È vero, ci capita di ricorrere spesso alla frase: “dio confonde coloro che vuol perdere”. Ma ne siamo obbligati da quel che quasi ogni giorno vediamo fare ai principali “leader” europei. E dire che per fortuna siamo atei...
La Francia, due giorni fa, ha ospitato il vertice dei “volenterosi” ed è il paese che più sta spingendo – insieme a quell’altro accecato dell’inglese Starmer, che si ritrova con la vicepremier dimissionaria, Angela Rayner, e un rimpasto per sostituire anche la cancelliera al Tesoro, Rachel Reeve – per inviare soldati in Ucraina. Ben sapendo, anche prima che lo dicesse Putin, che sarebbero ovviamente considerati “un bersaglio legittimo”.
Non si tratterebbe infatti di una “missione di pace” o di “interposizione” (cosa che richiede il consenso di entrambe le parti in conflitto), ma di una integrazione a supporto dell’esercito di Kiev, ossia di una delle due parti in conflitto. Di fatto, insomma, una dichiarazione di guerra alla Russia.
È un’intenzione purtroppo seria, tanto che il governo di Bayrou-Macron, al pari di quello tedesco, ha già allertato gli ospedali perché si attrezzino a ricevere centinaia di militari feriti al giorno, a partire dalla primavera 2026.
Ecco, in una situazione del genere – e dando per scontato che il lettore sappia quanto siamo contro la guerra imperialista e i suoi cultori – uno si aspetterebbe che il governo o il presidente di quel paese che si prepara a una guerra si comportino con serietà, pensando a come preparare la popolazione o almeno guadagnarsene il consenso. Magari “lisciando il pelo” dell’opinione pubblica...
Neanche per sogno. Le conseguenze (intanto quelle ospedaliere, con ulteriore stress della sanità pubblica) di un’avventura guerrafondaia sono tenute strettamente secretate (la prima denuncia pubblica è arrivata da una rivista satirica come Le Canard Enchainé), mentre il governo affronta lunedì un voto di fiducia probabilmente fatale davanti a un’Assemblea Nazionale in cui non ha mai avuto la maggioranza, ricorrendo sempre a “tappabuchi” imprestati da repubblicani, “socialisti”, fascisti lepenisti.
Del resto la questione su cui è posta la fiducia è totalmente impopolare. Bayrou propone infatti di tagliare 43,8 miliardi di euro dal bilancio del prossimo anno, operazione che egli definisce necessaria per ridurre il pesantissimo deficit di bilancio della Francia.
Quindi, qual è la preoccupazione principale del banchiere presidente della Republique?
Ma è ovvio! Avere comunque un governo in carica già dal giorno dopo la probabile sfiducia, in modo da reprimere il più possibile le manifestazioni annunciate per lo sciopero generale proclamato il 18 settembre dai sindacati.
Racconta POLITICO – una testata Usa peraltro decisamente pro-establishment – che “Emmanuel Macron vuole muoversi rapidamente per nominare un nuovo primo ministro a seguito del probabile crollo del governo, lunedì”, perché “L’obiettivo è avere il sostituto di François Bayrou pronto prima del 18 settembre, quando molti dei maggiori sindacati del paese prevedono di proclamare uno sciopero”.
Ce ne sarebbe uno anche il 10 settembre, ma si tratta di una mobilitazione promossa “dal basso” tramite appelli online, considerata di “sinistra radicale”, potenzialmente occasione di scontri ma numericamente snobbata dall’Eliseo...
Quello del 18 invece è il classico sciopero alla francese: di massa, pressoché totale, e soprattutto di una durata non prestabilita. Tutti gli spioni del governo starebbero infatti “diventando matti” per capire se è previsto un proseguimento anche per il 19 o addirittura il 20. Una prospettiva catastrofica, visto che tra le categorie protagoniste ci saranno certamente ferrovieri, addetti ai trasporti, insegnanti, controllori del traffico aereo, compagnia di bandiera, dipendenti pubblici in genere...
Praticamente la paralisi, con un governo vicino alle dimissioni (Bayrou, se dovesse reggere fino a quel giorno) o chiamato a fare il Noske della situazione appena insediato (e manca ancora un nome, un boia, che si candidi a questo ruolo).
Volontà di andare in una guerra suicida e di tenere sotto il tallone di ferro la popolazione in casa propria. A questo è ormai ridotta la più antica e credibile delle “democrazie europee”.
Se non sono accecati da un dio furioso, si vede che sono decerebrati in proprio.
Fonte
Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
Visualizzazione post con etichetta Militarismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Militarismo. Mostra tutti i post
03/09/2025
Record di spese militari nella UE, Kallas inaugura “l’era della difesa europea”
L’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) ha pubblicato il proprio rapporto annuale sui dati relativi alle spese militari dei 27 membri UE nel biennio 2024-2025. Lo scorso anno i paesi europei hanno raggiunto il record di ben 343 miliardi di euro collocati nella difesa, con un incremento di ben il 19% rispetto al 2023.
La spesa in percentuale del PIL sfiora il 2% che, fino a giugno scorso, era il target previsto dalla NATO, mentre per l’anno in corso viene previsto un ulteriore aumento (le stime parlano di 381 miliardi). Secondo l’EDA, i numeri riflettono “la determinazione degli Stati membri a rafforzare le capacità militari dell’Europa in risposta all’evoluzione del contesto di sicurezza”.
L’aumento della spesa è dovuto innanzitutto al livello record di acquisti di attrezzature militari e agli investimenti in ricerca e sviluppo (13 miliardi). Gli investimenti in generale, nel comparto militare, hanno superato quota 100 miliardi (106, per l’esattezza), e rappresentano ormai quasi un terzo delle spese totali.
È il livello più alto dall’inizio della raccolta dei dati da parte dell’EDA, ma non è ancora abbastanza per stare al passo di una superpotenza come gli Stati Uniti. Soprattutto, rimangono le problematiche di un complesso militare-industriale frammentato: per l’EDA serve “una maggiore collaborazione per massimizzare l’efficienza e garantire l’interoperabilità tra le forze armate dell’UE”.
L’Alto rappresentante per gli Affari Esteri di Bruxelles, Kaja Kallas, che in tale veste è anche a capo dell’EDA, lo ha detto chiaro e tondo: “l’Unione Europea sta utilizzando tutti gli strumenti finanziari e politici a sua disposizione per sostenere gli Stati membri e le aziende europee in questo sforzo. La difesa oggi non è un optional, ma è fondamentale per la protezione dei nostri cittadini. Questa deve essere l’era della difesa europea”.
Non l’era della lotta alla povertà o l’era della tutela dell’ambiente, è l’era delle imprese belliche. Del resto, è questa la via che le cancellerie europee hanno deciso di imboccare per cercare di dare un po’ di ossigeno all’asfittica industria del Vecchio Continente, ora che il modello export-oriented è fallito (ma non possono dirlo, dopo aver imposto decenni di austerità).
Austerità che si farà ancora più stringente, per destinare ancora più risorse proprio verso questo approccio da keynesismo militare. Il direttore esecutivo dell’EDA, André Denk, ha dichiarato: “il raggiungimento del nuovo obiettivo della NATO del 3,5% del PIL richiederà uno sforzo ancora maggiore, con una spesa totale di oltre 630 miliardi di euro all’anno. Tuttavia, dobbiamo anche cooperare strettamente, trovare economie di scala e aumentare l’interoperabilità”.
La mole di risorse pubbliche da destinare al complesso militare-industriale, e il salto di qualità per ciò che riguarda una vera e propria difesa europea sono i nodi che Bruxelles deve sciogliere per poter mostrare i muscoli, come millanta di voler fare.
Millanta, perché la velleità di presentarsi come un attore autonomo della competizione globale si è schiantata di fronte al ‘fuoco amico’ di Washington e all’incapacità delle classi dirigenti europee di saper imprimere le necessarie trasformazioni al progetto comunitario nei passaggi storici degli ultimi decenni.
Nell’impossibilità di ammettere il proprio fallimento, la spinta è quella a invischiarsi sempre di più in questo braccio di ferro militare, sperando di recuperare terreno a suon di armi. Del resto, il presidente del Consiglio Europeo, Antonio Costa, l’ha scritto in un post su X, un paio di giorni fa: “il ‘soft power’ da solo non è sufficiente in un mondo dove il ‘hard power’ prevale troppo spesso”.
Una corsa verso il disastro, però armati fino ai denti.
Fonte
La spesa in percentuale del PIL sfiora il 2% che, fino a giugno scorso, era il target previsto dalla NATO, mentre per l’anno in corso viene previsto un ulteriore aumento (le stime parlano di 381 miliardi). Secondo l’EDA, i numeri riflettono “la determinazione degli Stati membri a rafforzare le capacità militari dell’Europa in risposta all’evoluzione del contesto di sicurezza”.
L’aumento della spesa è dovuto innanzitutto al livello record di acquisti di attrezzature militari e agli investimenti in ricerca e sviluppo (13 miliardi). Gli investimenti in generale, nel comparto militare, hanno superato quota 100 miliardi (106, per l’esattezza), e rappresentano ormai quasi un terzo delle spese totali.
È il livello più alto dall’inizio della raccolta dei dati da parte dell’EDA, ma non è ancora abbastanza per stare al passo di una superpotenza come gli Stati Uniti. Soprattutto, rimangono le problematiche di un complesso militare-industriale frammentato: per l’EDA serve “una maggiore collaborazione per massimizzare l’efficienza e garantire l’interoperabilità tra le forze armate dell’UE”.
L’Alto rappresentante per gli Affari Esteri di Bruxelles, Kaja Kallas, che in tale veste è anche a capo dell’EDA, lo ha detto chiaro e tondo: “l’Unione Europea sta utilizzando tutti gli strumenti finanziari e politici a sua disposizione per sostenere gli Stati membri e le aziende europee in questo sforzo. La difesa oggi non è un optional, ma è fondamentale per la protezione dei nostri cittadini. Questa deve essere l’era della difesa europea”.
Non l’era della lotta alla povertà o l’era della tutela dell’ambiente, è l’era delle imprese belliche. Del resto, è questa la via che le cancellerie europee hanno deciso di imboccare per cercare di dare un po’ di ossigeno all’asfittica industria del Vecchio Continente, ora che il modello export-oriented è fallito (ma non possono dirlo, dopo aver imposto decenni di austerità).
