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06/01/2019

Giovani a sud della crisi: coniugare l’analisi con una prospettiva di classe

Sono passati ormai all’incirca cinque anni da quando ebbi l’opportunità di leggere un libro edito da La casa Usher e scritto da un collettivo di cui a quei tempi avevo appena sentito parlare – Clash City Workers – e che poi ha avuto una cospicua circolazione negli ambienti della sinistra antagonista, ossia “Dove sono i nostri – Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi”. Dopo decenni di torpore in quell’occasione mi accorsi, e come me tanti altri, che quelle generazioni che sembravano assopite e colpevolmente inermi dinanzi ad una crisi dilagante, invece stavano iniziando a reagire e a trovare piani di organizzazione e di elaborazione teorica di tutto rispetto. Ricordo che lo stupore fu tale e generalizzato che i compagni (e le compagne) autori del testo furono invitati a centinaia di presentazioni in tutta Italia, stimolando il dibattito su temi che per anni erano rimasti intrappolati tra mura troppo strette. E la cosa più stupefacente era che i relatori non corrispondevano più alle consuete figure di militanti navigati, con numerose lotte alle spalle, bensì a compagni e compagne che difficilmente raggiungevano i 30 anni, essendo nati a cavallo della fine del socialismo reale e che, nonostante un’età giovane, presentavano capacità analitiche di tutto rispetto.

Oggi, anno 2018, dopo quasi un lustro dall’episodio riportato, mi è stata regalata una copia del libro “Giovani a sud della crisi” del collettivo Noi Restiamo. Appena ho messo gli occhi sulle pagine ho percepito la stessa freschezza – in senso del tutto positivo – che mi sembrava permeare anche il volume dei CCW qualche anno prima. Incoraggiato dunque a continuare nella lettura, mi sono imbattuto in un testo estremamente dettagliato sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. La meticolosità con cui vengono descritte le politiche comunitarie (e locali) nella programmazione dell’insegnamento di scuola superiore e università è tale che riesce a fornire adeguati spunti di riflessione anche a chi, come chi scrive, si occupa di ricerca e sviluppo per professione. La capacità di spiegare e contestualizzare, ad esempio, la gestione del programma Horizon 2020 è apprezzabile giacché fornisce un quadro esaustivo e al contempo sintetico di un sistema di finanziamenti composto da innumerevoli intrighi di bandi e norme all’interno di cui è difficile, se non impossibile, districarsi. Stesso discorso per quel che riguarda sia l’analisi comparata delle più recenti riforme universitarie, in ambito sia locale sia internazionale che per quel che concerne il mercato del lavoro e l’analisi delle migrazioni.

Dal punto di vista qualitativo ciò che sembra essere più convincente è il tentativo, riuscito nella gran parte dei casi, di coniugare l’analisi normativa e statistica con una prospettiva di classe che nel conflitto capitale/lavoro vede la sua dinamica principale, se non esclusiva. Sottolineare e discutere che nella mente del legislatore “la responsabilità della formazione debba essere assunta dall’industria” (p.75) è un modo di voler affrontare le questione dal lato giusto ossia da quello che riesce ad individuare un filo conduttore tra tutti i pezzi della crisi che, invece, difficilmente possono essere ricomposti come puzzle. Dunque, viene messa da parte in maniera abbastanza chiara una prospettiva riformista dei problemi fatti emergere – sebbene talvolta non sia chiarissima la presa di distanza dal keynesismo – che vengono invece ricondotti più correttamente all’interno di una strategia ordita chiaramente per consolidare il dominio della classe dominante su quella dominata, per quanto le bandiere partitiche del potere borghese possano cambiare, solo in apparenza. Al tempo stesso, gli autori respingono giustamente le “nostalgie pattriottarde” che tanto vanno di moda in questi mesi e tanto più giochi “altro-europeisti” che incalcolabili danni hanno creato e continuano a produrre nell’immaginario politico della classe di cui siamo espressione.

La prima parte del testo, e più precisamente i primi 5 capitoli, è dunque assai utile per fornire elementi di analisi – sia qualitativa che quantitativa – in grado di rappresentare l’impatto della crisi originatasi negli anni '70 ed esplosa nel 2008 sui giovani che, però, come è ben spiegato in tutto il testo, diviene una questione non esclusivamente giovanile, bensì di classe e dunque per definizione intergenerazionale. In questa maniera viene di fatto confutata l’ideologica tendenza, ampiamente adottata dei lacchè della classe dominante che ha l’obiettivo di condurre la crisi in un vicolo cieco e ascientifico come il conflitto tra generazioni obnubilando così la lotta di classe che è il vero motore della storia. I capitoli conclusivi – alla cui redazione hanno partecipato altri collettivi, quali il CAU di Napoli, il Collettivo Laika di Grosseto, il Collettivo Porco Rosso di Siena e Coniare rivolta di Roma – affrontano tematiche solo apparentemente diverse, quali la lotta contro l’austerità e la repressione, la questione meridionale, il debito pubblico e lo spazio metropolitano nella crisi. Sia a livello metodologico che nelle conclusioni, l’analisi precedente viene dunque avvalorata e corroborata da spunti di riflessione assolutamente validi che mostrano una condivisione più ampia dei risultati già sviluppati.

A cosa ci può servire

Al di là dell’interesse sicuramente ampio generato dalle tematiche sviscerate in maniera approfondita dal testo, è importante chiedersi come riuscire a proiettare questo lavoro nella quotidiana conflittualità di classe che, volenti o nolenti, ci troviamo a combattere sui nostri posti di lavoro.

Senza dubbio, un’analisi di questo tipo è rilevante perché permette a tutti, e dunque non solo alle generazioni “a sud della crisi” di fare un passo in avanti sul terreno della lotta teorica che fin troppo spesso finiamo per abbandonare a favore dei più rinvigorenti momenti della prassi. In altri termini, senza voler citare troppe volte Lenin, è sempre importante tenere a mente che senza teoria rivoluzionaria è impossibile pensare di poter fare una lotta rivoluzionaria. In questo senso il testo, pur non riportandolo troppo spesso in maniera diretta, sembra presentare e fornire una interpretazione dei fenomeni utilizzando il marxismo come riferimento teorico principale. Questo elemento evidentemente fa la differenza, giacché permette di coniugare una analisi teorica a sbocchi pratici che non siano imbevuti di un miope riformismo come, invece ad esempio, potrebbe suggerire una adesione al keyenesismo. Dunque, proiettare le istanze dei più giovani – che, come detto, sono del tutto intergenerazionali e dunque interessano la classe lavoratrice nella sua totalità – su un piano di conflittualità contro chi detiene i mezzi di produzione, sembra essere una questione cruciale che fa ben sperare sui futuri sviluppi delle lotte necessarie per ampliare le contraddizioni esistenti all’interno del modo di produzione del capitale.

