All’inizio di aprile sono entrati in vigore i nuovi dazi commerciali decisi dall’amministrazione Trump, ovvero un pacchetto piuttosto corposo di imposte sull’importazione di beni afferenti ad un numero ampio di settori merceologici, prodotti in vari paesi del mondo.
Una seconda ondata di aumenti sarebbe dovuta scattare nel volgere di pochi giorni, ma è stata poi all’improvviso sospesa per un periodo di 90 giorni (tutt’ora in vigore), durante il quale l’Amministrazione USA sta intavolando trattative con molti dei paesi coinvolti, tra cui l’Unione Europea. Restano in essere invece dazi molto alti sulle importazioni dalla Cina.
Per i paesi dell’Unione Europea, ad oggi, risultano in vigore dazi base al 10% su un numero amplissimo di prodotti, nonché dazi già varati nei mesi precedenti al 25% su acciaio, alluminio e automobili, a fronte di cui l’Unione aveva predisposto contro-dazi di entità pari a 22,6 miliardi. Questa contromisura, tuttavia, è stata sospesa una volta che Trump ha introdotto la proroga di 90 giorni, per favorire un negoziato tra le parti.
L’alternarsi di annunci e retromarce ha scosso i mercati finanziari, provocando forti oscillazioni e reazioni politiche. In Europa il dibattito sul tema è stato confuso e superficiale, ma ha evidenziato aspetti rilevanti.
Si è parlato molto dei motivi più importanti che avrebbero indotto il governo Trump a lanciare una linea protezionistica di politica commerciale: dall’esigenza di riequilibrare una bilancia commerciale cronicamente in deficit, al tentativo di rilocalizzare sul territorio statunitense parte dell’enorme quota di produzione delocalizzata all’estero, fino all’uso dei dazi come arma di trattativa e ricatto per ottenere altro.
Molto meno si è detto, e sempre in maniera superficiale e demagogica, dei profondi e radicati motivi che spiegano la diffusa ostilità e preoccupazione delle élite europee nei confronti di questa nuova fase delle relazioni commerciali internazionali.
È doverosa su questo aspetto una breve premessa. I danni economici dei dazi statunitensi in Europa e in Italia, nel breve periodo, ci saranno e saranno direttamente proporzionali alla loro entità. La diminuzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti non potrà che causare una riduzione di domanda non immediatamente compensabile con altri mercati e quindi di produzione, specialmente nei settori più esposti. Un recente rapporto Svimez per l’Italia ipotizzava una perdita di circa 54.000 posti di lavoro nell’ipotesi, per ora sospesa, di dazi al 20% sulla generalità dei prodotti. Sicuramente un impatto sociale rilevante e preoccupante.
Ma ovviamente non è questo aspetto socio-economico contingente, e che graverà sulle spalle di lavoratori e lavoratrici, il vero motivo di preoccupazione che anima politici, economisti mainstream e confindustriali. Il punto è, piuttosto, cosa comporterebbe l’uscita dal liberoscambismo per il capitale europeo che, proprio sul libero scambio e alcuni suoi corollari che proveremo a snocciolare, ha costruito la sua fortuna nell’ultimo trentennio e oltre.
A seconda delle contingenze storiche e internazionali, protezionismo e liberoscambismo vengono usati a correnti alterne dai paesi dominanti per rilanciare, mantenere o proteggere la supremazia del proprio sistema economico. Nelle fasi di consolidata supremazia commerciale industriale e tecnologica il libero scambio internazionale non fa altro che migliorare la posizione dei paesi più sviluppati che sbaragliano la concorrenza dei sistemi produttivi più deboli. Nelle fasi di perdita di competitività internazionale, invece, il protezionismo torna in auge per arginare il declino industriale e tecnologico, esattamente quanto accade oggi negli Stati Uniti.
Finché il liberoscambismo conviene, insomma, lo si pratica con passione e lo si sostiene ideologicamente con la narrazione di reciproci e inequivocabili vantaggi generali e interclassisti della cosiddetta globalizzazione. Una favola intessuta di ipocrisia, da brandire all’occorrenza per difendere gli interessi delle classi dominanti. Niente di nuovo sotto il sole. Ci sono però tre elementi fondamentali su cui è utile soffermarsi.