Austerità che si farà ancora più stringente, per destinare ancora più risorse proprio verso questo approccio da keynesismo militare. Il direttore esecutivo dell’EDA, André Denk, ha dichiarato: “il raggiungimento del nuovo obiettivo della NATO del 3,5% del PIL richiederà uno sforzo ancora maggiore, con una spesa totale di oltre 630 miliardi di euro all’anno. Tuttavia, dobbiamo anche cooperare strettamente, trovare economie di scala e aumentare l’interoperabilità”.
La mole di risorse pubbliche da destinare al complesso militare-industriale, e il salto di qualità per ciò che riguarda una vera e propria difesa europea sono i nodi che Bruxelles deve sciogliere per poter mostrare i muscoli, come millanta di voler fare.
Millanta, perché la velleità di presentarsi come un attore autonomo della competizione globale si è schiantata di fronte al ‘fuoco amico’ di Washington e all’incapacità delle classi dirigenti europee di saper imprimere le necessarie trasformazioni al progetto comunitario nei passaggi storici degli ultimi decenni.
Nell’impossibilità di ammettere il proprio fallimento, la spinta è quella a invischiarsi sempre di più in questo braccio di ferro militare, sperando di recuperare terreno a suon di armi. Del resto, il presidente del Consiglio Europeo, Antonio Costa, l’ha scritto in un post su X, un paio di giorni fa: “il ‘soft power’ da solo non è sufficiente in un mondo dove il ‘hard power’ prevale troppo spesso”.
Una corsa verso il disastro, però armati fino ai denti.
Fonte
21/08/2025
Le ambizioni dei “volenterosi” europei passano per la guerra in Ucraina
La conclusione o meno della guerra in Ucraina potrebbe ridisegnare la mappa del potere politico in Europa.
Se è vero che l’andatura dei negoziati sembra essere indicato da Trump e Putin, è anche vero che i governi europei arruolatisi nella coalizione dei volenterosi sembrano voler sfruttare in ogni modo la guerra – e le sorti – dell’Ucraina per forzare quei passaggi di decisionalità che sono mancati fino a oggi.
Gran parte degli osservatori si limitano a segnalare le difficoltà europee dentro la crisi apertasi a est del continente, ma cominciano a emergerne anche altri che ne segnalano le finestre di opportunità per spingere in avanti quella che rimane l’ambizione inceppata all’autonomia strategica dagli Usa e ad un ruolo assertivo.
Insomma un addio definitivo al soft power su cui gli europeisti si sono adagiati per decenni per dotarsi di un hard power ritenuto vitale per la sopravvivenza politica, magari non più dell’Unione Europea come tale – e dei suoi meccanismi decisionali farraginosi come l’unanimità – ma della ambiziosa convergenza di un gruppo di paesi europei decisi a pesare di più come soggetto globale, insieme quando possibile, per progetti mirati quando necessario.
L’analista Moises Naim, per molti anni direttore di Foreign Policy, in una intervista su La Stampa ha visto un bicchiere mezzo pieno nel ruolo assunto dai “volenterosi” paesi europei nella guerra in Ucraina e nella contrapposizione con la Russia. “Oggi l’Europa sta facendo in quel senso più di quanto abbia fatto in decenni. Eravamo abituati a vederla divisa, incapace di coordinamento, burocratica, ricca di storia ma povera di potere, invece è iniziato un processo importante: l’unità europea è un grosso sviluppo e il sostegno assicurato a Kiev ne fa un attore con cui Trump, volente o nolente, deve fare i conti”.
Per Guntram Wolff, analista del think thank Bruegel Institute, i paesi europei hanno l’opportunità di fare i passi in avanti che hanno stentato a fare fino ad oggi ma, a suo avviso, dovrebbero intraprendere alcune scelte imprescindibili: “Tre, in particolare. Primo, il riarmo accelerato: Germania, Francia, Polonia, Italia e Finlandia devono aumentare i bilanci della difesa e creare capacità operative reali. Secondo, l’integrazione industriale: non possiamo permetterci produzioni frammentate e sprechi, servono programmi comuni e standard condivisi. Terzo, la difesa aerea e missilistica, oggi il punto più debole del continente”.
Ma un ampio programma di riarmo e spese militari in Europa non è un pasto gratis. Se ne preoccupa Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, sottolineando come “Ciò chiama in causa la questione più importante, quella del consenso. A volte si leggono o si ascoltano esperti che trattano con competenza di sicurezza europea ma senza mai fare i conti con l’oste”, ovvero le proprie opinioni pubbliche, non certo favorevoli ad un intenso piano di riarmo e preoccupate dal clima di guerra ispirato dalle cancellerie dei paesi europei ritrovatosi nella “coalizione dei volenterosi”.
Per Panebianco “Senza forza militare non si può andare a nessuna trattativa diplomatica con chiunque quella forza militare possieda: ci si può solo inchinare ai suoi diktat”.
In tale contesto è significativo un dato non certo irrilevante come il riarmo tedesco, tra l’altro avviato da governi di coalizione tra conservatori, socialdemocratici e Verdi, ma che potrebbe lasciare il campo ad un partito di destra come AfD.
La Germania infatti si avvia a stanziare un enorme fondo da 1000 miliardi di euro destinato alla spesa militare, misura che ha richiesto addirittura una riforma costituzionale. Una marea di soldi, distribuiti su più anni, per rinnovare e rafforzare la Bundeswehr ma anche per ri-parametrare il sistema industriale tedesco in serissima crisi da anni su una crescente economia di guerra.
La Germania prevede di raggiungere i 108,2 miliardi di euro di spese militari già nel 2026, poi 161,8 miliardi di euro nel 2029, con un aumento di oltre il 70% rispetto al 2025 e del 387% rispetto al 2020. Questa cifra collocherebbe la Germania come la potenza militare più grande d’Europa e forse guidata da un partito neonazista.
Insomma una prospettiva niente affatto allettante, e non certo e non solo per la Russia, ma che potrebbe diventare il parametro di riferimento anche per le economie degli altri paesi europei.
Il problema, se guardiamo alla storia, è il come andrebbe a finire – malissimo, come sappiamo tutti – e il clima politico, psicologico, culturale che metterebbe fine alle democrazie così come le abbiamo conosciute dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non si parla con tanto avventurismo di guerra, truppe sul terreno, riarmo, art.5, facendosi ancora condizionare dal “consenso”. In Europa mala tempora currant.
Fonte
Se è vero che l’andatura dei negoziati sembra essere indicato da Trump e Putin, è anche vero che i governi europei arruolatisi nella coalizione dei volenterosi sembrano voler sfruttare in ogni modo la guerra – e le sorti – dell’Ucraina per forzare quei passaggi di decisionalità che sono mancati fino a oggi.
Gran parte degli osservatori si limitano a segnalare le difficoltà europee dentro la crisi apertasi a est del continente, ma cominciano a emergerne anche altri che ne segnalano le finestre di opportunità per spingere in avanti quella che rimane l’ambizione inceppata all’autonomia strategica dagli Usa e ad un ruolo assertivo.
Insomma un addio definitivo al soft power su cui gli europeisti si sono adagiati per decenni per dotarsi di un hard power ritenuto vitale per la sopravvivenza politica, magari non più dell’Unione Europea come tale – e dei suoi meccanismi decisionali farraginosi come l’unanimità – ma della ambiziosa convergenza di un gruppo di paesi europei decisi a pesare di più come soggetto globale, insieme quando possibile, per progetti mirati quando necessario.
L’analista Moises Naim, per molti anni direttore di Foreign Policy, in una intervista su La Stampa ha visto un bicchiere mezzo pieno nel ruolo assunto dai “volenterosi” paesi europei nella guerra in Ucraina e nella contrapposizione con la Russia. “Oggi l’Europa sta facendo in quel senso più di quanto abbia fatto in decenni. Eravamo abituati a vederla divisa, incapace di coordinamento, burocratica, ricca di storia ma povera di potere, invece è iniziato un processo importante: l’unità europea è un grosso sviluppo e il sostegno assicurato a Kiev ne fa un attore con cui Trump, volente o nolente, deve fare i conti”.
Per Guntram Wolff, analista del think thank Bruegel Institute, i paesi europei hanno l’opportunità di fare i passi in avanti che hanno stentato a fare fino ad oggi ma, a suo avviso, dovrebbero intraprendere alcune scelte imprescindibili: “Tre, in particolare. Primo, il riarmo accelerato: Germania, Francia, Polonia, Italia e Finlandia devono aumentare i bilanci della difesa e creare capacità operative reali. Secondo, l’integrazione industriale: non possiamo permetterci produzioni frammentate e sprechi, servono programmi comuni e standard condivisi. Terzo, la difesa aerea e missilistica, oggi il punto più debole del continente”.
Ma un ampio programma di riarmo e spese militari in Europa non è un pasto gratis. Se ne preoccupa Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, sottolineando come “Ciò chiama in causa la questione più importante, quella del consenso. A volte si leggono o si ascoltano esperti che trattano con competenza di sicurezza europea ma senza mai fare i conti con l’oste”, ovvero le proprie opinioni pubbliche, non certo favorevoli ad un intenso piano di riarmo e preoccupate dal clima di guerra ispirato dalle cancellerie dei paesi europei ritrovatosi nella “coalizione dei volenterosi”.
Per Panebianco “Senza forza militare non si può andare a nessuna trattativa diplomatica con chiunque quella forza militare possieda: ci si può solo inchinare ai suoi diktat”.
In tale contesto è significativo un dato non certo irrilevante come il riarmo tedesco, tra l’altro avviato da governi di coalizione tra conservatori, socialdemocratici e Verdi, ma che potrebbe lasciare il campo ad un partito di destra come AfD.
La Germania infatti si avvia a stanziare un enorme fondo da 1000 miliardi di euro destinato alla spesa militare, misura che ha richiesto addirittura una riforma costituzionale. Una marea di soldi, distribuiti su più anni, per rinnovare e rafforzare la Bundeswehr ma anche per ri-parametrare il sistema industriale tedesco in serissima crisi da anni su una crescente economia di guerra.