In alcuni passaggi, sembra oltretutto esplicita l’adesione di almeno una larga parte degli scriventi al movimento politico organizzato, nato quasi un anno fa “Potere al popolo!”. Negli ultimi mesi – complice anche un infantilismo politico di enorme portata dimostrato da alcune anime che componevano originariamente il movimento – il progetto, come è noto, ha vissuto una fase densa di scossoni che hanno talvolta fatto sbandare anche i suoi rappresentanti più lucidi. In questo senso, ora che si è aperta una nuova fase del movimento, con l’elezione del coordinamento nazionale e dei suoi rappresentanti, sembra opportuno passare alla sostanza, elaborando e proponendo cioè un programma minimo propedeutico all’aggregazione di forze necessarie alla creazione di un fronte unico di classe in grado di riequilibrare almeno un po’ i rapporti attualmente esistenti. Da questo punto di vista, lo studio approfondito, così come la capacità analitica presentata nel libro, frutto anche di un lavoro pratico quotidiano all’interno delle lotte, potrebbe essere senza dubbio di grande aiuto nel tentativo di elaborare quella parte del programma che necessariamente dovrebbe essere dedicata alle possibili modifiche del sistema istruttivo sia superiore che universitario, tenendo in conto anche la centralità della disposizione di fondi ricerca utili per lo sviluppo di un cervello sociale (general intellect) che, nella fase attuale, è di pertinenza esclusiva dei proprietari delle condizioni di produzione.

Ormai si parla in maniera abbastanza condivisa di un nuovo aggravamento della crisi del capitale che dagli anni '70 in poi si trascina in maniera sempre più comatosa. La risposta che per ora sembra preferire la classe dominante è quella di trasformare lo stato liberale in qualcosa di profondamente dispotico. L’affermazione di Trump, Bolsonaro, Salvini, Orban ecc. ecc. stanno forse a rappresentare una sovrastruttura che si sta adeguando ad una struttura sempre più in difficoltà. La classe ha necessità delle intelligenze di tutti utili a proporre soluzioni all’interno di una unità che, specie in Italia, sembra sempre più una chimera considerati i numerosi personalismi e individualismi che permeano da decenni la sinistra antagonista. In questo senso, il testo può essere utile: una base teorica rigorosa, priva di futili nuovismi, può essere adatta ad accompagnare una lotta seria che almeno un po’ possa far ricalibrare quei rapporti di forza al momento assai sproporzionati dalla parte di chi ci domina.

Fonte

07/12/2018

Formazione, lavoro ed emigrazione: i giovani alle prese con i risultati della ristrutturazione neoliberista

Giovani a Sud della Crisi, lavoro collettaneo curato dai ragazzi di Noi Restiamo raccogliendo i contributi di vari collettivi universitari, è un volume importante non solo per i contenuti, ma anche – e in un certo senso soprattutto – per lo sforzo di elaborazione collettiva da cui ha avuto origine.

In una fase di grande povertà di pensiero e di frantumazione della classe lavoratrice – che inizia già durante il percorso universitario e, prima ancora, scolastico – è infatti vitale incoraggiare, sostenere e divulgare i risultati di elaborazioni collettive di questo tipo, di cui abbiamo più che mai bisogno.

In un ambiente universitario che dovrebbe incoraggiare ed alimentare – e invece ostacola e impoverisce – la capacità critica degli studenti, infatti, prendere in mano questo volume e scorrerne le pagine trasmette senza dubbio un sentimento di soddisfazione e speranza.

Sono tanti ed apparentemente eterogenei i temi trattati – dalle riforme dell’università alla modalità di finanziamento degli atenei, dal problema della disoccupazione giovanile all’analisi dei mutamenti del capitalismo europeo – ma gli autori sono stati a parere di chi scrive efficaci nel rendere un’idea: tutti questi aspetti, ben lungi dall’essere slegati gli uni dagli altri, sono parte integrante della cosiddetta ‘ristrutturazione neoliberista’, e come tali vanno analizzati e contrastati.

Per rendersene conto, è sufficiente adottare la prospettiva degli autori: quella di classe, alla luce della quale le tessere del mosaico formano un disegno estremamente chiaro.

La distruzione del sistema scolastico e universitario è senza dubbio un tassello fondamentale della cosiddetta svolta neoliberista. Essa risponde infatti alla logica dell’aziendalizzazione dell’istruzione, sotto le affascinanti etichette di efficienza e merito. Come sottolineato a più riprese nel volume curato da Bellofiore e Vertova (Ai confini della docenza. Per la critica dell’università), le tante riforme del sistema universitario che si sono susseguite negli ultimi anni hanno pian piano spogliato gli atenei del loro ruolo, di fatto privando gli studenti del diritto allo studio.

Le università infatti non sono più luogo dove formare la propria conoscenza, ma luoghi di produzione di futuri lavoratori ad uso e consumo del capitale. I percorsi universitari devono essere sempre più brevi e veloci, le competenze acquisite sempre più modellate sulle figure professionali richieste dalle aziende. Gli studenti devono abituarsi fin da subito ad un mondo del lavoro fatto, per i più fortunati che un impiego riescono a trovarlo, di contratti di brevissima durata e quindi di continui cambi di mansione, senza la possibilità di restare in un luogo abbastanza a lungo da riuscire a sviluppare, sul posto di lavoro, delle vere e proprie competenze.

Il capitale ottiene così un triplice risultato: scaricare i costi della formazione professionale sulla collettività, procurarsi lavoratori disciplinati e pronti a lavorare a condizioni inaccettabili, smantellare un luogo dove, tradizionalmente, si sviluppa il pensiero critico e quindi anche la coscienza di classe. Tutto con il plauso – e non di rado l’azione diretta – dei partiti sedicenti di (centro-)sinistra.

La medesima logica si estende non solo ai corsi di laurea, ma anche a quelli di dottorato e, successivamente, di inserimento in accademia. Tutto deve essere misurato e quantificato. Non importa la qualità delle conoscenza, ma solo la quantità di paper sfornati, ma che siano su riviste di fascia A, e a ritmi da catena di montaggio.

Fare un dottorato non significa più prendersi 3 o 4 anni per studiare, fare profondamente proprie delle conoscenze, sviluppare un proprio pensiero critico e quindi eventualmente dare dei contributi alla conoscenza collettiva. La competizione per i pochi posti disponibili in accademia impone di iniziare subito a pubblicare, passando da un argomento all’altro in maniera bulimica, senza mai potersi fermare a ragionare su ciò che si sta facendo o ad approfondire un argomento.

