intrighi a base di sesso, alcool e droga, di party a cui partecipano i rampolli di alti esponenti della politica e dell’economia. Barbero istituisce quindi un azzeccatissimo parallelismo fra le più alte classi sociali della Roma augustea e le frange più ricche della contemporanea società americana. Frequentando quel mondo e scrivendo di amori licenziosi, è assai probabile che Ovidio abbia fatto un passo falso tanto da incorrere nell’ira di Augusto, ed essere quindi condannato alla relegazione nell’oscura Tomi, sul Mar Nero, l’odierna Costanza (che il poeta dipinge fredda e tempestosa come il Polo Nord, ma che oggi, almeno fino a prima dello scoppio della guerra in Ucraina, era il luogo di vacanza privilegiato dai ricchi magnati russi).

Un parallelismo fra la Roma antica e la contemporanea società americana viene realizzato anche da Francis Ford Coppola nel suo recente e ambizioso film Megalopolis (2024) che mostra un vero e proprio calderone di epoche e figure storiche. I nomi dei personaggi rievocano il truce periodo della guerra civile della Roma repubblicana: Crasso, Catilina, Cicerone, Clodio. Una fonte di ispirazione, secondo quanto affermato dallo stesso regista, è infatti La congiura di Catilina di Sallustio. Nel film, New York diventa New Rome e Cicerone è il corrotto procuratore distrettuale Francis Cicero mentre Catilina è il ricco architetto Cesar Catilina, nipote del banchiere Hamilton Crasso III e nipote di Crasso è anche il depravato Clodio. Quest’ultimo, ponendosi populisticamente alla guida delle classi più povere, vuole contrastare i progetti di ricostruzione della città (che sta per essere devastata dalla caduta di un satellite sovietico) di Catilina.

Il ricorso al mondo classico operato da Coppola possiede diverse sfaccettature. Una più estetica e incline al kitsch, con la valenza metaforica generale di corruzione e degradazione. Ad esempio, in Italia, alla fine degli anni Sessanta, richiami al mondo antico con questa valenza metaforica erano stati attuati da Alberto Arbasino e da Federico Fellini con due loro opere del 1969: rispettivamente il romanzo Super-Eliogabalo e il film Fellini Satyricon. Un’altra sfaccettatura si lega più da vicino all’immaginario fantascientifico e distopico, per cui la romanità presente nel film assume una significativa rilevanza estetica nei suoi aspetti più catastrofici, secondo quanto ha osservato Susan Sontag relativamente all’immagine del disastro nella fantascienza americana degli anni Cinquanta e Sessanta. Infine, la Roma antica presente nel film appare come il frutto di una “omogeneizzazione” del passato e della storia nel senso espresso da Furio Jesi nel suo saggio Cultura di destra. Il linguaggio delle “idee senza parole” (1979): una omogeneizzazione della Roma antica attuata dallo stesso Mussolini e dal fascismo, una rilettura del passato alla luce del lusso spirituale e materiale realizzata generalmente anche dalla cultura di destra successiva. D’altra parte, una mescolanza incongrua di questo tipo veniva perseguita anche dal filone peplum hollywoodiano, vale a dire tutta la miriade di film ambientati nell’antica Roma, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. Esiste però anche un genere peplum precedente, squisitamente fascista come, ad esempio, Scipione l’Africano (1936) di Carmine Gallone, intriso di retorica del regime.