La Germania prevede di raggiungere i 108,2 miliardi di euro di spese militari già nel 2026, poi 161,8 miliardi di euro nel 2029, con un aumento di oltre il 70% rispetto al 2025 e del 387% rispetto al 2020. Questa cifra collocherebbe la Germania come la potenza militare più grande d’Europa e forse guidata da un partito neonazista.
Insomma una prospettiva niente affatto allettante, e non certo e non solo per la Russia, ma che potrebbe diventare il parametro di riferimento anche per le economie degli altri paesi europei.
Il problema, se guardiamo alla storia, è il come andrebbe a finire – malissimo, come sappiamo tutti – e il clima politico, psicologico, culturale che metterebbe fine alle democrazie così come le abbiamo conosciute dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non si parla con tanto avventurismo di guerra, truppe sul terreno, riarmo, art.5, facendosi ancora condizionare dal “consenso”. In Europa mala tempora currant.
Fonte
22/06/2025
I tagliagole europeisti vogliono la guerra. I popoli non la vogliono: sondaggio Gallup
Pare quasi inutile ripeterlo, che la regia sia unica – tanto si somigliano, al limite del “plagio” – le assicurazioni somministrate überall in der Welt alle masse, soprattutto quelle dei paesi europei, su una Russia “già pronta ad attaccare l’Europa”, per cui lavoratori, pensionati, intere categorie di salariati dovrebbero quasi ringraziare i preveggenti eurotagliagole per le decisioni sul veloce e quanto più ampio dirottamento verso le spese per la “difesa” di quanto dovrebbe essere destinato a sanità, assistenza, occupazione, pensioni, ecc.
Si troverebbe probabilmente in difficoltà, oggi, il Sommo poeta, a classificare la destinazione infernale di molti dei personaggi che occupano le aule di Strasburgo, Bruxelles e di diversi parlamenti del vecchio continente.
Forse nei primi due gironi del 7° cerchio, tra tiranni, predoni e scialacquatori; o forse anche nella quarta bolgia del cerchio ottavo, tra gli indovini che già predicono con esattezza mensile il momento in cui Mosca, inevitabilmente, attaccherà “un paese europeo, o forse più di uno”, a secondo che la sfera di cristallo sia interpretata dai baltici Fredegonda-Kallas o Voldemort-Kubilius.
Anche se, a dire il vero, non c’è bisogno di spingersi verso le fredde anse del Baltico, per vedersi serviti tali apocalittiche predizioni. Già sulle coste del Tirreno si incontrano elfi-oscuri che, imboniti con tavole imbandite da ministri della guerra per parlamentari NATO, raccontano di come sia urgente dedicarsi alla cybersecurity, alla difesa da attacchi contro i cavi di trasmissione sottomarini, da assalti da cielo mare e terra. Attacchi, per carità, russi.
E guai a dare ascolto alle sirene pentastellate – per quanto anche quelle rimangano, appunto, solo sirene oltremodo stonate – che invitano a «difendere il futuro dei nostri concittadini». Non sia mai, perché «il futuro dei nostri concittadini si difende garantendo loro la libertà. Forse gli ucraini potrebbero spiegarlo meglio» assicurano, per la gioia del Corriere della Sera, i pappataci del PD che, nell’attacco a diritti e condizioni di vita delle masse, si differenziano dai licaoni governativi, soltanto per il modo subdolo e silenzioso dei primi, contro quello predatorio e ringhioso dei secondi.
D’altronde, gli uni e gli altri servono, chi in maniera strisciante, chi con metodi guttural-arroganti, gli interessi del capitale che, se nella fase attuale sono principalmente quelli del capitale finanziario legato all’industria di guerra, non da oggi significano anche spinta al militarismo sfrenato. «Il militarismo moderno è un prodotto del capitalismo», scriveva nel 1908 Lenin nel suo “Il militarismo militante e la tattica antimilitaristica della socialdemocrazia”.
E questo vuol dire anche che, in «entrambe le sue forme, esso è una ‘manifestazione vitale» del capitalismo: come forza militare impiegata dagli Stati capitalistici nei loro conflitti esterni («Militarismus nach aussen», come dicono i tedeschi) e come arma che, nelle mani delle classi dominanti, serve a reprimere ogni specie di movimento (economico e politico) del proletariato («Militarismus nach innen»)».
Ne sono conferma, oggi, le norme e le aggressioni politico-poliziesche contro qualsiasi manifestazione di dissenso, gli attacchi liberticidi a diritti sociali, di lavoro e di vita, la preparazione psicologico-repressiva della coscienza sociale alla guerra e l’imposizione reazionaria del dovere di accettare qualsiasi misura tesa ad abbassare la soglia di scatenamento della guerra.
Il militarismo, insomma, diceva Lenin, «è l’arma principale del dominio di classe della borghesia e della sottomissione politica della classe operaia» e le guerre «hanno le loro radici nella sostanza stessa del capitalismo e cesseranno soltanto quando cesserà di esistere il regime capitalistico o quando l’entità dei sacrifici umani e finanziari, richiesti dallo sviluppo della tecnica bellica, e lo sdegno popolare, suscitato dagli armamenti, porteranno all’eliminazione di questo sistema...».
Dunque, si diceva, sembrano fatte con lo stampino le dichiarazioni belliciste dei circoli liberal-europeisti: sentita una, le altre non si differenziano che per sotterfugi linguistici. Fredegonda-Kallas, scrive opportunamente Il Fatto del 21 giugno, «è l’alta rappresentante del Bene, la principessa baltica che brandisce la spada europea contro il mostruoso impero russo». Per lei, Vladimir Putin «è più di un nemico, è un’ossessione» e ammonisce che si debba spendere sempre più in armi, dato che «Mosca è una minaccia diretta».
Nei giorni scorsi, a Strasburgo, Kaja Kallas si è esibita ancora nello stantio repertorio per cui la Russia ha messo nel mirino l’Europa e, giura “Fredegonda”, l’ipotesi è ampiamente provata dai fatti di una spesa russa per la difesa superiore a quella dei 27 paesi UE messi insieme. Un piccolissimo appunto, signora Kallas: secondo l’Osservatorio Conti pubblici italiano, nel 2024 la spesa militare europea eccedeva quella russa del 58%.
Non «si spende così tanto per l’esercito», dice l’estone che vuole disimparare la lingua russa, «se non si prevede di usarlo e quest’anno la Russia spenderà per la difesa più che per assistenza sanitaria, istruzione, politica sociale...».
Già: avete sentito, pensionati, studenti, lavoratori europei, che da qualche mese siete in attesa di una radiografia, perché i fondi della sanità sono andati alla guerra? La signora suddetta stava parlando proprio per voi. In realtà – Achtung Gefahr! – sul fronte militare, affonda l’estone furiosa, la Russia sta già attaccando l’Europa in vari modi: violando lo spazio aereo del blocco, attaccando i suoi oleodotti, cavi sottomarini e reti elettriche, reclutando criminali per effettuare sabotaggi... abbiamo forse 5 anni per preparaci a una possibile invasione russa e se le sanzioni verranno revocate il periodo sarà ancora più breve.
La predizione che arriva dalla quarta e dall’ottava bolgia del 7° cerchio: indovini e ladri.
Dunque, il «mondo libero deve dimostrare la volontà di sconfiggere l’aggressione russa». Chi meglio di lei, erede di fiancheggiatori estoni dei nazisti, può ululare che la «nostra esperienza dietro la cortina di ferro... ha significato atrocità, deportazioni di massa, soppressione della cultura» e dunque, chi meglio di lei può fare da megafono – oppure da suggeritore.
Invertendo l’ordine degli attori, le asseverazioni non cambiano – alle scempiaggini di quella portavoce di un rinato maccartismo anti-sovietico (seppur quando l’Unione Sovietica è scomparsa da un pezzo) che risponde al nome di Anne “Golodomor” Applebaum, colei che ha fatto fortuna sulle medaglie erogate a piene mani dai golpisti di Kiev a quanti si prodighino a diffondere nel mondo l’omelia di un potere sovietico tutto dedito alla soppressione dell’Ucraina, in particolare con la “morte per fame” dei contadini ucraini nel 1932-1933.
La “morte per fame” di contadini russi, kazakhi, romeni, moldavi e anche delle regioni ucraine e bielorusse sotto dominio polacco, per la siccità e la susseguente carestia di quel periodo: quella non conta nel “medagliere” degli eredi dei banderisti filonazisti, così grati alla “storica” Applebaum.
Una Applebaum che, a ruota libera su La Stampa del 20 giugno, si diffonde in titoli di “democratismo” e “autoritarismo in base alla vicinanza o meno a quella che lei considera una «una rete transnazionale», una cordata guidata da «Russia, Cina, Iran, Venezuela, Corea del Nord, Bielorussia e altri», che «rifiutano la democrazia, i diritti umani, la cooperazione internazionale... Aspirano a una sorta di mondo multipolare in cui potranno fare ciò che vogliono».
Quale sarebbe, di grazia, il suo concetto di democrazia, signora “storica-saggista”, a Taormina per ritirare il premio Strega Saggistica Internazionale? Chiaro che non si tratti, nella Sua interpretazione, di un concetto di classe, ma di una “categoria” liberal-feudale, anche perché «Intendiamoci, gli Stati Uniti non sono una dittatura», mentre, ca va sans dire, «Il regime iraniano è uno dei più orribili del pianeta».
Ovviamente in scala molto ridotta rispetto ai “cannibali” bolscevichi che popolavano l’Ucraina sovietica, ma sufficientemente crudeli, dato che «Quando Putin ha invaso l’Ucraina aveva il sostegno del mondo autocratico». Pur se «l’invasione dell’Ucraina rappresenta anche un successo dell’alleanza democratica... Perché, diciamolo chiaramente: la Russia è nemica dell’Europa. Attacca obiettivi informatici quotidianamente, compie sabotaggi, ha squadre della morte in Europa. Minaccia basi aeree, gestisce una flotta ombra nel Baltico. Finanzia gruppi estremisti e movimenti separatisti. L’obiettivo è disgregare la UE e la NATO...».
Che dire: con quanta lungimiranza, già sessant’anni fa, Jan Fleming illustrava le atrocità di cui siano capaci i tentacoli della “Spectre”, incarnati dagli autocrati del Cremlino, ieri sovietici, oggi russi!