È ovvio che ad avere successo in questo percorso saranno i più bravi ad adattarsi a tale logica, con l’evidente conseguenza di formare ricercatori e docenti universitari la cui preparazione è sempre più deficitaria e ristretta. Non ci vuole un indovino per capire come ciò metta in moto un circolo vizioso davvero difficile da spezzare.

Come sottolineato da più di uno dei saggi contenuti nel volume, stage e tirocini curriculari diventano la norma non più solo all’università, ma già dalle scuole superiori: gli studenti si trasformano così in manodopera a bassissimo costo da sfruttare.

Ciò che più sgomenta è il fatto che tale retorica sia ormai diventata assolutamente dominante, insieme a quella del cosiddetto skills mismatch: la scuola e l’università non devono più insegnare ad imparare – e quindi formare individui capaci di acquisire nel corso della loro vita nuove conoscenze e applicarle anche sul posto di lavoro – ma sfornare lavoratori già belli e pronti per entrare in azienda, precari e sottopagati, e svolgere le mansioni loro assegnate. Ci viene detto che l’università italiana non produce le competenze richieste dal nostro sistema produttivo, dimenticando di sottolineare come un gran numero di giovani preparati e altamente qualificati lascino ogni anno il nostro paese per trovare un’occupazione all’estero, spesso in Germania o UK – altro tema trattato nel dettaglio nel volume.

L’università quindi si deve adattare, deve produrre utili, essere gestita come un’azienda e valutata in base a indicatori di performance e redditività del tutto simili a quelli padronali. Ancor meglio di privatizzare l’università è asservirla agli obiettivi del capitale lasciando l’onere della gestione allo stato, che una volta di più diventa quindi portatore degli interessi della grande impresa.

Abolire il valore legale della laurea, idea non nuova ma riportata recentemente alla ribalta da Matteo Salvini, è perfettamente funzionale alla ‘ristrutturazione neoliberista’: pochi atenei di prestigio – si legga: organici alla classe capitalista – saranno le fucine per le classi dirigenti di domani. Negli altri – prevalentemente ubicati al sud, o comunque periferici in senso sia geografico che politico – saranno relegati coloro che non si possono permettere di studiare altrove, aggravando ulteriormente tutti i problemi strutturali del nostro paese: l’immobilità sociale, il dualismo, la disuguaglianza distributiva, la precarietà e la povertà dilagante.

Menzionare tutti gli spunti di riflessione offerti da Giovani a Sud della Crisi sarebbe qui impossibile, e mi limito quindi ad un’ultima riflessione. Oggi più che mai, è necessario spezzare la dicotomia sovranismo/europeismo così come ci viene imposta. Elaborare una critica radicale all’architettura delle istituzioni europee non significa, infatti, rinchiudersi entro i confini nazionali – e quindi cercare impossibili soluzioni locali a problemi globali. Al contrario, significa adoperarsi per riunire le classi lavoratrici europee – e idealmente, non solo – pur con tutti gli ostacoli posti su questo cammino da decenni di arretramento sociale e culturale.

È quindi importantissimo il lavoro di analisi svolto in queste pagine, che ripercorre anche le tappe della ristrutturazione del capitalismo europeo operate dall’evoluzione delle istituzioni dell’UE, analizzandone le conseguenze di classe prodotte. Ed è importantissimo che a svolgere questa analisi sia stata l’intelligenza collettiva di un gruppo di studenti universitari che ci dimostrano come l’impegno e la militanza possano ancora essere elementi chiave di un cammino verso l’emancipazione.

Fonte

23/11/2018

Giovani a sud della crisi. Un’analisi concreta della situazione concreta della condizione sociale giovanile

C’è un merito che bisogna riconoscere ai compagni di Noi restiamo da quando sono nati: quello dello sforzo teorico di ricostruzione di un quadro della questione sociale giovanile all’interno delle dinamiche della competizione capitalistica globale, con particolare attenzione allo specifico della situazione italiana.

Il nuovo lavoro di ricerca e di analisi, Giovani a sud della crisi (ottobre 2018), è in qualche modo il punto di arrivo (certamente temporaneo) di questo sforzo teorico, che cerca di mettere insieme tanti pezzi di ragionamento a partire dai processi economici in atto, dalla loro configurazione geografica, passando ad analizzare il mondo della ricerca, della formazione universitaria e scolastica, giungendo a trattare i nodi dello sfruttamento del lavoro giovanile e i processi di emigrazione.

Lo sforzo di afferrare tutti gli “anelli” (per utilizzare un’espressione leniniana) di questa catena di sviluppo del processo in atto, è lo sforzo di chi vuole dare una base concreta alla propria azione politica. Utilizziamo l’aggettivo “concreto” nel senso inteso da Marx, quando scriveva nei Grundrisse (gli appunti preparatori del Capitale): «il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza».

Per il pensiero il “concreto” è un punto di arrivo. Per l’azione è il punto di partenza.

Il libro si divide in due parti. La prima parte comprende 4 capitoli (più quello introduttivo) a firma dei compagni di Noi restiamo, in cui viene messa a punto la loro analisi.

La seconda parte è coperta dagli interventi di altri collettivi con cui gli autori si sono confrontati in questo sforzo di analisi: il CAU Napoli, il Collettivo Laika di Grosseto, il Collettivo Politico Porco Rosso di Siena e Coniare rivolta di Roma, i quali propongono analisi dei contesti locali in cui si trovano ad agire e offrono spunti di riflessione importanti, sia per completare il quadro sia per allargare il campo visivo.

I primi cinque capitoli del libro indagano ognuno un tassello del ragionamento generale su come si organizza in Europa il sistema di creazione di “conoscenze e competenze”. Il cap. 2 prende in esame la distribuzione dei fondi della ricerca in ambito europeo. Il cap. 3 analizza le riforme universitarie in Italia alla luce dei mutamenti europei in ambito formativo, facendo un raffronto tra gli esiti di questi processi di riforma in alcuni dei paesi PIGS (in particolare Italia e Spagna) rispetto a quelli del centro produttivo europeo, definiti paesi core, quali la Germania.

Da qui si passa, nel cap. 4, all’analisi del mercato del lavoro giovanile, facendo un’analisi della situazione italiana e un focus sulla situazione dei paesi PIGS. A questo punto diventa necessario affrontare nel cap. 5 le dinamiche migratorie giovanili interne alla UE con un raffronto, ancora una volta, tra paesi PIGS e paesi core.