Il primo elemento, di una disarmante semplicità, risiede nel fatto che la concorrenza internazionale, nel mondo reale, avviene tra imprese che operano in sistemi normativi diversi. Ogni Stato ha diversi livelli salariali, diverse imposte che colpiscono il reddito d’impresa, diverse normative a tutela del lavoro e dell’ambiente. La concorrenza tra imprese a livello globale ha, da decenni, come leve fondamentali, il costo del lavoro e il livello dell’imposizione tributaria. Ciò comporta, di per sé, una fortissima pressione sulle imprese che operano con maggiori “costi sociali” e spinge inesorabilmente queste ultime ad esercitare su lavoratori e governi una pressione al ribasso su salari, diritti del lavoro e imposte. La stessa pressione verso il basso, del resto, si verifica sistematicamente a causa della libera circolazione dei capitali. La sola minaccia di delocalizzazione produttiva da parte delle imprese mette infatti lavoratori, sindacati e governi del paese di turno in una condizione di ricatto permanente, costringendoli ad accettare condizioni capestro (salariali, normative e fiscali) per non vedere migrare il capitale e con esso migliaia di posti di lavoro e di gettito tributario.
Insomma, il libero scambio internazionale, da che capitalismo è capitalismo, si esercita in primo luogo attraverso una continua corsa al ribasso su salari, diritti, fiscalità delle fasce di reddito più ricche e normative di tutela sociale. Si tratta di una storia che nel contesto dell’Unione Europea conosciamo bene.
Inoltre, sono altre due le tessere essenziali del puzzle del libero scambio e riguardano il ruolo delle esportazioni e delle importazioni come valvola di sfogo del conflitto di classe.
Le importazioni, da un lato, consentono ai percettori di bassi redditi del mondo più ricco di acquistare merci prodotte a bassissimo costo tramite lo sfruttamento del lavoro nei paesi poveri. Ciò, in una certa misura, permette ai già vessati salari reali dei paesi più ricchi di accedere comunque a consumi che, a prezzi più alti, sarebbero loro negati.
Dall’altro lato, le esportazioni consentono di ridurre la portata di una delle più eclatanti contraddizioni del capitalismo: quella per cui comprimendo i salari al massimo i capitalisti segano lo stesso ramo su cui siedono, poiché una caduta dei salari (data una maggior propensione al consumo dei redditi medio-bassi rispetto a quelli alti) significa anche una caduta della domanda aggregata di beni e servizi e dunque della possibilità di vendere e fare profitti. La strategia di violenta compressione salariale e di austerità, quindi di tagli alla spesa pubblica, seguita dall’Unione Europea ha avuto bisogno di un generale regime liberoscambista affinché la debole domanda interna, vessata da bassi salari e domanda pubblica inesistente, venisse sostituita da una quanto più copiosa domanda estera. Un’economia a forte vocazione esportatrice può infatti permettersi la compressione salariale e similmente la compressione della spesa pubblica, risentendo assai meno del problema della carenza della domanda aggregata che verrà comunque garantita dagli acquisti esteri.
Una riduzione delle esportazioni legata ai dazi metterebbe almeno in parte in crisi questo schema.
Inoltre, nella misura in cui i dazi introdotti da un lato della barricata richiamano, come del resto avvenuto, contro-dazi di risposta legati ad esigenze di bilancia commerciale e di opportunità politica, si porrebbe il problema del rincaro delle importazioni, che farebbe venire a galla un altro nodo cruciale delle politiche europee: la totale assenza di una politica industriale di sviluppo e sostegno di settori strategici e-o a forte rilevanza sociale. Per i paesi europei, in sostanza, a causa di una politica che ha da trent’anni fanaticamente cancellato il ruolo dell’intervento pubblico di regolazione e direzione dell’economia, sarebbe estremamente difficile praticare una linea di sostituzione delle importazioni tramite produzione interna. Basti pensare alla totale assenza di un’industria domestica dei software e dei sistemi informatici, al declino di decine di settori industriali o ancora alla totale dipendenza energetica. Tutte conseguenze della dismissione del ruolo dello Stato dall’economia: un altro frutto avvelenato, ma assai desiderato dai padroni, del liberismo e dell’austerità.
Una stagione in cui il liberoscambismo venga messo in discussione, dunque, sta chiaramente allarmando le élite europee, preoccupate di veder messa in difficoltà la linfa dei loro profitti, dopo aver per decenni spremuto salari e diritti dei lavoratori e determinato la contrazione della domanda domestica, tanto tramite la riduzione della componente pubblica (spesa pubblica) che di quella privata (consumi e investimenti).
Solo e soltanto per questa somma di motivi – non certo per i timori di un relativamente modesto calo del PIL e di un pur preoccupante aumento temporaneo della disoccupazione – si levano oggi le grida allarmate di politici, economisti e commentatori vari nei confronti del neo-protezionismo nord-americano.