Ma politici e militari occidentali non si preoccupano nemmeno più di nascondere che si stanno preparando a una guerra diretta con la Russia, afferma l’osservatore Vasilij Fatigarov: «L’Occidente, in particolare l’Europa, afferma apertamente di aver oggi bisogno di resistere in Ucraina ancora un anno e mezzo o due, per rafforzare le proprie capacità militari e continuare a combattere autonomamente» contro la Russia.
No, dice Fatigarov, la Russia non dovrebbe «voler combattere con l’Europa. Ma date le loro dichiarazioni e, soprattutto, le loro azioni nel dispiegamento di forze, nelle esercitazioni aggressive con scenari corrispondenti, vi dobbiamo essere pronti».
E se le parole di un Fatigarov possono lasciare il tempo che trovano, ecco che Putin in persona, al Forum economico di Piter, ha ammesso di essere preoccupato per il fatto che il mondo stia scivolando verso una terza guerra mondiale: siamo in presenza di «un grande potenziale di conflitto, che sta crescendo. È proprio sotto i nostri occhi, ci riguarda direttamente. Il conflitto che stiamo vivendo in Ucraina, quello che sta succedendo in Medio Oriente e quello che sta accadendo intorno agli impianti nucleari iraniani. Ciò che preoccupa è a cosa questo possa portare», insieme alla «ricerca di soluzioni, meglio con mezzi pacifici in tutte le direzioni», senza dimenticare che «Russia e Iran stanno combattendo contro le stesse forze».
E, come a fargli eco, l’economista Paul Craig Roberts, ex vicesegretario al Tesoro USA con Ronald Reagan, spiattella chiaro e tondo che Washington sostiene l’aggressione israeliana all’Iran, sperando così nel rovesciamento degli ayatollah, così come, nel 2022, aveva spinto la Russia all’operazione militare in Ucraina: «Questo è stato uno dei motivi per cui abbiamo imposto sanzioni a Putin, per cui abbiamo costretto Putin a lanciare l’operazione speciale in Donbass».
Pensavano che la guerra non sarebbe andata bene e ciò avrebbe screditato Putin agli occhi dei russi, provocando un cambio di regime, dato che «parte della classe imprenditoriale e intellettuale russa sembra essere più orientata verso l’Occidente».
Scatenare il conflitto, insomma, «per destabilizzare Putin», ricordando che gli USA avevano già «interferito nelle elezioni presidenziali in Iran, provocando disordini giovanili e che ora le recriminazioni yankee contro l’Iran sono falsificate, al pari delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’uso di armi chimiche da parte di Assad, le loro bugie su Gheddafi».
Roberts ritiene che Russia e Iran si aspettino invano che i negoziati con l’Occidente li salvino dalla guerra, perché là, in Occidente, hanno bisogno della guerra. La guerra come continuazione delle politica con altri mezzi, mandando a gambe all’aria ogni esternazione liberale secondo cui, ecco, vivevano in pace e poi, all’improvviso, senza un perché, uno “aggredisce” e l’altro “si difende”. Anzi, difende l’Europa intera: è il suo avamposto contro una Russia che, parola di Applebaum «è nemica dell’Europa».
Anche se, a questo punto, sorge la domanda su che tipo di guerra e da chi debba essere combattuta. Perché, pare ci sia una ragione, ad esempio, per il fatto che anche in Italia si accenni con sempre maggior insistenza alla possibile reintroduzione della leva obbligatoria o si escogitino pretesti per attirare cittadini nei ranghi militari. Nessuno, o quasi, tra le popolazioni d’Europa, mostra particolare voglia di indossare l’uniforme e andare in guerra.
Secondo la britannica The Economist, il «progetto di pace alla base della UE» – ci scordiamo di Jugoslavia, Afghanistan, Libia, signori giornalisti britannici? – «si è dimostrato fin troppo efficace, al punto che gli europei non vogliono combattere con nessuno. «Nonostante la crescita record della spesa militare», osserva The Economist, «il continente si trova ad affrontare un problema più profondo e allarmante: la stragrande maggioranza dei suoi cittadini semplicemente non vuole combattere, anche se il nemico è alle porte». Eh, già: è proprio lì lì per attaccare: lo assicurano gli indiavolati folletti Kallas-Kubilius.
Il balzo «sproporzionato dal 2% del PIL al 3,5% sarà destinato all’acquisto di equipaggiamenti, ma gli eserciti sono anche una questione di persone: “I vostri carri armati in Europa sono bellissimi, ma avete qualcuno che li guidi?”. E nemmeno costringere adolescenti a vestire l’uniforme risolverà il problema: gli europei sono orgogliosi del loro comportamento pacifista. «Se scoppia una guerra, ci sarà qualcuno pronto a combattere?» si chiede The Economist.
Secondo un sondaggio Gallup condotto lo scorso anno su 45 paesi, quattro dei cinque paesi meno disposti a combattere sono europei. In «Spagna, Germania e soprattutto Italia (dove solo il 14% degli intervistati è pronto a difendere il paese), il fervore patriottico è quasi scomparso».
Persino in Polonia, che si appresta a raddoppiare i propri contingenti e ambisce alla leadership militare europea, meno della metà dei cittadini è disposta fare la guerra. Un sondaggio condotto prima del 2022, aveva mostrato che il 23% dei lituani preferirebbe emigrare piuttosto che imbracciare le armi.
Insomma, i governi liberal-reazionari cercano di correre ai ripari: dopotutto, “tra cinque anni, o forse anche prima, la Russia invaderà un paese europeo, o forse più di uno”, assicura Voldemort-Kubilius dalla quarta bolgia dell’ottavo cerchio...
Così, vari paesi, come «la Polonia, pensano al ritorno della coscrizione obbligatoria». Danimarca e Grecia non l’hanno mai fermata. Dopotutto, gli stessi sondaggi europeisti mostrano che, quando si chiede quali siano le questioni che preoccupano gli europei, la Russia scompare dalla lista, mentre vanno al primo posto i prezzi, le tasse, le pensioni.
Anche perché – vedano, signori di The Economist, ma anche de La Stampa, Corriere della Sera e fogliacci vari – quando il discorso verte sulla guerra, su chi “aggredisca” e chi “si difenda”, o chi addirittura invochi la “difesa preventiva”, non sono in molti a credere alla vostra favola infantil-ingenua secondo cui «di notte, uno ha agguantato un altro alla gola e i vicini sono costretti a salvare la vittima dell’attacco... non permettiamo di farci ingannare e consentire ai consiglieri borghesi di spiegare la guerra così, semplicisticamente, per cui, dicono, vivevano in pace, poi uno ha aggredito e l’altro si è difeso» (Lenin).
Bolgia di consiglieri di frode che non siete altro.
Fonte
Si troverebbe probabilmente in difficoltà, oggi, il Sommo poeta, a classificare la destinazione infernale di molti dei personaggi che occupano le aule di Strasburgo, Bruxelles e di diversi parlamenti del vecchio continente.
Forse nei primi due gironi del 7° cerchio, tra tiranni, predoni e scialacquatori; o forse anche nella quarta bolgia del cerchio ottavo, tra gli indovini che già predicono con esattezza mensile il momento in cui Mosca, inevitabilmente, attaccherà “un paese europeo, o forse più di uno”, a secondo che la sfera di cristallo sia interpretata dai baltici Fredegonda-Kallas o Voldemort-Kubilius.
Anche se, a dire il vero, non c’è bisogno di spingersi verso le fredde anse del Baltico, per vedersi serviti tali apocalittiche predizioni. Già sulle coste del Tirreno si incontrano elfi-oscuri che, imboniti con tavole imbandite da ministri della guerra per parlamentari NATO, raccontano di come sia urgente dedicarsi alla cybersecurity, alla difesa da attacchi contro i cavi di trasmissione sottomarini, da assalti da cielo mare e terra. Attacchi, per carità, russi.
E guai a dare ascolto alle sirene pentastellate – per quanto anche quelle rimangano, appunto, solo sirene oltremodo stonate – che invitano a «difendere il futuro dei nostri concittadini». Non sia mai, perché «il futuro dei nostri concittadini si difende garantendo loro la libertà. Forse gli ucraini potrebbero spiegarlo meglio» assicurano, per la gioia del Corriere della Sera, i pappataci del PD che, nell’attacco a diritti e condizioni di vita delle masse, si differenziano dai licaoni governativi, soltanto per il modo subdolo e silenzioso dei primi, contro quello predatorio e ringhioso dei secondi.
D’altronde, gli uni e gli altri servono, chi in maniera strisciante, chi con metodi guttural-arroganti, gli interessi del capitale che, se nella fase attuale sono principalmente quelli del capitale finanziario legato all’industria di guerra, non da oggi significano anche spinta al militarismo sfrenato. «Il militarismo moderno è un prodotto del capitalismo», scriveva nel 1908 Lenin nel suo “Il militarismo militante e la tattica antimilitaristica della socialdemocrazia”.
E questo vuol dire anche che, in «entrambe le sue forme, esso è una ‘manifestazione vitale» del capitalismo: come forza militare impiegata dagli Stati capitalistici nei loro conflitti esterni («Militarismus nach aussen», come dicono i tedeschi) e come arma che, nelle mani delle classi dominanti, serve a reprimere ogni specie di movimento (economico e politico) del proletariato («Militarismus nach innen»)».
Ne sono conferma, oggi, le norme e le aggressioni politico-poliziesche contro qualsiasi manifestazione di dissenso, gli attacchi liberticidi a diritti sociali, di lavoro e di vita, la preparazione psicologico-repressiva della coscienza sociale alla guerra e l’imposizione reazionaria del dovere di accettare qualsiasi misura tesa ad abbassare la soglia di scatenamento della guerra.
Il militarismo, insomma, diceva Lenin, «è l’arma principale del dominio di classe della borghesia e della sottomissione politica della classe operaia» e le guerre «hanno le loro radici nella sostanza stessa del capitalismo e cesseranno soltanto quando cesserà di esistere il regime capitalistico o quando l’entità dei sacrifici umani e finanziari, richiesti dallo sviluppo della tecnica bellica, e lo sdegno popolare, suscitato dagli armamenti, porteranno all’eliminazione di questo sistema...».