A leggere questi 4 capitoli di seguito non si può non rimanere colpiti della convergenza dei risultati di questa indagine. Molti degli indicatori utilizzati (il libro è ricco di fonti, statistiche e grafici, che lo rendono ancora più prezioso) fanno capire nel dettaglio quale sia il processo di gerarchizzazione interno all’Unione europea: la distribuzione diseguale dei fondi per la ricerca, con un centro che attira fondi e ricercatori e una periferia che li perde: la gerarchizzazione delle università all’interno della UE, ma anche all’interno dell’Italia, che ci parla di un processo di scomposizione dei sistemi educativi nazionali, che il recente tentativo di regionalizzazione dell’istruzione conferma fino alla fine; il ruolo non secondario della differente distribuzione dei fondi per l’università e, a cascata, la qualità e i costi dell’offerta formativa, nell’approfondire le differenze interne all’Ue e all’Italia; la spiccata precarizzazione del lavoro a seguito della gerarchizzazione produttiva in Europa; i processi migratori come effetto finale, che con i suoi 5 milioni di migranti, la maggior parte nei paesi core della UE, ci parla di una mancata specializzazione produttiva in Italia.

Tutti questi elementi ci mostrano in maniera evidente, al di là della retorica dell’Europa dei popoli (che, finché rimane in piedi questo assetto istituzionale ed economico-finanziario, sarà di là da venire), un’economia integrata all’interno della UE, i cui differenti capitalismi nazionali si strutturano in maniera gerarchica (seppur non senza frizioni), con un centro e una periferia. Certamente, la realtà è più sfaccettata di come la presentiamo qui, ma occorre leggere la tendenza in controluce per vedere la figura nella sua interezza.

Il capitolo finale del libro raccoglie un report del convegno sulle università organizzato a maggio del 2018, in cui a parlare erano presenti diverse realtà studentesche italiane (quelle citate sopra più un collettivo sardo) ed europee (Catalogna, Svizzera, Parigi). Chiude il report un piano di intervento basato su tre punti: 1) la necessità di un fronte di alleanza tra segmenti della società, in particolare con il sindacalismo metropolitano che affronti la questione sociale; 2) indicare il campo della lotta al livello europeo; 3) riprendere i momenti di confronto a livello nazionale, provando ad articolare la lotta nei singoli territori.

Crisi sistemica e catena del valore

Ci sembra non sia inutile provare a dare una sintesi veloce delle argomentazioni offerte dal libro, per introdurre il lettore alla serie di dati elaborati nella ricerca.

Come accennavamo all’inizio, la ricostruzione del concreto concatenarsi dei piani di analisi va da quelli più generali della competizione capitalistica globale, della crisi sistemica e delle risposte politico-economiche a questa crisi (come la costituzione di macroaree economiche sempre più integrate, quali la UE) a quelli via via più specifici (nazionali e regionali).

Nel contesto della crisi del capitale, i cui livelli di crescita sono calanti da un secolo a questa parte (se si escludono alcuni periodi eccezionali come quelli postbellici), la ristrutturazione economica avviatasi intorno agli anni ’80 del '900, ha indotto le economie occidentali, per mantenere i margini di profitto desiderati, a puntare, più che sulla crescita quantitativa, su quella qualitativa, intendendo con ciò un processo produttivo che puntava sulla ricerca, l’innovazione scientifica e tecnologica (qualità) quali elementi determinanti nella concorrenza. Se i margini di profitto sono pochi, chi innova ha più chances di essere competitivo sul mercato. L’innovazione richiede ricerca e lavoratori sempre più qualificati. Chi forma i lavoratori qualificati non è l’impresa, ma è il sistema d’istruzione nazionale. Dagli anni ’80 in poi, gli industriali di tutto il mondo capitalistico puntano la loro attenzione sui sistemi educativi per formare i lavoratori che il nuovo paradigma produttivo richiede.

Un modello produttivo produce merci, è noto, e la sua prima merce è il lavoro. Che tipo di lavoro richiede il nuovo paradigma produttivo? Se il vecchio sistema di fabbrica puntava all’aumento della popolazione per aumentare la massa della forza lavoro “puramente fisica”, quello dei capitalismi avanzati come quello europeo ha bisogno di forza lavoro specializzata. Questo obiettivo era già stato fissato sin dalla fondazione della CEE alla fine degli anni ‘50, ma allora riguardava solo la manodopera industriale, certo più evoluta rispetto a quella ottocentesca e primo novecentesca. La specializzazione è un effetto della concorrenza, che è a sua volta il segno che la crescita quantitativa cede piano piano il passo a quella competitiva. Non è un caso che si inizia a parlare di “risorse umane” negli Usa proprio alla fine degli anni ‘50. L’economia di guerra era finita, la crisi economica di primo Novecento – che aveva portato allo scontro tra imperialismi e al keynesismo di guerra americano che ne ha beneficiato – si ripresentava, ma a influenzarne gli esiti “automatici” c’era allora il blocco socialista, che con la sua sola presenza (al di là delle effettive intenzioni) costituiva una minaccia costante per l’ordine capitalista, non fosse altro per l’esempio che offriva a tutti circa la possibile alternativa sociale ed economica al capitalismo.

La risposta alla crisi doveva essere data, sì, ma senza fare emergere “velleità rivoluzionarie”. La crisi economica nei paesi occidentali comincia a farsi risentire sul finire degli anni ‘60, e se i grafici che Carchedi ha mostrato sono validi (vedi L’esaurimento dell’attuale fase storica del capitalismo, Contropiano n.1, 2017, e disponibile in rete qui) è possibile avere conferma di ciò. Il calo del tasso di profitto è una tendenza secolare. In questo quadro, la competizione aumenta e a un certo punto si richiede il cambio di paradigma produttivo. La fine del fordismo data inizio anni ‘70, ma le sue premesse sono ancora più antiche. Non essendoci una crescita per tutti, ma una crescita solo in primo luogo per chi si specializza (e in subordine per chi risparmia sul costo del lavoro o ricorre a misure monetarie come la svalutazione, come avveniva in Italia all’interno dello SME e prima della moneta unica), il ricorso alla specializzazione, quindi all’attenzione ai sistemi formativi e alla ricerca, diventa sempre più un punto strategico della competizione. Si è detto che quanto meno margine di profitto c’è, tanto più cresce la competizione. Tanto più aumenta la competizione, tanto più si mira alla specializzazione. Questo è un fenomeno che ha interessato tutti i paesi industriali avanzati.