Alla classe lavoratrice, ora come sempre, spetta il compito di non illudersi che diversi tipi di regimi commerciali in quanto tali possano automaticamente garantirle futuri più rosei di quelli conosciuti fin qui. Un regime che garantisca la piena occupazione e una migliore e più equa distribuzione del reddito necessita di una messa in discussione generale e complessiva del funzionamento dell’economia interna e degli scambi con l’estero e della costruzione di un sistema economico nuovo, ma solo la riorganizzazione delle lotte sociali può avvicinarci a questo obiettivo. Non vi sono scorciatoie, tanto meno ne verranno da settori del capitale, in qualsiasi parte del mondo essi risiedano.
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09/05/2025
01/11/2019
Algeria - La prova di forza dell’Hirak
Venerdì 1 novembre sarà con ogni probabilità il punto di svolta della nuova fase delle mobilitazioni popolari nel Paese del Maghreb. La data del Primo Novembre è fortemente evocativa per il popolo algerino, perché in questa giornata nel 1954 iniziò la Lotta di Liberazione Nazionale con numerose azioni armate su tutto il territorio, prima tappa di una lunga battaglia che porterà l’Algeria all’Indipendenza 8 anni dopo, fine di 132 di colonizzazione francese.
Ma il trait-d’union tra passato e presente, soprattutto per le nuove generazioni – che sono la punta di lancia della protesta – è dato dalla presenza attiva nell’Hirak di due figure storiche dell’insurrezione, ormai ottuagenarie. Si tratta di Lakhdar Bouregâa e Djamila Bouhired.
Il primo, 86 anni, ex ufficiale dell’ala militare del FLN durante la lotta armata, si trova in un carcere militare dal 30 giugno, per la sua analisi impietosa della situazione politica ed il suo appoggio all’Hirak. La sua liberazione, insieme a quella di circa un centinaio di prigionieri politici e d’opinione, è richiesta dal movimento popolare ed il suo nome è scandito a gran voce in tutte le mobilitazioni successive al suo arresto.
Il 22 ottobre, all’udienza del processo, si è rifiutato di rispondere alle domande postegli dal giudice ed ha invece reiterato il suo sostegno all’Hirak e alle sue ragioni, rivolgendosi alla corte con queste parole: “voi non siete una giustizia indipendente e non applicate la legge”. L’ex combattente ha rivitalizzato i “processi di rottura” che attuavano i patrioti algerini nel ’57-’58 e che faranno divenire questa pratica un metodo dei movimenti rivoluzionari in tutto il mondo. Ad inizio ottobre si è dichiarato pronto allo sciopero della fame se fosse stato lanciato dagli altri detenuti, ed ha dichiarato che avrebbe rifiutato la sua eventuale scarcerazione se non fosse avvenuta contestualmente alla scarcerazione degli altri detenuti dell’Hirak.
Djamila Bouhired è una delle combattenti del FLN più conosciute in patria e all’estero. Condannata a morte quando aveva 22 anni – accolse la sentenza con una risata – venne graziata a 24, ma con il carcere a vita, in seguito ad una campagna internazionale per la sua liberazione.
Dopo il suo silenzio successivo all’indipendenza, è scesa in piazza il Primo marzo – il secondo venerdì dell’Hirak iniziato il 22 febbraio – immergendosi tra la marea umana verso piazza Maurice Audin, dal nome del martire comunista algerino torturato a morte nel ’57 dai parà francesi e “scomparso” insieme a circa un altro migliaio di algerini cui è stata riservata la stessa sorte, come ha evidenziato una recente progetto di ricerca storica.
Djamila ha preso pubblicamente posizione con l’Hirak, dichiarando che l’attuale lotta delle giovani generazioni algerine è in continuità con quella che loro fecero ai tempi della Lotta di Liberazione Nazionale ed ha esortato i giovani a non farsi “rubare” la propria protesta da chi vuole perpetuare il sistema.
Un altro elemento di continuità con quella che fu la lotta storica del popolo algerino per la propria indipendenza è l’attivazione della diaspora in Francia, ma non solo.
In molte città dell’Esagono, in particolare Parigi e Marsiglia, la “comunità algerina” manifesta tutte le domeniche il sostegno all’Hirak ed ha letteralmente invaso le strade e le piazze francesi in occasione dei festeggiamenti per le vittorie della nazionale calcistica questa estate nella Coppa d’Africa. Una squadra che per le sue posizioni di appoggio alle mobilitazioni popolari e alla lotta del popolo palestinese, da parte soprattutto di alcuni suoi giocatori, si è dimostrata degna erede degli “Undici dell’Indipendenza” che fecero da ambasciatori sportivi della lotta del FLN prima dell'indipendenza.