Coppola, strizzando genialmente l’occhio al peplum, crea una “omogeneizzazione” della Roma antica fra elementi incongrui e appartenenti a epoche diverse, infarcita di citazioni shakespeariane (Cicerone, Catilina, Clodio e Crasso che leggono Marco Aurelio come un grande del passato ma che in realtà è vissuto molto dopo, la presenza del Colosseo come stereotipo della romanità, che in realtà venne costruito dai Flavi molti anni dopo il periodo delle guerre civili ecc.) unendola a elementi della contemporaneità come la tecnologia digitale o le automobili. Questa grande omogeneizzazione, anzi mega-omogeneizzazione in puro stile peplum digitale 4.0, serve a creare un’altra potente immagine metaforica, quella del capitale nelle sue più violente e incomprensibili (almeno da parte della ‘gente comune’) declinazioni: il potere economico e finanziario. Dietro lo strapotere e la ricchezza dei personaggi, guarda caso, ci sono le banche: il corrotto e depravato Clodio mira infatti ad impossessarsi della banca dello zio Hamilton. E lo strapotere finanziario può anche ergersi a guida populista (come fa Crasso nel film), manovrando la popolazione meno abbiente come tanti ignari burattini. Il travestimento estetico, kitsch, iperreale e postmoderno della Roma antica di Coppola cela un cuore fatto di violente e tribali guerre finanziarie ed economiche, le stesse che si consumano a Wall Street. Il cuore pulsante di questa società non è troppo diverso da quello che ci mostra un film che viene sempre propinato al pubblico televisivo la sera del giorno di Natale, e lo è stato immancabilmente anche pochi giorni fa, Una poltrona per due (Trading Places, 1983) di John Landis: i ricchissimi fratelli Duke, esponenti dell’alta finanza, decidono, per una scommessa, di far precipitare in miseria il loro dipendente Winthorpe. Quello che viene spacciato per un film di Natale sui buoni sentimenti, oltre ad esaltare il rampantismo primi anni Ottanta, mostra in realtà una violentissima guerra tribale, quella che si consuma ogni giorno nei palazzi dell’alta finanza e, ormai, neppure più nei palazzi, ma nell’universo digitale.

La corruzione, i festini lussuosi, la depravazione, il sesso, la dimensione spettacolare volgare e ostentata, in Megalopolis, non sono altro che l’esoscheletro del cuore economico e finanziario del capitalismo maturo che ci circonda. Non è la romanità che è sopravvissuta fino ai giorni nostri, come nella trilogia ucronica di Sophie MacDougall Romanitas, ma è un universo ‘omogeneizzante’ che racchiude una cultura votata all’altare di un capitalismo che di romano ha assai poco. Certo, anche Petronio nel Satyricon (I sec. d.C.) intendeva affrescare la corruzione e la volgarità dell’età neroniana, un universo fatto di sesso, cibo e denaro, secondo la definizione di Gian Biagio Conte. Ma la rilettura del regista americano inserisce le figure antiche in un universo preciso: un mondo di lusso estremo che, dietro le apparenze, cade a pezzi in una tribale e violenta guerra fra bande. E poi, non dimentichiamo nemmeno che la Roma delle guerre civili era davvero una società attraversata da feroci regolamenti di conti fra bande rivali, come anche lo sarà la società medievale e rinascimentale.

Non è un caso che l’auto privata di Catilina, sulla quale si muove attraverso la città accompagnato dal suo autista, spesso inquadrata in immagini compiaciute ed estetizzanti, sia una vettura simbolo dell’alta borghesia francese ed europea degli anni Sessanta e Settanta, cioè la Citroën DS, un’automobile che è stata, secondo Roland Barthes, un vero e proprio mito del lusso, dello spettacolo e del consumo: mezzo di trasporto, nonché sfoggio di ricchezza, dell’alta borghesia parigina e addirittura auto presidenziale negli anni Sessanta si è poi trasformata, ormai invecchiata, a partire dalla fine degli anni Settanta, in mito della controcultura giovanile ed è divenuta l’ideale mezzo di trasporto per nomadici vagabondaggi. Un vero “mito d’oggi”, secondo l’efficace espressione barthesiana, soggetto a metamorfosi ma, nemmeno ai giorni nostri, del tutto tramontato. L’auto di Catilina si spinge fino ai più poveri quartieri di New York, simili a quelli in cui si ritrova il povero Winthorpe caduto in miseria, laddove una colossale statua della dea Giustizia non riesce più a tenere in mano la sua bilancia, perché pende troppo da una parte. Quei bassifondi sono e saranno abitati sempre dalle vittime del capitale, sia nella New Rome, sia in Megalopolis, la nuova città ‘riqualificata’ che Catilina intende costruire (una versione fantascientifica delle smart cities?). Con Megalopolis tutti staranno bene, saranno felici e contenti come in una fiaba (e all’universo della fiaba rimanda lo stesso film): sarà veramente così, come si auspica durante la festa di Capodanno di questo parallelo e distopico 2024? Sarà vera utopia oppure una nuova, cupa e devastante distopia che non fa altro che incalzarci e rincorrerci, anche nella realtà, giorno dopo giorno?

Fonte