La cosiddetta globalizzazione ha distribuito su tutto il pianeta il lungo processo di creazione del valore. Non ci sono più unici centri produttivi dove si progetta e si produce la merce dall’inizio alla fine, ma una dislocazione spaziale che divide il processo produttivo. Il lavoro sporco della fabbrica tradizionale viene spostato nelle nuove periferie produttive, dove è possibile aumentare le ore di lavoro e pagare una miseria gli operai. Al centro rimane la progettazione e tutto ciò che è annesso al prodotto finito (marketing, branding, packaging, ecc.). La creazione del valore dalla periferia al centro è ciò che viene chiamata catena del valore, dove chi sta al centro si accaparra la maggior fetta di valore prodotto. Questa è la forma del neocolonialismo. Ed è questo il quadro storico ed economico presupposto dall’analisi che i compagni di Noi restiamo offrono al lettore.

Catena del valore e gerarchizzazione dei sistemi formativi

L’effetto immediato di questa catena è la gerarchizzare di funzioni e aree produttive, ma anche la distribuzione in maniera diseguale del valore prodotto, la cui parte principale va al centro. In questo centro operano i sistemi formativi avanzati che, appunto, hanno il compito di mantenere in piedi la posizione di privilegio all’interno della catena produttiva di valore.

Questa differenziazione produttiva è leggibile all’interno delle dinamiche europee (cioè della UE). La regionalizzazione della UE vede un nord e un sud, ma anche un ovest e un est. Non è senza significato il fatto che ai suoi esordi la Lega voleva staccare il nord Italia per legarlo al centro produttivo europeo.

Senza comprendere questa differenziazione produttiva non si capiscono gli effetti sulla regionalizzazione dei sistemi formativi, con i loro sviluppi diseguali in termini di fondi, laureati, abbandoni ed emigrati.

L’architettura economica, finanziaria e giuridica della UE agisce in modo coordinato a creare questa differenziazione. Per fare un esempio: in presenza di fenomeni di deindustrializzazione in Italia, non si sono avuti percorsi di specializzazione produttiva, ma di dequalificazione. Inoltre, il progetto dell’industria 4.0 (senza contare gli effetti di espulsione di manodopera dal settore di applicazione) a oggi rimane un progetto e l’attuale governo ha persino tagliato i fondi ad esso destinati. Come mai? Non si può rispondere se non ricorrendo a quel complesso di concause che sono i tagli di bilancio per effetto delle politiche di austerità, la ripresa economica che non c’è (se il PIL non aumenta non aumentano nemmeno gli introiti statali), il ruolo dell’Italia nella catena del valore (inutile fare uno sforzo di ammodernamento se non puoi giocarti questa partita tra grandi), la difficoltà italiana a essere competitiva ad alti livelli, lo spazio concesso solo per la competizione al ribasso, con la proletarizzazione degli specializzati e il ricorso allo sfruttamento del lavoro migrante lì dove la specializzazione non interviene ed è più utile, al fine dell’estrazione di valore, ricorrere a sistemi di sfruttamento ottocenteschi. Senza questo quadro non si capisce perché, pur essendo il numero di chi emigra dall’Italia uguale al numero dei migranti provenienti da fuori, chi va via sono in specie gli specializzati e chi arriva è la classica “manodopera” inserita i settori non specializzati e a basso costo. I fenomeni migratori sono solo l’effetto di questa gerarchizzazione all’interno della catena del valore.

Visti dal punto di vista “europeo” (o, meglio, dal punto di vista di quelle aeree che occupano il centro all’interno della catena produttiva) i sistemi formativi devono creare il bacino di lavoratori specializzati: più si ingrossa, più sono alte le possibilità di sfruttare le intelligenze formate e messe in campo. Ma, al contempo, aumenta anche la concorrenza tra i lavoratori specializzati, con la classica diminuzione del costo del lavoro specializzato.

Vista dal punto di vista dell’Italia (e di altri paesi che hanno una posizione simile, se non peggiore, nella catena del valore), le politiche europee sulla formazione a tutti i livelli e sulla ricerca, hanno l’effetto di declassarla e di differenziarla al proprio interno.

Catena del valore e gerarchizzazione dei lavoratori: proletarizzazione ed emigrazione

Il lavoratori non hanno patria, diceva Marx, ma non tutti vivono le tendenze evolutive del capitalismo allo stesso livello. E questo sicuramente ha effetti immediati sul modo di autorappresentarsi dei lavoratori, su come leggono, a partire dalla loro realtà immediata, la loro condizione. Chi vuol lavorare alla ricostruzione di un fronte di lotta deve sicuramente capire i fenomeni e le loro rappresentazioni, smontando quelle tossiche, possibilmente.

Ora, in questo compito ci vengono in aiuto i dati estrapolati sui processi migratori che si sono messi in moto in questo quadro di gerarchizzazione, leggibile anche alla luce degli effetti post-crisi finanziaria 2008-2010. Chi risponde meglio alla crisi finanziaria in Europa sono ancora una volta i paesi core. I paesi PIGS non hanno saputo riprendersi e stentano maledettamente a ritornare a una condizione simile a quella precedente la crisi. Le politiche europee per combattere la disoccupazione giovanile (ossia di quel settore di lavoro produttivo sottoposto a più alto tasso di sfruttamento) non hanno nessun effetto nei paesi periferici, come in Italia, se non quelli di consegnali a una stabile precarietà e a una progressiva proletarizzazione. Le politiche nazionali (fino al Jobs act) non hanno fatto altro che subordinare sempre più il lavoro alle esigenze di un’economia debole, e che in quanto tale non può puntare (al di là delle retoriche sul “mismatch” tra “skills” richieste e quelle offerte) ad assorbire lavoratori che in realtà sono troppo specializzati. È questa la base della cosiddetta overeducation, ormai diventata soggetto perfino di film di distribuzione di massa come Smetto quando voglio (la cui lettura però è fuorviante perché continua ad attribuire i mali dei ricercatori ai baroni universitari e al nepotismo, che sono semmai un effetto piuttosto che la causa).

Insomma, sulla lettura della disoccupazione giovanile si gioca una partita ideologica fondamentale, che fa uso anche di statistiche truccate, come quelle trimestrali sull’occupazione, che tiene conto di chi ha fatto anche un’ora di lavoro nel periodo considerato... Il punto è che la disoccupazione giovanile, specie tra chi ha un titolo di studio di secondo livello, è enorme al livello europeo, con punte drammatiche nelle periferie produttive. È così che si creano i moderni eserciti industriali di riserva pronti per l’emigrazione.

Si arriva così all’ultimo capitolo, dove si analizza quello che viene definito “un fenomeno di massa simile per dimensioni a quello del dopoguerra”, un fenomeno che per la sua imponenza “è difficile attribuire a scelte individuali”. Ed è analizzando questo fenomeno che vediamo meglio le due periferie dell’Unione europea, quella a est e quella sud.