A Parigi tutto il variegato mondo politico ed associativo della diaspora ha fatto appello per la partecipazione alla manifestazione nella capitale francese che nell’appello dei suoi promotori è stata definita: “tsunami popolare” che faccia propri gli obiettivi dell’Hirak tra cui la “realizzazione di uno stato democratico e sociale”.
È dai tempi della creazione dell'”Etoile Noire”, tra le due guerre mondiali, che la mobilitazione della popolazione algerina in Francia è un fattore decisivo per la conquista dei principali obbiettivi del popolo algerino tutto.
La mobilitazione del primo novembre, 37esimo venerdì di protesta dell’Hirak, è stata preceduta da importanti mobilitazioni di parti importanti della società civile – come avvocati e giudici, in sciopero nei giorni scorsi – del movimento operaio organizzato che lunedì 24 ottobre ha visto un partecipato sciopero indetto dal Coordinamento dei Sindacati Autonomi (che raggruppa 13 sigle sindacali), sostenuto dall’opposizione politica del PAD, il Patto per l’Alternativa Democratica. Martedì una mobilitazione massiccia degli studenti ha sfidato un impressionante dispiegamento delle forze dell’ordine, per sfilare per le strade con l’Hirak, che questa settimana è entrato nel nono mese di vita.
Vista la censura mediatica e la stigmatizzazione negativa degli uomini più in vista del “Sistema” – l’ultimo dei quali, il Presidente ad interim Bensalah, che ha rassicurato Putin affermando che la situazione è sotto controllo e che a scendere in strada è una minoranza (!) – è stata lanciata una campagna sui social, in cui a singoli o in gruppi si esprime il proprio consenso all’Hirak e si dice che si parteciperà alla manifestazioni del Primo Novembre, promettendo di “invadere” pacificamente Algeri, nonostante filtri e proibizioni crescenti da parte delle forze dell’ordine che hanno caratterizzato gli ultimi mesi.
Le mobilitazioni algerine non sono dirette solo contro un “governo provvisorio” che eternizza la sua esistenza e che ha proclamato le elezioni presidenziali – rimandate già due volte quest’anno nel Paese – per il 12 dicembre come output dell’attuale crisi politica, ma senza avere predisposto alcuna transizione reale e senza accogliere alcuna richiesta anche minima della piazza, mettendo due candidati del “Sistema” come maggiormente favoriti, nonché di fatto unici competitor.
Le ragioni politico-sociali non sono solo “generalmente” legate ad un cambio del sistema di rappresentanza, ma ai contenuti delle politiche di un governo illegittimo agli occhi del Paese e che cerca di trascinarlo in una maggiore povertà, regalandolo agli “investitori” stranieri – in particolare dell’UE – e minandone le possibilità di uno sviluppo economico che garantisca un benessere diffuso.
Il budget per l’anno prossimo venturo è una “finanziaria” di austerità e di precarietà che apre tra l’altro agli investimenti esteri – abolendo la regola del 51/49 per cento per i settori non strategici, che obbliga ad una partnership economica a maggioranza autoctona – e alla possibilità di “indebitarsi” con Paesi ed Istituzioni internazionali. Mentre la contestatissima nuova legge sugli idrocarburi apre la strada per lo sfruttamento dei nuovi siti da parte di attori politici francesi come Total e nord-americani come Exxon-Mobile. Infine, ma non meno importante, l’inaugurazione il primo gennaio del prossimo anno di una “zona di libero scambio” tra UE ed Algeria, che approfondisce l’assimettria e la dipendenza tra i due attori economici avviata nel 2005 con l’accordo di “associazione”.
Questa zona che avrà un periodo di transizione di 12 anni, comporterà dal primo gennaio la possibilità di importazione senza limiti ed esentasse delle merci prodotte dall’UE, senza che nelle 110 clausole siano state veramente contemplate le istanze di cooperazione e transfert tecnologico, né la libera circolazione delle persone che alcuni auspicavano.
Rischia dunque di trasformarsi in una catastrofe per la già depauperata economia algerina, ancorata solo all’esportazione di idrocarburi.
Alcuni dati danno il senso del già profondo disequlibrio: l’Algeria importa il 60 per cento dei suoi prodotti dalla UE, e tra il 2005 al 2017 – tranne che per gli idrocarburi – ha “esportato” merci per un valore di 12 miliardi di Dollari dalla UE, mentre ne ha importate per 283 miliardi di dollari!