Dunque, si diceva, sembrano fatte con lo stampino le dichiarazioni belliciste dei circoli liberal-europeisti: sentita una, le altre non si differenziano che per sotterfugi linguistici. Fredegonda-Kallas, scrive opportunamente Il Fatto del 21 giugno, «è l’alta rappresentante del Bene, la principessa baltica che brandisce la spada europea contro il mostruoso impero russo». Per lei, Vladimir Putin «è più di un nemico, è un’ossessione» e ammonisce che si debba spendere sempre più in armi, dato che «Mosca è una minaccia diretta».
Nei giorni scorsi, a Strasburgo, Kaja Kallas si è esibita ancora nello stantio repertorio per cui la Russia ha messo nel mirino l’Europa e, giura “Fredegonda”, l’ipotesi è ampiamente provata dai fatti di una spesa russa per la difesa superiore a quella dei 27 paesi UE messi insieme. Un piccolissimo appunto, signora Kallas: secondo l’Osservatorio Conti pubblici italiano, nel 2024 la spesa militare europea eccedeva quella russa del 58%.
Non «si spende così tanto per l’esercito», dice l’estone che vuole disimparare la lingua russa, «se non si prevede di usarlo e quest’anno la Russia spenderà per la difesa più che per assistenza sanitaria, istruzione, politica sociale...».
Già: avete sentito, pensionati, studenti, lavoratori europei, che da qualche mese siete in attesa di una radiografia, perché i fondi della sanità sono andati alla guerra? La signora suddetta stava parlando proprio per voi. In realtà – Achtung Gefahr! – sul fronte militare, affonda l’estone furiosa, la Russia sta già attaccando l’Europa in vari modi: violando lo spazio aereo del blocco, attaccando i suoi oleodotti, cavi sottomarini e reti elettriche, reclutando criminali per effettuare sabotaggi... abbiamo forse 5 anni per preparaci a una possibile invasione russa e se le sanzioni verranno revocate il periodo sarà ancora più breve.
La predizione che arriva dalla quarta e dall’ottava bolgia del 7° cerchio: indovini e ladri.
Dunque, il «mondo libero deve dimostrare la volontà di sconfiggere l’aggressione russa». Chi meglio di lei, erede di fiancheggiatori estoni dei nazisti, può ululare che la «nostra esperienza dietro la cortina di ferro... ha significato atrocità, deportazioni di massa, soppressione della cultura» e dunque, chi meglio di lei può fare da megafono – oppure da suggeritore.
Invertendo l’ordine degli attori, le asseverazioni non cambiano – alle scempiaggini di quella portavoce di un rinato maccartismo anti-sovietico (seppur quando l’Unione Sovietica è scomparsa da un pezzo) che risponde al nome di Anne “Golodomor” Applebaum, colei che ha fatto fortuna sulle medaglie erogate a piene mani dai golpisti di Kiev a quanti si prodighino a diffondere nel mondo l’omelia di un potere sovietico tutto dedito alla soppressione dell’Ucraina, in particolare con la “morte per fame” dei contadini ucraini nel 1932-1933.
La “morte per fame” di contadini russi, kazakhi, romeni, moldavi e anche delle regioni ucraine e bielorusse sotto dominio polacco, per la siccità e la susseguente carestia di quel periodo: quella non conta nel “medagliere” degli eredi dei banderisti filonazisti, così grati alla “storica” Applebaum.
Una Applebaum che, a ruota libera su La Stampa del 20 giugno, si diffonde in titoli di “democratismo” e “autoritarismo in base alla vicinanza o meno a quella che lei considera una «una rete transnazionale», una cordata guidata da «Russia, Cina, Iran, Venezuela, Corea del Nord, Bielorussia e altri», che «rifiutano la democrazia, i diritti umani, la cooperazione internazionale... Aspirano a una sorta di mondo multipolare in cui potranno fare ciò che vogliono».
Quale sarebbe, di grazia, il suo concetto di democrazia, signora “storica-saggista”, a Taormina per ritirare il premio Strega Saggistica Internazionale? Chiaro che non si tratti, nella Sua interpretazione, di un concetto di classe, ma di una “categoria” liberal-feudale, anche perché «Intendiamoci, gli Stati Uniti non sono una dittatura», mentre, ca va sans dire, «Il regime iraniano è uno dei più orribili del pianeta».
Ovviamente in scala molto ridotta rispetto ai “cannibali” bolscevichi che popolavano l’Ucraina sovietica, ma sufficientemente crudeli, dato che «Quando Putin ha invaso l’Ucraina aveva il sostegno del mondo autocratico». Pur se «l’invasione dell’Ucraina rappresenta anche un successo dell’alleanza democratica... Perché, diciamolo chiaramente: la Russia è nemica dell’Europa. Attacca obiettivi informatici quotidianamente, compie sabotaggi, ha squadre della morte in Europa. Minaccia basi aeree, gestisce una flotta ombra nel Baltico. Finanzia gruppi estremisti e movimenti separatisti. L’obiettivo è disgregare la UE e la NATO...».
Che dire: con quanta lungimiranza, già sessant’anni fa, Jan Fleming illustrava le atrocità di cui siano capaci i tentacoli della “Spectre”, incarnati dagli autocrati del Cremlino, ieri sovietici, oggi russi!
Ma politici e militari occidentali non si preoccupano nemmeno più di nascondere che si stanno preparando a una guerra diretta con la Russia, afferma l’osservatore Vasilij Fatigarov: «L’Occidente, in particolare l’Europa, afferma apertamente di aver oggi bisogno di resistere in Ucraina ancora un anno e mezzo o due, per rafforzare le proprie capacità militari e continuare a combattere autonomamente» contro la Russia.
No, dice Fatigarov, la Russia non dovrebbe «voler combattere con l’Europa. Ma date le loro dichiarazioni e, soprattutto, le loro azioni nel dispiegamento di forze, nelle esercitazioni aggressive con scenari corrispondenti, vi dobbiamo essere pronti».
E se le parole di un Fatigarov possono lasciare il tempo che trovano, ecco che Putin in persona, al Forum economico di Piter, ha ammesso di essere preoccupato per il fatto che il mondo stia scivolando verso una terza guerra mondiale: siamo in presenza di «un grande potenziale di conflitto, che sta crescendo. È proprio sotto i nostri occhi, ci riguarda direttamente. Il conflitto che stiamo vivendo in Ucraina, quello che sta succedendo in Medio Oriente e quello che sta accadendo intorno agli impianti nucleari iraniani. Ciò che preoccupa è a cosa questo possa portare», insieme alla «ricerca di soluzioni, meglio con mezzi pacifici in tutte le direzioni», senza dimenticare che «Russia e Iran stanno combattendo contro le stesse forze».
E, come a fargli eco, l’economista Paul Craig Roberts, ex vicesegretario al Tesoro USA con Ronald Reagan, spiattella chiaro e tondo che Washington sostiene l’aggressione israeliana all’Iran, sperando così nel rovesciamento degli ayatollah, così come, nel 2022, aveva spinto la Russia all’operazione militare in Ucraina: «Questo è stato uno dei motivi per cui abbiamo imposto sanzioni a Putin, per cui abbiamo costretto Putin a lanciare l’operazione speciale in Donbass».
Pensavano che la guerra non sarebbe andata bene e ciò avrebbe screditato Putin agli occhi dei russi, provocando un cambio di regime, dato che «parte della classe imprenditoriale e intellettuale russa sembra essere più orientata verso l’Occidente».
Scatenare il conflitto, insomma, «per destabilizzare Putin», ricordando che gli USA avevano già «interferito nelle elezioni presidenziali in Iran, provocando disordini giovanili e che ora le recriminazioni yankee contro l’Iran sono falsificate, al pari delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’uso di armi chimiche da parte di Assad, le loro bugie su Gheddafi».
Roberts ritiene che Russia e Iran si aspettino invano che i negoziati con l’Occidente li salvino dalla guerra, perché là, in Occidente, hanno bisogno della guerra. La guerra come continuazione delle politica con altri mezzi, mandando a gambe all’aria ogni esternazione liberale secondo cui, ecco, vivevano in pace e poi, all’improvviso, senza un perché, uno “aggredisce” e l’altro “si difende”. Anzi, difende l’Europa intera: è il suo avamposto contro una Russia che, parola di Applebaum «è nemica dell’Europa».
Anche se, a questo punto, sorge la domanda su che tipo di guerra e da chi debba essere combattuta. Perché, pare ci sia una ragione, ad esempio, per il fatto che anche in Italia si accenni con sempre maggior insistenza alla possibile reintroduzione della leva obbligatoria o si escogitino pretesti per attirare cittadini nei ranghi militari. Nessuno, o quasi, tra le popolazioni d’Europa, mostra particolare voglia di indossare l’uniforme e andare in guerra.
Secondo la britannica The Economist, il «progetto di pace alla base della UE» – ci scordiamo di Jugoslavia, Afghanistan, Libia, signori giornalisti britannici? – «si è dimostrato fin troppo efficace, al punto che gli europei non vogliono combattere con nessuno. «Nonostante la crescita record della spesa militare», osserva The Economist, «il continente si trova ad affrontare un problema più profondo e allarmante: la stragrande maggioranza dei suoi cittadini semplicemente non vuole combattere, anche se il nemico è alle porte». Eh, già: è proprio lì lì per attaccare: lo assicurano gli indiavolati folletti Kallas-Kubilius.
Il balzo «sproporzionato dal 2% del PIL al 3,5% sarà destinato all’acquisto di equipaggiamenti, ma gli eserciti sono anche una questione di persone: “I vostri carri armati in Europa sono bellissimi, ma avete qualcuno che li guidi?”. E nemmeno costringere adolescenti a vestire l’uniforme risolverà il problema: gli europei sono orgogliosi del loro comportamento pacifista. «Se scoppia una guerra, ci sarà qualcuno pronto a combattere?» si chiede The Economist.
Secondo un sondaggio Gallup condotto lo scorso anno su 45 paesi, quattro dei cinque paesi meno disposti a combattere sono europei. In «Spagna, Germania e soprattutto Italia (dove solo il 14% degli intervistati è pronto a difendere il paese), il fervore patriottico è quasi scomparso».