La centralizzazione economica europea che produce la divisione gerarchica risalta ora sotto un altro angolo visuale. Saldi e flussi migratori mostrano le stesse dinamiche: dalla periferia al centro. In questo quadro, paesi che avevano avuto storie migratorie del tutto indipendenti e differenziate (come la Spagna e il Portogallo) tendono a uniformarsi sulle cause migratorie, sulle destinazioni e sui soggetti: chi ne sfrutta i vantaggi sono ancora una volta i paesi core. Chi ne paga il prezzo sono i giovani “a sud della crisi”, quelli appunto delle periferie produttive.

Risposte ideologiche alla crisi. Fascistizzazione a nord a est e a sud della crisi

Tra gli interventi esterni proposti nel libro, quello del Collettivo Laika di Grosseto offre degli spunti interessanti sul piano della gestione politica della crisi, ricorrendo alla categoria di “fascistizzazione del potere”. Facendo un excursus veloce sulle dinamiche degli ultimi 25 anni (dalla fondazione della UE), il collettivo mette in collegamento l’ordoliberismo con la gestione corporativistica dell’economia e la messa in mora del conflitto di classe. L’ordoliberismo si differenzia dal neoliberismo di stampo anglosassone: se quest’ultimo vuole eliminare ogni forma di intervento statale in campo economico e sociale, riducendo lo stato a quello che veniva definito uno “stato minimo”, l’ordoliberismo invece richiede un intervento attivo dell’apparato statale nella gestione del mercato e della società che deve essere piegata alle sue esigenze. Questo non significa però che l’apparato statale sia garanzia di un ordine più democratico. L’ordoliberismo è un pensiero nato in Germania intorno agli anni ‘50. Esso ha di fatto presieduto (e presiede) alla nascita delle politiche della UE. Una gestione dall’alto del conflitto di classe, che piega gli interessi di classe agli interessi del mercato. Questo mercato però non è più un mercato nazionale, ma un mercato europeo. Non è il caso qui di ricordare i passaggi costitutivi dell’UE, ma è evidente che il motore primo della UE è la formazione di un’area economica che sappia essere concorrenziale nel quadro della competizione globale allora avviatasi. La mancanza nella UE di un assetto istituzionale tradizionalmente democratico, con un parlamento che fa le leggi e da cui provenga la legittimità di un governo (la Commissione europea), sta lì a dimostrare che la UE tutto è tranne che un’espressione democratica dei suoi popoli. Le “direttive” europee, talvolta “indicazioni”, si trasformano in legge nazionale senza nemmeno avviare una vera consultazione popolare. Ciò rende evidente che la mancanza di democrazia, pur intesa in senso borghese tradizionale, non è un difetto transitorio, ma una caratteristica stabile di questa fascistizzazione del potere che, in forma nuova, riesuma la politica corporativistica fascista. Non interessi di classe, ma interesse unico rappresentato dal mercato europeo. A questo aspetto è dedicato anche l’ultimo libro di Luciano Canfora, La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia (Laterza 2018).

Ma questo è solo uno degli aspetti della fascistizzazione del potere, perché c’è anche un uso nazionale di questo fascistizzazione: quello che si registra nelle periferie dell’UE per contenere e incanalare rabbia sociale verso lo straniero, soprattutto nel momento in cui si ripete il ritornello “non ci sono risorse per tutti”, perché ovviamente le risorse pubbliche sono spese per altro, non per la spesa sociale. Ed è interessante che il collettivo faccia notare che l’unica spesa pubblica in Europa che non sottostà ad alcun vincolo è proprio quella militare (che a livello europeo prevede anzi un aumento del 180% per la sicurezza interna e del 280% per la gestione dei confini).

Se questa analisi ha il merito di mettere in luce la natura del potere politico oggi in atto nella nostra area, ha dimenticato, forse per troppa fretta, di mettere in luce le differenze che attraversano le borghesie europee, differenze che, oltre a strutturarsi in senso orizzontale (le borghesie nazionali), si strutturano i senso verticale (borghesie nazionali vs borghesie europee internazionali a vocazione imperialista). Se si tiene in luce questa ulteriore specificazione del quadro disegnato dal Collettivo Laika, si capisce anche il valore della fascistizzazione del potere del blocco economico-sociale che si è raccolto attorno all’attuale governo italiano, e si capisce quale base economica ha questo blocco: i settori produttivi che agiscono su base nazionale e che mirano al mercato interno, ma che soffrono le politiche di austerità. Solo alcuni settori produttivi di calibro europeo possono esportare in lungo e in largo nella UE. Quelli a vocazione nazionale invece ne soffrono la concorrenza.

Lo smantellamento di apparati industriali nazionali o la loro svendita a gruppi internazionali, svuota di capacità produttive intere aree dei paesi periferici. Il turismo (e in genere l’economia dei servizi) viene visto spesso come la risposta alla fine dell’industrializzazione. Il turismo (oltre a essere un cancro economico per gli effetti di dipendenza, come la monocultura) si porta dietro i processi di gentrificazione, di pulizia etnico-sociale dei centri storici, le politiche securitarie e “decoriste”. Chi ne beneficia? Settori produttivi che, sofferenti delle concorrenza della borghesia a vocazione europea, tentano una risalita con la messa a valore di tutto il possibile. Si tratta di settori produttivi che vivono spesso di rendita (spesso ci sono di mezzo le economie mafiose). La “turistizzazione” delle economie richiede bassa preparazione della sua manodopera che, benché laureata e con qualche certificazione linguistica, non viene certo utilizzata per le sue alte “skills”. La professionalizzazione della formazione ha in intere aree del paese questa dinamica appena descritta. Grosseto, Siena o Catania vivono da questo punto di vista le stesse dinamiche.

Chi rappresenta allora questi settori produttivi? Questo “governo del cambiamento”, che è in forma aggiornata quello berlusconiano (spazzato non a caso dai potentati europeisti). A quale blocco sociale fa riferimento? E come si cementifica questo blocco? La risposta non è difficile da leggere, se si guarda ai risultati della scorsa campagna elettorale e ai discorsi ideologici messo in atto. In questo senso, la fascistizzazione del discorso politico in Italia ha una funzione diversa da quella messa in atto in UE. I fascisti di Casa Pound e similari mirano a creare un blocco sociale (che fino ad ora è opera di Lega e 5 Stelle) con pezzi di popolazione impoverita e spesso sottoproletaria attorno a interessi di classe di borghesia in sofferenza.

Benché non sia compito di una recensione offrire conclusioni, ci sembra che la lotta contro i processi europei che creano frammentazione nel mondo del lavoro, nel nostro Paese debba tenere in conto dell’attuale fase che si è venuta a creare con questo nuovo blocco sociale.

La lotta è, evidentemente, al suo inizio.