Questo mese e mezzo che separerà la manifestazione del Primo Novembre dalle previste elezioni presidenziali sarà decisivo per capire la capacità di tenuta dell’attuale blocco di potere, in assoluta continuità con il “sistema Bouteflika”, che ha governato il Paese per circa un ventennio dalla fine del Decennio Nero degli anni '90 ad oggi, e che ora rischia di legittimare le politiche neo-coloniali della UE e lo strozzinaggio del FMI.
Ancora oggi, come nel 1954, il popolo algerino sfida un assetto che si crede immutabile, ma oggi come allora il mondo sta mutando e gli assetti neo-liberali traballano.
Fonte
Ma il trait-d’union tra passato e presente, soprattutto per le nuove generazioni – che sono la punta di lancia della protesta – è dato dalla presenza attiva nell’Hirak di due figure storiche dell’insurrezione, ormai ottuagenarie. Si tratta di Lakhdar Bouregâa e Djamila Bouhired.
Il primo, 86 anni, ex ufficiale dell’ala militare del FLN durante la lotta armata, si trova in un carcere militare dal 30 giugno, per la sua analisi impietosa della situazione politica ed il suo appoggio all’Hirak. La sua liberazione, insieme a quella di circa un centinaio di prigionieri politici e d’opinione, è richiesta dal movimento popolare ed il suo nome è scandito a gran voce in tutte le mobilitazioni successive al suo arresto.
Il 22 ottobre, all’udienza del processo, si è rifiutato di rispondere alle domande postegli dal giudice ed ha invece reiterato il suo sostegno all’Hirak e alle sue ragioni, rivolgendosi alla corte con queste parole: “voi non siete una giustizia indipendente e non applicate la legge”. L’ex combattente ha rivitalizzato i “processi di rottura” che attuavano i patrioti algerini nel ’57-’58 e che faranno divenire questa pratica un metodo dei movimenti rivoluzionari in tutto il mondo. Ad inizio ottobre si è dichiarato pronto allo sciopero della fame se fosse stato lanciato dagli altri detenuti, ed ha dichiarato che avrebbe rifiutato la sua eventuale scarcerazione se non fosse avvenuta contestualmente alla scarcerazione degli altri detenuti dell’Hirak.
Djamila Bouhired è una delle combattenti del FLN più conosciute in patria e all’estero. Condannata a morte quando aveva 22 anni – accolse la sentenza con una risata – venne graziata a 24, ma con il carcere a vita, in seguito ad una campagna internazionale per la sua liberazione.
Dopo il suo silenzio successivo all’indipendenza, è scesa in piazza il Primo marzo – il secondo venerdì dell’Hirak iniziato il 22 febbraio – immergendosi tra la marea umana verso piazza Maurice Audin, dal nome del martire comunista algerino torturato a morte nel ’57 dai parà francesi e “scomparso” insieme a circa un altro migliaio di algerini cui è stata riservata la stessa sorte, come ha evidenziato una recente progetto di ricerca storica.
Djamila ha preso pubblicamente posizione con l’Hirak, dichiarando che l’attuale lotta delle giovani generazioni algerine è in continuità con quella che loro fecero ai tempi della Lotta di Liberazione Nazionale ed ha esortato i giovani a non farsi “rubare” la propria protesta da chi vuole perpetuare il sistema.
Un altro elemento di continuità con quella che fu la lotta storica del popolo algerino per la propria indipendenza è l’attivazione della diaspora in Francia, ma non solo.
In molte città dell’Esagono, in particolare Parigi e Marsiglia, la “comunità algerina” manifesta tutte le domeniche il sostegno all’Hirak ed ha letteralmente invaso le strade e le piazze francesi in occasione dei festeggiamenti per le vittorie della nazionale calcistica questa estate nella Coppa d’Africa. Una squadra che per le sue posizioni di appoggio alle mobilitazioni popolari e alla lotta del popolo palestinese, da parte soprattutto di alcuni suoi giocatori, si è dimostrata degna erede degli “Undici dell’Indipendenza” che fecero da ambasciatori sportivi della lotta del FLN prima dell'indipendenza.
A Parigi tutto il variegato mondo politico ed associativo della diaspora ha fatto appello per la partecipazione alla manifestazione nella capitale francese che nell’appello dei suoi promotori è stata definita: “tsunami popolare” che faccia propri gli obiettivi dell’Hirak tra cui la “realizzazione di uno stato democratico e sociale”.
È dai tempi della creazione dell'”Etoile Noire”, tra le due guerre mondiali, che la mobilitazione della popolazione algerina in Francia è un fattore decisivo per la conquista dei principali obbiettivi del popolo algerino tutto.