Persino in Polonia, che si appresta a raddoppiare i propri contingenti e ambisce alla leadership militare europea, meno della metà dei cittadini è disposta fare la guerra. Un sondaggio condotto prima del 2022, aveva mostrato che il 23% dei lituani preferirebbe emigrare piuttosto che imbracciare le armi.
Insomma, i governi liberal-reazionari cercano di correre ai ripari: dopotutto, “tra cinque anni, o forse anche prima, la Russia invaderà un paese europeo, o forse più di uno”, assicura Voldemort-Kubilius dalla quarta bolgia dell’ottavo cerchio...
Così, vari paesi, come «la Polonia, pensano al ritorno della coscrizione obbligatoria». Danimarca e Grecia non l’hanno mai fermata. Dopotutto, gli stessi sondaggi europeisti mostrano che, quando si chiede quali siano le questioni che preoccupano gli europei, la Russia scompare dalla lista, mentre vanno al primo posto i prezzi, le tasse, le pensioni.
Anche perché – vedano, signori di The Economist, ma anche de La Stampa, Corriere della Sera e fogliacci vari – quando il discorso verte sulla guerra, su chi “aggredisca” e chi “si difenda”, o chi addirittura invochi la “difesa preventiva”, non sono in molti a credere alla vostra favola infantil-ingenua secondo cui «di notte, uno ha agguantato un altro alla gola e i vicini sono costretti a salvare la vittima dell’attacco... non permettiamo di farci ingannare e consentire ai consiglieri borghesi di spiegare la guerra così, semplicisticamente, per cui, dicono, vivevano in pace, poi uno ha aggredito e l’altro si è difeso» (Lenin).
Bolgia di consiglieri di frode che non siete altro.
Fonte
05/06/2025
UK, Starmer va alla guerra ma non ha i soldi per farla
"Era instabile" o leader politici inadeguati?
«Il mondo è cambiato e stiamo entrando in una nuova era di instabilità. Per cui, se si vuole prevenire un conflitto, il modo migliore è prepararsi». Parole di fuoco, molto pericolose, perché hanno un indirizzo preciso (la Russia) e, soprattutto, perché sono strategicamente contraddittorie. Parlano di ‘difesa’, ma in effetti, come vedremo, mascherano altri interessi, mirati su scacchieri abbastanza lontani dalle isole britanniche. Certo, una volta gli statisti venivano scelti per il loro equilibrio, e quando nell’aria soffiava vento di burrasca (politica), avevano almeno il buonsenso di stare zitti. Lui, no. Ha una situazione sociale e finanziaria decisamente compromessa in casa, ma pensa a una politica estera ‘muscolare’, per la quale bisognerà spendere e spandere.
Ruolo sovranazionale del complesso militare-industriale
Pazzo, o ha i suoi motivi? Il ruolo sovranazionale del complesso militare-industriale. Solo che nel Regno Unito non ci sono sterline sufficienti, per poter giocare ai soldatini. Così, l’erede di quella che fu la grande tradizione socialdemocratica britannica, si è messo a ragionare come il più improvvisato dei piazzisti: vende «sicurezza». Ci spieghiamo. A Mr. Starmer gli inglesi hanno offerto il potere su un piatto d’argento. I conservatori, da Boris Johnson in poi (ma anche prima), hanno gestito il potere nel peggiore dei modi e la Brexit (a nostro giudizio) è stato il colpo finale. Un’Inghilterra in mutande, dunque, con la crisi ‘perfetta’ scaturita dalla combinazione di pandemia, guerra in Ucraina (sanzioni e crisi energetica) e inflazione alle stelle, si è rivolta elettoralmente ai laburisti, per risollevarsi. E Starmer ha schiacciato i Tories come un bulldozer. Da quando è arrivato a Downing Street, però, sono anche cominciati i suoi guai. I conti dello Stato non vanno quasi mai d’accordo con le promesse elettorali. Ma Starmer ha fatto di peggio, cominciando a tagliare il welfare e studiando nuove tasse. Insomma, oggi si ritrova, lui socialista, sullo stesso scalcinato caicco di Trump.
Financial Times
Sentite cosa riporta, a tal proposito, il Financial Times in un articolo che sembra fatto apposta per sbugiardare la socialdemocrazia ‘riveduta e corretta’ di Starmer: «La Nato ha invitato i membri ad aumentare la spesa al 3,5% del Pil. Starmer ha insistito sul fatto che il ‘primo dovere’ del Primo ministro è garantire la sicurezza del Paese. Ma il governo – aggiunge FT – si trova ad affrontare pressioni contrastanti, con la popolarità del Partito laburista in forte calo nei sondaggi, mentre si prepara a tagliare i fondi per l’assistenza sociale. Intervenuto a Glasgow, Starmer ha dichiarato di essere ‘sicuro al 100% che questo obiettivo può essere raggiunto’, quando gli è stato chiesto dell’obiettivo del 3%, ma ha comunque rifiutato di fornire una data precisa. ‘Ci impegniamo a spendere quanto necessario per realizzare questa revisione’. Starmer – sottolinea sempre il Financial Times – ha affermato che coloro che, come il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, hanno criticato lo squilibrio tra la spesa per la difesa statunitense ed europea nella Nato ‘avevano ragione’. E ha aggiunto che ‘dobbiamo tutti fare un passo avanti’».
Un passo avanti sulle spalle di chi?
Lui l’ha fatto, pensando, in un primo momento, di tagliare i sussidi ai pensionati e agli invalidi. Poi ci ha ripensato. Molti commentatori hanno parlato di una vera e propria rivolta, dentro la base del Partito laburista. Altri, hanno guardato alle recenti elezioni comunali, dove i ‘populisti’ di Farage hanno sbaragliato la concorrenza. Starmer deve fare molta attenzione, a casa e all’estero. In Inghilterra, se continua nella sua ‘politica dello struzzo’, spianerà la strada a UK Reform di Farage. Cos’è questa politica? Fare finta di niente e scaricare tutto il peso delle controversie contabili sulle fragili spalle del Cancelliere dello Scacchiere, la “ministra” Reeves, che deve coprire i buchi creati dalle spese militari di Starmer. Un esborso gravoso, perché si tratta di programmi poliennali, che una volta cominciati non si possono lasciare a metà. E che con la ‘sicurezza’ c’entrano molto di striscio.
Strategic Defense Review britannica
La nuova Strategic Defense Review britannica (marzo 2025), sottoscritta dal governo, chiarisce che gli interessi nazionali ora si spostano fino al Polo Nord e, comunque, nelle aree (Groenlandia?) ricche di risorse naturali. Ma non scordano l’Indo-Pacifico, dove gli interessi commerciali del Commonwealth sono sempre prioritari. E infatti, una delle alleanze militari di cui si parla poco è l’Aukus, con Stati Uniti e Australia. Dunque, ci chiarisce il Financial Times, «secondo il piano SDR 2025, la Gran Bretagna costruirà circa una dozzina di nuovi sottomarini d’attacco e ha affermato di aver avviato un importante programma di riarmo. Si prevede che il governo prometta ingenti investimenti in sottomarini, missili a lungo raggio, difesa informatica e 1,5 miliardi di sterline per almeno sei nuove fabbriche di munizioni. Lunedì – fa notare il FT – le azioni delle aziende britanniche (ma guarda! n.d.r.) che si occupano della difesa sono aumentate, con Babcock International, che si occupa della manutenzione della flotta sottomarina della Royal Navy, che ha registrato un rialzo di oltre il 7,5%, raggiungendo il massimo degli ultimi otto anni».
Iperboliche spese militari, fantasie irresponsabili
In totale, sono 62 le ‘raccomandazioni’ della Strategic Defense Review, accettate dal governo. Si va, dai 15 miliardi di sterline in nuove testate nucleari, ai 12 nuovi sottomarini atomici d’attacco sviluppati entro 10 anni con la partnership Aukus. Secondo Sid Kaushal, esperto di guerra navale, ogni unità potrebbe costare circa 2,6 miliardi di sterline. L’SDR ha inoltre indicato l’acquisto di nuovi caccia stealth F-35 e del Global Combat Aircraft Programme, un caccia di ultima generazione che sarà prodotto da Regno Unito, Italia e Giappone. L’impegno britannico dovrebbe essere di 10-12 miliardi di sterline. Quello italiano e giapponese leggermente inferiore (10 miliardi di euro?). Gli F-35l, in dotazione anche all’Italia, in assetto da combattimento (full optional) arrivano a 100 milioni di dollari cadauno. Mentre per i sommergibili nucleari d’attacco, da cominciare a fabbricare mentre taglia i sussidi ai pensionati, Starmer se la caverà con quasi 3 miliardi di dollari. L’uno. Sarà contento Trump. Ma saranno felici pure i populisti inglesi: alle prossime elezioni.
Fonte
«Il mondo è cambiato e stiamo entrando in una nuova era di instabilità. Per cui, se si vuole prevenire un conflitto, il modo migliore è prepararsi». Parole di fuoco, molto pericolose, perché hanno un indirizzo preciso (la Russia) e, soprattutto, perché sono strategicamente contraddittorie. Parlano di ‘difesa’, ma in effetti, come vedremo, mascherano altri interessi, mirati su scacchieri abbastanza lontani dalle isole britanniche. Certo, una volta gli statisti venivano scelti per il loro equilibrio, e quando nell’aria soffiava vento di burrasca (politica), avevano almeno il buonsenso di stare zitti. Lui, no. Ha una situazione sociale e finanziaria decisamente compromessa in casa, ma pensa a una politica estera ‘muscolare’, per la quale bisognerà spendere e spandere.
Ruolo sovranazionale del complesso militare-industriale
Pazzo, o ha i suoi motivi? Il ruolo sovranazionale del complesso militare-industriale. Solo che nel Regno Unito non ci sono sterline sufficienti, per poter giocare ai soldatini. Così, l’erede di quella che fu la grande tradizione socialdemocratica britannica, si è messo a ragionare come il più improvvisato dei piazzisti: vende «sicurezza». Ci spieghiamo. A Mr. Starmer gli inglesi hanno offerto il potere su un piatto d’argento. I conservatori, da Boris Johnson in poi (ma anche prima), hanno gestito il potere nel peggiore dei modi e la Brexit (a nostro giudizio) è stato il colpo finale. Un’Inghilterra in mutande, dunque, con la crisi ‘perfetta’ scaturita dalla combinazione di pandemia, guerra in Ucraina (sanzioni e crisi energetica) e inflazione alle stelle, si è rivolta elettoralmente ai laburisti, per risollevarsi. E Starmer ha schiacciato i Tories come un bulldozer. Da quando è arrivato a Downing Street, però, sono anche cominciati i suoi guai. I conti dello Stato non vanno quasi mai d’accordo con le promesse elettorali. Ma Starmer ha fatto di peggio, cominciando a tagliare il welfare e studiando nuove tasse. Insomma, oggi si ritrova, lui socialista, sullo stesso scalcinato caicco di Trump.