Fonte

10/10/2018

Contro il ricatto del debito pubblico

Pubblichiamo di seguito il nostro contributo al testo “Giovani a sud della crisi”, curato dai compagni di Noi Restiamo, dove sono raccolti gli interventi del festival Collision // Rompere l’equilibrio. Nel ricatto del debito pubblico trovano una sintesi tutte le lotte che attendono i giovani della periferia d’Europa oggi: che fare?

I giovani a sud della crisi lottano ogni giorno per coltivare le loro aspirazioni, rivendicando un presente e un futuro che l’Europa della grande recessione sembra aver affossato definitivamente. Gli studenti medi si ribellano alla beffa dell’alternanza scuola/lavoro – che li vuole sfruttati fin dalla tenera età – mentre i più grandi combattono per sottrarsi al ricatto della disoccupazione, chiedono lavoro, una formazione universitaria di qualità, diritto allo studio e servizi sociali. La risposta che ricevono suona più o meno così: “Bellissime aspirazioni, ma c’è un problema: ognuno di voi nasce con 38.000 euro di debito pubblico sulle spalle, quindi scordatevi il presente, lasciate perdere il futuro e inventatevi qualcosa per iniziare a ripagarlo!”

È la narrazione dominante sul debito pubblico, che ci viene presentato come un mostro che cresce di 70.000 euro al minuto e sembra capace di divorare i sogni e le prospettive dei giovani, fomentando uno scontro intergenerazionale tra padri e figli: quel debito sarebbe il lascito dei nostri padri, che avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità lasciando a noi il conto salato della loro dissipatezza.

Se il problema è il debito pubblico, quale è la soluzione? Che fare?

Due sembrano essere le possibili risposte politiche. Una è la risposta del potere, l’austerità: dovete ripagare tutto, fino all’ultimo centesimo, con tagli alla spesa pubblica, lacrime e sangue sacrificando sull’altare del risanamento dei conti lo stato sociale ed i diritti conquistati. Dall’altra parte della barricata si fa strada l’idea che si debba combattere il mostro anziché arrendersi ad esso e finire schiavi: il ripudio del debito appare come l’unica reazione politica coerente con le lotte sociali di chi combatte per riprendersi il presente e il futuro. Piuttosto che sdebitarci rimpinguando le tasche di banche e speculatori, rispediamo il debito al mittente e andiamo avanti – come se il debito non ci fosse.

Se il problema del debito pubblico fosse il debito in sé, come ci raccontano ogni giorno, queste sarebbero effettivamente le uniche alternative politiche. Proveremo ad argomentare che così non è, e che un primo atto di resistenza necessario consiste proprio nel rifiuto della logica che ci viene imposta dalla classe dominante. Occorre mettere in chiaro che il debito pubblico rappresenta un fondamentale strumento di politica economica, necessario a garantire crescita e piena occupazione, e dunque appare ineliminabile nel disegno di un’alternativa alla crisi odierna. Per rialzarci non dobbiamo combattere il debito in sé ma il ricatto del debito, che ha le sue basi nell’attuale assetto politico ed istituzionale dell’Europa.

Perché esiste il debito pubblico? Quando le tasse non sono sufficienti a coprire le spese dello Stato, la parte di spesa eccedente le tasse – in gergo il deficit o disavanzo pubblico – deve essere finanziata tramite debito: lo Stato prende in prestito i soldi necessari. Storicamente, la necessità di finanziare i servizi pubblici ben oltre ciò che sarebbe consentito dalle sole entrate fiscali ha costretto tutti gli Stati a prendere in prestito parte delle risorse necessarie. D’altro canto basta guardarsi intorno: la Germania, modello di virtù e parsimonia, ha un debito pubblico di circa 2.000 miliardi di euro – pari al 70% del PIL, ossia pari a più di due terzi della produzione annuale del Paese. Le principali economie mondiali hanno tutte, invariabilmente, un consistente debito pubblico: dagli Stati Uniti, dove supera il 100% del PIL, al Giappone, dove si trova abbondantemente oltre il 200% del PIL, passando per l’Italia dove ammonta al 130% del PIL.

Dietro al debito pubblico, dunque, c’è l’accumulazione di disavanzi pubblici, e l’analisi economica ci insegna che il disavanzo pubblico genera reddito privato: il denaro che lo Stato spende per costruire una scuola, ad esempio, è il reddito di chi realizza quel lavoro, dall’architetto alla ditta di costruzioni, ma non solo; questi soggetti, a loro volta, spenderanno una parte di quel reddito in consumi, alimentando così un circolo virtuoso che produce altri redditi e stimola l’occupazione. In altre parole, la spesa pubblica in deficit è il motore della crescita e la condizione necessaria ad una politica di piena occupazione, perché quando la spesa pubblica eccede le tasse ciò significa che lo Stato sta aggiungendo risorse all’economia, stimolando consumi e investimenti. Tutto dobbiamo fare fuorché liberarci di questo fondamentale strumento di stimolo dell’economia: non è il debito pubblico, in sé, il nostro nemico – e di conseguenza non sono le generazioni passate ad averci condannato a questo presente di miseria e sfruttamento.

L’incubo di un debito pubblico che deve essere azzerato è una menzogna, una trappola ideologica che rappresenta il primo avamposto di chi ci vuole servi dell’austerità europea: il debito pubblico può infatti essere sempre ripagato tramite altro debito, e storicamente è sempre stato rifinanziato in questa maniera per due ragioni essenziali. In primo luogo perché, come abbiamo detto, la stessa spesa in deficit che crea quel debito fornisce uno stimolo decisivo all’economia e genera, corrispondentemente, extra reddito (privato). In questa maniera si creano i risparmi – cioè quella parte di reddito che non viene spesa e che quindi non contribuisce all’incremento di produzione e reddito – che potranno essere utilizzati per acquistare titoli pubblici. Lo Stato può così generalmente continuare a finanziare il proprio debito pubblico senza problemi sui mercati, perché se c’è una robusta spesa pubblica vi sarà sempre risparmio accumulato da prendere in prestito. Il debito pubblico crea, quindi, le condizioni affinché possa essere rifinanziato.