La mobilitazione del primo novembre, 37esimo venerdì di protesta dell’Hirak, è stata preceduta da importanti mobilitazioni di parti importanti della società civile – come avvocati e giudici, in sciopero nei giorni scorsi – del movimento operaio organizzato che lunedì 24 ottobre ha visto un partecipato sciopero indetto dal Coordinamento dei Sindacati Autonomi (che raggruppa 13 sigle sindacali), sostenuto dall’opposizione politica del PAD, il Patto per l’Alternativa Democratica. Martedì una mobilitazione massiccia degli studenti ha sfidato un impressionante dispiegamento delle forze dell’ordine, per sfilare per le strade con l’Hirak, che questa settimana è entrato nel nono mese di vita.
Vista la censura mediatica e la stigmatizzazione negativa degli uomini più in vista del “Sistema” – l’ultimo dei quali, il Presidente ad interim Bensalah, che ha rassicurato Putin affermando che la situazione è sotto controllo e che a scendere in strada è una minoranza (!) – è stata lanciata una campagna sui social, in cui a singoli o in gruppi si esprime il proprio consenso all’Hirak e si dice che si parteciperà alla manifestazioni del Primo Novembre, promettendo di “invadere” pacificamente Algeri, nonostante filtri e proibizioni crescenti da parte delle forze dell’ordine che hanno caratterizzato gli ultimi mesi.
Le mobilitazioni algerine non sono dirette solo contro un “governo provvisorio” che eternizza la sua esistenza e che ha proclamato le elezioni presidenziali – rimandate già due volte quest’anno nel Paese – per il 12 dicembre come output dell’attuale crisi politica, ma senza avere predisposto alcuna transizione reale e senza accogliere alcuna richiesta anche minima della piazza, mettendo due candidati del “Sistema” come maggiormente favoriti, nonché di fatto unici competitor.
Le ragioni politico-sociali non sono solo “generalmente” legate ad un cambio del sistema di rappresentanza, ma ai contenuti delle politiche di un governo illegittimo agli occhi del Paese e che cerca di trascinarlo in una maggiore povertà, regalandolo agli “investitori” stranieri – in particolare dell’UE – e minandone le possibilità di uno sviluppo economico che garantisca un benessere diffuso.
Il budget per l’anno prossimo venturo è una “finanziaria” di austerità e di precarietà che apre tra l’altro agli investimenti esteri – abolendo la regola del 51/49 per cento per i settori non strategici, che obbliga ad una partnership economica a maggioranza autoctona – e alla possibilità di “indebitarsi” con Paesi ed Istituzioni internazionali. Mentre la contestatissima nuova legge sugli idrocarburi apre la strada per lo sfruttamento dei nuovi siti da parte di attori politici francesi come Total e nord-americani come Exxon-Mobile. Infine, ma non meno importante, l’inaugurazione il primo gennaio del prossimo anno di una “zona di libero scambio” tra UE ed Algeria, che approfondisce l’assimettria e la dipendenza tra i due attori economici avviata nel 2005 con l’accordo di “associazione”.
Questa zona che avrà un periodo di transizione di 12 anni, comporterà dal primo gennaio la possibilità di importazione senza limiti ed esentasse delle merci prodotte dall’UE, senza che nelle 110 clausole siano state veramente contemplate le istanze di cooperazione e transfert tecnologico, né la libera circolazione delle persone che alcuni auspicavano.
Rischia dunque di trasformarsi in una catastrofe per la già depauperata economia algerina, ancorata solo all’esportazione di idrocarburi.
Alcuni dati danno il senso del già profondo disequlibrio: l’Algeria importa il 60 per cento dei suoi prodotti dalla UE, e tra il 2005 al 2017 – tranne che per gli idrocarburi – ha “esportato” merci per un valore di 12 miliardi di Dollari dalla UE, mentre ne ha importate per 283 miliardi di dollari!
Questo mese e mezzo che separerà la manifestazione del Primo Novembre dalle previste elezioni presidenziali sarà decisivo per capire la capacità di tenuta dell’attuale blocco di potere, in assoluta continuità con il “sistema Bouteflika”, che ha governato il Paese per circa un ventennio dalla fine del Decennio Nero degli anni '90 ad oggi, e che ora rischia di legittimare le politiche neo-coloniali della UE e lo strozzinaggio del FMI.
Ancora oggi, come nel 1954, il popolo algerino sfida un assetto che si crede immutabile, ma oggi come allora il mondo sta mutando e gli assetti neo-liberali traballano.
Fonte
30/03/2018
Libero scambio tra i paesi africani, ma non tutti ci stanno
Il trentesimo summit dell’Unione Africana (UA) tenutosi ad Addis Abeba a fine gennaio ha avuto un seguito.