Financial Times
Sentite cosa riporta, a tal proposito, il Financial Times in un articolo che sembra fatto apposta per sbugiardare la socialdemocrazia ‘riveduta e corretta’ di Starmer: «La Nato ha invitato i membri ad aumentare la spesa al 3,5% del Pil. Starmer ha insistito sul fatto che il ‘primo dovere’ del Primo ministro è garantire la sicurezza del Paese. Ma il governo – aggiunge FT – si trova ad affrontare pressioni contrastanti, con la popolarità del Partito laburista in forte calo nei sondaggi, mentre si prepara a tagliare i fondi per l’assistenza sociale. Intervenuto a Glasgow, Starmer ha dichiarato di essere ‘sicuro al 100% che questo obiettivo può essere raggiunto’, quando gli è stato chiesto dell’obiettivo del 3%, ma ha comunque rifiutato di fornire una data precisa. ‘Ci impegniamo a spendere quanto necessario per realizzare questa revisione’. Starmer – sottolinea sempre il Financial Times – ha affermato che coloro che, come il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, hanno criticato lo squilibrio tra la spesa per la difesa statunitense ed europea nella Nato ‘avevano ragione’. E ha aggiunto che ‘dobbiamo tutti fare un passo avanti’».
Un passo avanti sulle spalle di chi?
Lui l’ha fatto, pensando, in un primo momento, di tagliare i sussidi ai pensionati e agli invalidi. Poi ci ha ripensato. Molti commentatori hanno parlato di una vera e propria rivolta, dentro la base del Partito laburista. Altri, hanno guardato alle recenti elezioni comunali, dove i ‘populisti’ di Farage hanno sbaragliato la concorrenza. Starmer deve fare molta attenzione, a casa e all’estero. In Inghilterra, se continua nella sua ‘politica dello struzzo’, spianerà la strada a UK Reform di Farage. Cos’è questa politica? Fare finta di niente e scaricare tutto il peso delle controversie contabili sulle fragili spalle del Cancelliere dello Scacchiere, la “ministra” Reeves, che deve coprire i buchi creati dalle spese militari di Starmer. Un esborso gravoso, perché si tratta di programmi poliennali, che una volta cominciati non si possono lasciare a metà. E che con la ‘sicurezza’ c’entrano molto di striscio.
Strategic Defense Review britannica
La nuova Strategic Defense Review britannica (marzo 2025), sottoscritta dal governo, chiarisce che gli interessi nazionali ora si spostano fino al Polo Nord e, comunque, nelle aree (Groenlandia?) ricche di risorse naturali. Ma non scordano l’Indo-Pacifico, dove gli interessi commerciali del Commonwealth sono sempre prioritari. E infatti, una delle alleanze militari di cui si parla poco è l’Aukus, con Stati Uniti e Australia. Dunque, ci chiarisce il Financial Times, «secondo il piano SDR 2025, la Gran Bretagna costruirà circa una dozzina di nuovi sottomarini d’attacco e ha affermato di aver avviato un importante programma di riarmo. Si prevede che il governo prometta ingenti investimenti in sottomarini, missili a lungo raggio, difesa informatica e 1,5 miliardi di sterline per almeno sei nuove fabbriche di munizioni. Lunedì – fa notare il FT – le azioni delle aziende britanniche (ma guarda! n.d.r.) che si occupano della difesa sono aumentate, con Babcock International, che si occupa della manutenzione della flotta sottomarina della Royal Navy, che ha registrato un rialzo di oltre il 7,5%, raggiungendo il massimo degli ultimi otto anni».
Iperboliche spese militari, fantasie irresponsabili
In totale, sono 62 le ‘raccomandazioni’ della Strategic Defense Review, accettate dal governo. Si va, dai 15 miliardi di sterline in nuove testate nucleari, ai 12 nuovi sottomarini atomici d’attacco sviluppati entro 10 anni con la partnership Aukus. Secondo Sid Kaushal, esperto di guerra navale, ogni unità potrebbe costare circa 2,6 miliardi di sterline. L’SDR ha inoltre indicato l’acquisto di nuovi caccia stealth F-35 e del Global Combat Aircraft Programme, un caccia di ultima generazione che sarà prodotto da Regno Unito, Italia e Giappone. L’impegno britannico dovrebbe essere di 10-12 miliardi di sterline. Quello italiano e giapponese leggermente inferiore (10 miliardi di euro?). Gli F-35l, in dotazione anche all’Italia, in assetto da combattimento (full optional) arrivano a 100 milioni di dollari cadauno. Mentre per i sommergibili nucleari d’attacco, da cominciare a fabbricare mentre taglia i sussidi ai pensionati, Starmer se la caverà con quasi 3 miliardi di dollari. L’uno. Sarà contento Trump. Ma saranno felici pure i populisti inglesi: alle prossime elezioni.
Fonte
20/05/2025
Ricomposizione tra UE e UK, a far da paciere è la guerra
Ieri a Londra il primo ministro britannico Starmer e i vertici UE – Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas – hanno raggiunto un’intesa fondamentale per l’evoluzione delle relazioni post-Brexit tra Regno Unito e Unione Europea. Non tutti i dossier erano di facile risoluzione visti gli interessi contrastanti, ma la tendenza alla guerra alla fine ha riavvicinato i due attori dello scenario internazionale.
Sono tre, in realtà, i testi concordati ieri mattina dagli sherpa e poi approvati dai politici appena menzionati. Il primo è una dichiarazione congiunta, il secondo è un partenariato di difesa e sicurezza, il terzo esprime invece una nuova agenda per la cooperazione tra Bruxelles e Londra. Riassumiamone in breve il contenuto.
La dichiarazione congiunta ha il sapore dell’inquadramento strategico di quali obiettivi si pongono i paesi europei. Viene subito affermata l’importanza del libero commercio – stoccata a Trump – seguita dal riconoscimento dell’imprescindibile cooperazione transatlantica, e dal ruolo della NATO come pilastro della difesa collettiva.
Ovviamente, poi, c’è il sostegno all’Ucraina, le accuse alla Russia e all’Iran, la ricerca della stabilità tra India e Pakistan e nei Balcani, la promozione di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. Il solito che siamo abituati a sentire dai governanti occidentali, ma senza delineare iniziative concrete di alcun tipo.
Vengono poi accennati anche gli sforzi di collaborazione che torneranno negli altri testi, ma soprattutto è importante riportare che è stata decisa una consultazione semestrale tra i ministri della Difesa e degli Esteri britannici e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ruolo oggi ricorperto da Kallas.
È proprio la partnership su difesa e sicurezza a rappresentare il cuore degli accordi. Intelligence e contrasto alle minacce ibride, spazio, IA e tecnologie avanzate, dialogo su missioni marittime come quelle nel Mar Rosso, lotta ai flussi migratori irregolari, mobilità militare per mezzo della partecipazione del Regno Unito al programma relativo della PESCO, iniziativa europea sulla difesa comune.
Infine, il mantenimento e l’accrescimento delle partecipazioni comuni nell’industria militare, e l’inserimento di Londra nell’orizzonte del Readiness 2030. “Questo è il primo passo verso la partecipazione del Regno Unito al programma europeo di investimenti per la difesa SAFE”, ha detto von der Leyen, citando quello che era poi il grande tema dell’incontro.
Infine, la nuova agenda di cooperazione pone le basi per il futuro dialogo su vari temi, e già ora prende alcune decisioni in merito. Vengono alleggeriti i controlli doganali su alimenti e prodotti vegetali, decisione che, secondo Downing Street, porterà nelle casse di Londra oltre 10 miliardi di euro entro il 2040.
Viene espressa la volontà di lavorare sulla facilitazione dei controlli alle frontiere, in particolare per ciò che riguarda i turisti. Il testo cita poi l’integrazione del Regno Unito nello spazio universitario europeo attraverso il programma Erasmus+, criticato dal precedente governo di Londra, appena un anno fa.
Viene favorita la futura cooperazione nel campo dell’energia e delle tecnologie, si lavorerà al collegamento tra i mercati delle emissioni e il Regno Unito potrà evitare dazi sul suo acciaio. Infine, per quanto riguarda il controverso accordo sulla pesca, viene previsto il pieno accesso reciproco alle rispettive acque fino al 30 giugno 2038, allungando di 12 anni l’accordo oggi in vigore.
Il tema dei diritti di pesca era stato largamente cavalcato dai fautori della Brexit, e quindi, pur rappresentando solo lo 0,4% del PIL, ha un portato simbolico e politico non indifferente. Preventivando già questo risultato dell’incontro, sui giornali si è letto più di una volta che queste negoziazioni avrebbero dovuto rappresentare una sorta di reset della Brexit. Ma si tratta di una semplificazione.
Senza dubbio, l’intesa di ieri segna un forte riavvicinamento tra Londra e Bruxelles, e probabilmente anche per questo l’inquilino di Downing Street aveva espresso la volontà di evitare clamore mediatico intorno alle trattative. Ma nella sostanza si tratta di un accordo di partenariato strategico a tutto tondo tra realtà già profondamente interconnesse, più che l’ammissione del fallimento della Brexit.
O almeno, non nel senso che gli ultras europeisti vogliono propagandarci. Ad esempio, da entrambi i lati della Manica negli ultimi giorni varie voci hanno ricordato un’indagine pubblicata da The Indipendent a inizio del 2025, sui costi della Brexit. Solo l’accordo di ‘divorzio’ dalla UE sarebbe costato oltre 30 milioni di sterline, a cui vanno aggiunti le perdite sul lato di esportazioni, investimenti, e così via.