Anche se questo meccanismo fosse ostacolato da speculazioni finanziarie e turbolenze di breve periodo, c’è un ulteriore motivo per il quale possiamo affermare che il finanziamento del debito rappresenta un problema tutto politico e non, come vorrebbero farci credere, un problema di scarsità delle risorse: il debito pubblico può sempre essere finanziato dalla banca centrale. Questa particolare istituzione è l’autorità monetaria, cioè l’autorità che governa il sistema finanziario di un Paese e dunque detiene il potere di creare moneta, moneta con cui può finanziare il debito pubblico senza limiti semplicemente acquistando i titoli pubblici: dagli Stati Uniti al Giappone, il debito pubblico delle moderne economie capitalistiche è sempre stato reso sostenibile dalla mera cooperazione tra governi e banche centrali, con la creazione di moneta messa al servizio del finanziamento del debito pubblico senza produrre alcun problema di inflazione. Con l’adesione all’euro e l’istituzione della Banca Centrale Europea (BCE) abbiamo rinunciato ad una delle più importanti prerogative di uno Stato sovrano, la possibilità di emettere moneta, cosicché ciò che rappresentava il fisiologico funzionamento di una qualsiasi economia moderna – il costante rifinanziamento del debito pubblico – appare ora come una trappola infernale. L’altalena dello spread, le minacce dei mercati, l’instabilità finanziaria e la vulnerabilità agli attacchi speculativi derivano principalmente dalle scelte di politica monetaria della BCE, che impiega la sua autorità nel settore finanziario non per rendere possibili crescita e piena occupazione – come potrebbe e dovrebbe – ma per condizionare le scelte politiche dei governi nazionali e imporvi il disegno politico neoliberista. È questa la radice del ricatto del debito pubblico, ed il problema della scarsità di risorse che strangola l’Europa appare finalmente in tutta la sua natura politica: i soldi ci sono ma non ce li fanno toccare perché povertà, disoccupazione e precarietà sono formidabili strumenti di disciplina dei lavoratori, necessari a tenere in vita un modello economico e sociale basato sullo sfruttamento e incentrato sul profitto di pochi. Se dunque il problema non è il debito pubblico in sé, ma il ricatto del debito pubblico operato in Europa dalla BCE – che nega agli Stati la sua copertura finanziaria per condizionarne le scelte politiche – dobbiamo tornare sul piano politico per capire cosa possiamo fare, come agire, partendo da quelle che inizialmente sembravano le uniche due risposte possibili: austerità o ripudio.

Una volta abbandonato il punto di vista dominante, la stessa austerità si dimostra incapace di contenere il presunto mostro del debito pubblico: proprio perché il debito è uno strumento di crescita, la riduzione dei disavanzi pubblici attuata nell’Europa della disciplina di bilancio è la ragione principale dell’attuale prolungata crisi. In Grecia, dove l’austerità è stata applicata con maggiore decisione, il rapporto tra debito pubblico e PIL è cresciuto anziché ridursi, principalmente perché proprio l’austerità faceva cadere il PIL più di quanto potesse incidere sul livello del debito. Fuori dall’ideologia dominante sul debito pubblico, la realtà ha dimostrato che l’austerità non riesce neppure a contenere il peso del debito sull’economia.

Cosa possiamo opporre all’austerità? Il ripudio del debito pubblico è davvero la nostra arma migliore? Anzi, alla luce di questa breve analisi possiamo ancora ritenere che il ripudio sia realmente un’arma efficace contro il ricatto del debito?

Una risposta a questo quesito proviene dalla semplice osservazione dei fatti. Il ripudio del debito – lungi dall’essere un progetto utopistico rivoluzionario – è stato effettivamente praticato sotto il nostro naso, proprio al centro della crisi: la Grecia, nel 2012, ha cancellato più di 100 miliardi di euro di debito pubblico su un totale di 300 miliardi. Un terzo del debito pubblico cancellato con un tratto di penna, all’interno del programma di aggiustamento del paese concordato con i creditori e denominato PSI (Private Sector Involvement). Con quali effetti? Evidentemente nessuno: il proseguimento dell’austerità unito alla continua impossibilità di finanziare il debito pubblico attraverso la banca centrale ha in pochi mesi riportato il rapporto tra debito pubblico e PIL a superare il livello precedente al taglio del debito. Il ripudio, dunque, è stato messo in campo da chi questa crisi la gestisce dall’alto, viene oggi sostenuto con forza dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e non sembra produrre alcun ostacolo al massacro sociale e allo sfruttamento. Al contrario, diventa il pretesto per rafforzare gli impegni del Paese che riceve la grazia di un taglio (haircut) del debito: nell’anno del PSI la Grecia ha dovuto sottoscrivere un nuovo Memorandum of Understanding, ossia una serie di impegni all’abbattimento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.

Ma se il ripudio del debito è un vicolo cieco cosa ci resta per combattere l’austerità? Di nuovo, che fare?

La sinistra radicale negli ultimi trent’anni è stata egemonizzata dall’idea che – dopo la sconfitta subita negli anni Settanta e Ottanta e dopo la caduta del muro di Berlino – la lotta dovesse cambiare natura: non più una battaglia per prendere il potere, ma una polverizzazione delle ribellioni contro ogni forma di potere. Il ricatto del debito, che sta condannando i giovani a sud della crisi ad una lenta agonia, ci permette di cogliere tutta la debolezza di quella impostazione del radicalismo di sinistra: il potere, in questo caso, è rappresentato plasticamente dalla BCE, l’autorità monetaria che ha il dominio dei mercati finanziari. L’unica via d’uscita dal ricatto del debito consiste nello stravolgimento dell’attuale assetto politico europeo e nella riconquista del potere di finanziare liberamente il debito pubblico: il nuovo Palazzo d’Inverno nella lunga crisi europea si trova a Francoforte, e se non sapremo mettere in discussione l’Europa ed i suoi meccanismi disciplinanti non riusciremo mai a rimuovere la cappa che opprime le nostre più alte aspirazioni. È solo la lotta senza quartiere alle istituzioni europee, a partire dalla BCE, che può liberarci dal ricatto del debito. La proposta di ripudio del debito calza invece perfettamente con l’idea che l’unica strategia rivoluzionaria sia quella che si tiene alla larga dal potere: come se si potesse, al tempo stesso, promuovere la crescita e l’occupazione e rinunciare allo strumento della spesa pubblica in deficit. Pensiamo per un attimo a cosa accadrebbe se cancellassimo il debito pubblico dalla sera alla mattina senza mettere mano sulla BCE: per crescere avremmo bisogno di spesa pubblica in disavanzo, creeremmo immediatamente nuovo debito ma non sapremmo a chi piazzarlo, perché la BCE non sostiene l’indebitamento pubblico. Riprendendo il controllo della banca centrale, invece, non avremmo più alcun bisogno di cancellare il debito pubblico, perché avremmo il potere di rifinanziarlo continuamente creando nuova moneta.

Non possiamo più permetterci il lusso di ignorare il potere e le sue meccaniche. Per restituire una prospettiva concreta alle nostre rivendicazioni dobbiamo rompere l’equilibrio europeo che ha nella BCE il suo baricentro: il nostro futuro è ostaggio di vincoli politici imposti dall’Europa, vincoli contro cui si può e si deve lottare.

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