Qualche giorno fa, in Ruanda, è stato siglato un accordo che da il via libera a una zona di libero scambio in Africa. Protagonisti i leader del Ruanda (Kagame) e quello del Ciad (Faki).
Il primo aveva presieduto il vertice di Addis Abeba, il secondo presiede invece la Commissione dell’Unione.
Come sempre accade in questi casi il diavolo potrebbe nascondersi nei dettagli; più precisamente andrebbe visto chi ci guadagna e chi ci rimette, o comunque teme che i danni superino i benefici.
Non basta infatti sottolineare che, sulla carta, gli scambi economici in atto tra le nazioni africane rappresentano meno di 1/5 del totale e che quindi l’operazione pare effettivamente in grado di ridurre la dipendenza dei paesi dai finanziamenti internazionali.
A cancellare il dubbio che tale operazione possa essere magari bypassata con qualche escamotage dai paesi più ricchi sarebbe allora ancora più interessante l’adozione concreta di un altro provvedimento, previsto nel quadro di una riforma più generale, volto ad introdurre una tassa dello 0,2% su determinate importazioni, al fine di potenziare l’autonomia economica della UA.
Resta peraltro il nodo politico. Anche se ben 44 paesi hanno aderito all’accordo, su di esso pesa come un macigno il fatto che se ne sia tirata fuori la più consistente potenza petrolifera del continente, la Nigeria, timorosa che una accentuata concorrenza dei vicini indebolisca la crescita di un Pil peraltro accompagnato da pesanti diseguaglianze.
Ma anche l’assenza di altre nazioni è indicativo di come i problemi del continente siano lontani da un decisivo punto di svolta e che la loro natura politica sia in grado di neutralizzare all’atto pratico i benefici del provvedimento adottato il 21 marzo.
A parte dunque i timori della potenza nigeriana, vediamo che negli altri paesi che si sono rifiutati di firmare è ricorrente una situazione di guerra e di miseria. Esemplare la situazione della Sierra Leone che, appena uscita dalla pestilenza dell’Ebola, si è trovata a fare i conti con gli scontri militari di chi è interessato alla appetitosa consistenza diamantifera del paese. E di diamanti è ricca pure la Namibia, altro paese non sottoscrittore, che evidentemente preferisce far da sé.
Un paese ai confini con le emergenze belliche è il Burundi (anche lui non sottoscrittore), che risente della vicinanza con il Congo e le sue tragedie infinite.
D’altronde, anche tra chi ha sottoscritto l’accordo, è pensabile che i così detti “dolci costumi” del commercio internazionale, evocati da Montesquieu, siano in grado di sopire il fragore delle armi (come nella Repubblica Centroafricana e nel Congo medesimo)? O non avverrà piuttosto che, altrove, il libero mercato possa innescare inizialmente una aspra competizione non violenta destinata però sul lungo periodo a ripercussioni di ordine militare, magari sobillate da qualche ex colonizzatore dell’occidente già presente su molti territori in assetto armato e con ripetute ingerenze.
E infine, sarà possibile in questo modo rompere l’isolamento di un paese alla fame come l’Eritrea, sempre al vertice nel numero di migranti che cercano protezione in Italia; ancora dentro ai meccanismi della guerra, sia pure fredda, con l’Etiopia, oltre che leader nella violazione dei diritti umani? Oppure il suo ruolo di Corea del Nord africana, lo spingerà a trovare partnership non raccomandabili di altro genere, come pare stia già facendo coi sauditi?
Tutti interrogativi che la svolta recente della UA lascia aperti. Con un briciolo di ottimismo si potrebbe pensare che l’accordo possa comunque servire a smuovere le acque di una situazione mefitica e paludosa.
Ma incombe sulla previsione degli ottimisti il giudizio tagliente che della UA fornisce Domenico Quirico. Il giornalista de La Stampa, già sequestrato dall’Isis e conoscitore della zona, che dell’Unione e della sua gestione dice peste e corna, sottolineando la diffusione al suo interno di macroscopici fenomeni di corruzione e ritenendola subordinata a interessi che poco hanno a che fare con quelli delle genti che dovrebbe tutelare.
Peraltro, anche di corruzione il summit aveva discusso, facendo i conti coi dati di Transparency International che indicano la Somalia, il Sud Sudan, la Libia e la Guinea Bissau, rispettivamente ai posti n. 176, 175, 170, e 168 in materia, vale a dire tra i più corrotti al mondo.
La speranza è venuta da Botswana,(n.35), Capo Verde (38) e Maurizio (50), i paesi meno corrotti del continente; una speranza che l’esempio dia i frutti desiderati da chi ama l’Africa.
Fonte
Qualche giorno fa, in Ruanda, è stato siglato un accordo che da il via libera a una zona di libero scambio in Africa. Protagonisti i leader del Ruanda (Kagame) e quello del Ciad (Faki).
Il primo aveva presieduto il vertice di Addis Abeba, il secondo presiede invece la Commissione dell’Unione.
Come sempre accade in questi casi il diavolo potrebbe nascondersi nei dettagli; più precisamente andrebbe visto chi ci guadagna e chi ci rimette, o comunque teme che i danni superino i benefici.
Non basta infatti sottolineare che, sulla carta, gli scambi economici in atto tra le nazioni africane rappresentano meno di 1/5 del totale e che quindi l’operazione pare effettivamente in grado di ridurre la dipendenza dei paesi dai finanziamenti internazionali.
A cancellare il dubbio che tale operazione possa essere magari bypassata con qualche escamotage dai paesi più ricchi sarebbe allora ancora più interessante l’adozione concreta di un altro provvedimento, previsto nel quadro di una riforma più generale, volto ad introdurre una tassa dello 0,2% su determinate importazioni, al fine di potenziare l’autonomia economica della UA.
Resta peraltro il nodo politico. Anche se ben 44 paesi hanno aderito all’accordo, su di esso pesa come un macigno il fatto che se ne sia tirata fuori la più consistente potenza petrolifera del continente, la Nigeria, timorosa che una accentuata concorrenza dei vicini indebolisca la crescita di un Pil peraltro accompagnato da pesanti diseguaglianze.
Ma anche l’assenza di altre nazioni è indicativo di come i problemi del continente siano lontani da un decisivo punto di svolta e che la loro natura politica sia in grado di neutralizzare all’atto pratico i benefici del provvedimento adottato il 21 marzo.
A parte dunque i timori della potenza nigeriana, vediamo che negli altri paesi che si sono rifiutati di firmare è ricorrente una situazione di guerra e di miseria. Esemplare la situazione della Sierra Leone che, appena uscita dalla pestilenza dell’Ebola, si è trovata a fare i conti con gli scontri militari di chi è interessato alla appetitosa consistenza diamantifera del paese. E di diamanti è ricca pure la Namibia, altro paese non sottoscrittore, che evidentemente preferisce far da sé.
Un paese ai confini con le emergenze belliche è il Burundi (anche lui non sottoscrittore), che risente della vicinanza con il Congo e le sue tragedie infinite.
D’altronde, anche tra chi ha sottoscritto l’accordo, è pensabile che i così detti “dolci costumi” del commercio internazionale, evocati da Montesquieu, siano in grado di sopire il fragore delle armi (come nella Repubblica Centroafricana e nel Congo medesimo)? O non avverrà piuttosto che, altrove, il libero mercato possa innescare inizialmente una aspra competizione non violenta destinata però sul lungo periodo a ripercussioni di ordine militare, magari sobillate da qualche ex colonizzatore dell’occidente già presente su molti territori in assetto armato e con ripetute ingerenze.
E infine, sarà possibile in questo modo rompere l’isolamento di un paese alla fame come l’Eritrea, sempre al vertice nel numero di migranti che cercano protezione in Italia; ancora dentro ai meccanismi della guerra, sia pure fredda, con l’Etiopia, oltre che leader nella violazione dei diritti umani? Oppure il suo ruolo di Corea del Nord africana, lo spingerà a trovare partnership non raccomandabili di altro genere, come pare stia già facendo coi sauditi?
Tutti interrogativi che la svolta recente della UA lascia aperti. Con un briciolo di ottimismo si potrebbe pensare che l’accordo possa comunque servire a smuovere le acque di una situazione mefitica e paludosa.
Ma incombe sulla previsione degli ottimisti il giudizio tagliente che della UA fornisce Domenico Quirico. Il giornalista de La Stampa, già sequestrato dall’Isis e conoscitore della zona, che dell’Unione e della sua gestione dice peste e corna, sottolineando la diffusione al suo interno di macroscopici fenomeni di corruzione e ritenendola subordinata a interessi che poco hanno a che fare con quelli delle genti che dovrebbe tutelare.
Peraltro, anche di corruzione il summit aveva discusso, facendo i conti coi dati di Transparency International che indicano la Somalia, il Sud Sudan, la Libia e la Guinea Bissau, rispettivamente ai posti n. 176, 175, 170, e 168 in materia, vale a dire tra i più corrotti al mondo.
La speranza è venuta da Botswana,(n.35), Capo Verde (38) e Maurizio (50), i paesi meno corrotti del continente; una speranza che l’esempio dia i frutti desiderati da chi ama l’Africa.
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