Numeri che non possiamo mettere in dubbio, ma che dovrebbero essere calati nel contesto di crisi che viviamo. Se pensiamo ai paesi della comunità europea, di certo non se la passano bene, con una crisi industriale che non accenna a fermarsi. Se parliamo di opportunità di investimento, bisognerebbe chiedersi a quante opportunità e investimenti ha perso l’Italia uscendo dalla Nuova Via della Seta.
Certo, qualche preoccupazione una parte della classe dirigente britannica deve averla provata, se pensiamo al ruolo che aveva nella fornitura di servizi finanziari ai paesi UE. Bisogna ricordare che la City di Londra produce una fetta importante del PIL del Regno Unito e rappresentava una sorta di porta d’ingresso dei capitali ai mercati europei.
Ma la realtà è che le velleità imperiali che ancora la Corona di Re Carlo rappresenta stanno facendo i conti con uno scenario globale in cui quel ruolo ormai è perso e irrecuperabile. La Brexit rappresenta semmai un fallimento nel senso che la rottura euroatlantica praticata da Trump ha scompaginato l’orizzonte che la politica britannica si era costruita dopo il 2016.
“C’era chi diceva che la Brexit fosse un’opportunità per adottare una politica estera indipendente in Europa, invece di essere sempre allineati con Francia e Germania. Ma oggi non lo dice più nessuno”, ha spiegato Ian Bond, vicedirettore del Center for European Reform, e questo parole danno la sostanza del perché strategico degli accordi firmati a Londra.
La misura del fallimento della rottura decisa con la UE non si valuta sulle promesse non mantenute, tipo quella di spendere 350 milioni di sterline sul sistema sanitario ogni settimana, dato che anche nella ricerca di nuove ipotesi strategiche era impensabile che politici votati al profitti si imbarcassero in questo cambio di rotta.
Si valuta piuttosto sull’incapacità di leggere le tendenze di fondo della competizione globale, e del non aver compreso che la possibilità di giocarsi un ruolo di peso a livello internazionale facendo da punto di contatto tra le due sponde dell’Atlantico era fuori dalla realtà. È semmai questa consapevolezza che ora ha spinto Starmer a tentare di aggiustare il tiro con i vicini europei.
E non più di questo, consapevole anche di muoversi su un terreno delicato, visto il ritorno di Farage nell’agone elettorale. Downing Street ha provato a risolvere alcuni nodi spinosi, cercando di non perdere terreno sul nuovo Trump europeo, promuovendo intanto una delle più dure campagne antimigranti degli ultimi anni... alla faccia del governo di ‘sinistra’.
Ma il vero interesse era appunto quello di porre le basi della riconfigurazione del complesso militare-industriale europeo, con sinergie utili a entrambe le parti. Le attività di alcuni importanti colossi di armamenti britannici, come BAE Systems, si intrecciano già con i ‘campioni europei’ del settore bellico, e nel pieno del programma di riarmo non c’è nessuna intenzione di rompere questi legami.
Dal lato londinese della questione si guarda invece all’opportunità di accaparrarsi parte dei 150 miliardi del fondo SAFE, quelli previsti come prestito garantito dal bilancio UE per acquisti comuni tra più paesi, pensati in funzione di una difesa europea. Ciò significherebbe anche sanzionare definitivamente il ruolo che Londra vuole svolgere nel panorama geopolitico: d’intesa con l’imperialismo europeo.
Che fosse questo l’indirizzo che Starmer voleva intraprendere si vedeva già da qualche tempo. Se reggerà – sul piano interno nel confronto con Farage, su quello esterno nella capacità di Bruxelles di fare il salto di qualità dal punto di vista militare – è tutto da vedere.
Fonte
Sono tre, in realtà, i testi concordati ieri mattina dagli sherpa e poi approvati dai politici appena menzionati. Il primo è una dichiarazione congiunta, il secondo è un partenariato di difesa e sicurezza, il terzo esprime invece una nuova agenda per la cooperazione tra Bruxelles e Londra. Riassumiamone in breve il contenuto.
La dichiarazione congiunta ha il sapore dell’inquadramento strategico di quali obiettivi si pongono i paesi europei. Viene subito affermata l’importanza del libero commercio – stoccata a Trump – seguita dal riconoscimento dell’imprescindibile cooperazione transatlantica, e dal ruolo della NATO come pilastro della difesa collettiva.
Ovviamente, poi, c’è il sostegno all’Ucraina, le accuse alla Russia e all’Iran, la ricerca della stabilità tra India e Pakistan e nei Balcani, la promozione di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. Il solito che siamo abituati a sentire dai governanti occidentali, ma senza delineare iniziative concrete di alcun tipo.
Vengono poi accennati anche gli sforzi di collaborazione che torneranno negli altri testi, ma soprattutto è importante riportare che è stata decisa una consultazione semestrale tra i ministri della Difesa e degli Esteri britannici e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ruolo oggi ricorperto da Kallas.
È proprio la partnership su difesa e sicurezza a rappresentare il cuore degli accordi. Intelligence e contrasto alle minacce ibride, spazio, IA e tecnologie avanzate, dialogo su missioni marittime come quelle nel Mar Rosso, lotta ai flussi migratori irregolari, mobilità militare per mezzo della partecipazione del Regno Unito al programma relativo della PESCO, iniziativa europea sulla difesa comune.
Infine, il mantenimento e l’accrescimento delle partecipazioni comuni nell’industria militare, e l’inserimento di Londra nell’orizzonte del Readiness 2030. “Questo è il primo passo verso la partecipazione del Regno Unito al programma europeo di investimenti per la difesa SAFE”, ha detto von der Leyen, citando quello che era poi il grande tema dell’incontro.
Infine, la nuova agenda di cooperazione pone le basi per il futuro dialogo su vari temi, e già ora prende alcune decisioni in merito. Vengono alleggeriti i controlli doganali su alimenti e prodotti vegetali, decisione che, secondo Downing Street, porterà nelle casse di Londra oltre 10 miliardi di euro entro il 2040.
Viene espressa la volontà di lavorare sulla facilitazione dei controlli alle frontiere, in particolare per ciò che riguarda i turisti. Il testo cita poi l’integrazione del Regno Unito nello spazio universitario europeo attraverso il programma Erasmus+, criticato dal precedente governo di Londra, appena un anno fa.
Viene favorita la futura cooperazione nel campo dell’energia e delle tecnologie, si lavorerà al collegamento tra i mercati delle emissioni e il Regno Unito potrà evitare dazi sul suo acciaio. Infine, per quanto riguarda il controverso accordo sulla pesca, viene previsto il pieno accesso reciproco alle rispettive acque fino al 30 giugno 2038, allungando di 12 anni l’accordo oggi in vigore.
Il tema dei diritti di pesca era stato largamente cavalcato dai fautori della Brexit, e quindi, pur rappresentando solo lo 0,4% del PIL, ha un portato simbolico e politico non indifferente. Preventivando già questo risultato dell’incontro, sui giornali si è letto più di una volta che queste negoziazioni avrebbero dovuto rappresentare una sorta di reset della Brexit. Ma si tratta di una semplificazione.
Senza dubbio, l’intesa di ieri segna un forte riavvicinamento tra Londra e Bruxelles, e probabilmente anche per questo l’inquilino di Downing Street aveva espresso la volontà di evitare clamore mediatico intorno alle trattative. Ma nella sostanza si tratta di un accordo di partenariato strategico a tutto tondo tra realtà già profondamente interconnesse, più che l’ammissione del fallimento della Brexit.
O almeno, non nel senso che gli ultras europeisti vogliono propagandarci. Ad esempio, da entrambi i lati della Manica negli ultimi giorni varie voci hanno ricordato un’indagine pubblicata da The Indipendent a inizio del 2025, sui costi della Brexit. Solo l’accordo di ‘divorzio’ dalla UE sarebbe costato oltre 30 milioni di sterline, a cui vanno aggiunti le perdite sul lato di esportazioni, investimenti, e così via.
Numeri che non possiamo mettere in dubbio, ma che dovrebbero essere calati nel contesto di crisi che viviamo. Se pensiamo ai paesi della comunità europea, di certo non se la passano bene, con una crisi industriale che non accenna a fermarsi. Se parliamo di opportunità di investimento, bisognerebbe chiedersi a quante opportunità e investimenti ha perso l’Italia uscendo dalla Nuova Via della Seta.
Certo, qualche preoccupazione una parte della classe dirigente britannica deve averla provata, se pensiamo al ruolo che aveva nella fornitura di servizi finanziari ai paesi UE. Bisogna ricordare che la City di Londra produce una fetta importante del PIL del Regno Unito e rappresentava una sorta di porta d’ingresso dei capitali ai mercati europei.
Ma la realtà è che le velleità imperiali che ancora la Corona di Re Carlo rappresenta stanno facendo i conti con uno scenario globale in cui quel ruolo ormai è perso e irrecuperabile. La Brexit rappresenta semmai un fallimento nel senso che la rottura euroatlantica praticata da Trump ha scompaginato l’orizzonte che la politica britannica si era costruita dopo il 2016.
“C’era chi diceva che la Brexit fosse un’opportunità per adottare una politica estera indipendente in Europa, invece di essere sempre allineati con Francia e Germania. Ma oggi non lo dice più nessuno”, ha spiegato Ian Bond, vicedirettore del Center for European Reform, e questo parole danno la sostanza del perché strategico degli accordi firmati a Londra.
La misura del fallimento della rottura decisa con la UE non si valuta sulle promesse non mantenute, tipo quella di spendere 350 milioni di sterline sul sistema sanitario ogni settimana, dato che anche nella ricerca di nuove ipotesi strategiche era impensabile che politici votati al profitti si imbarcassero in questo cambio di rotta.
Si valuta piuttosto sull’incapacità di leggere le tendenze di fondo della competizione globale, e del non aver compreso che la possibilità di giocarsi un ruolo di peso a livello internazionale facendo da punto di contatto tra le due sponde dell’Atlantico era fuori dalla realtà. È semmai questa consapevolezza che ora ha spinto Starmer a tentare di aggiustare il tiro con i vicini europei.
E non più di questo, consapevole anche di muoversi su un terreno delicato, visto il ritorno di Farage nell’agone elettorale. Downing Street ha provato a risolvere alcuni nodi spinosi, cercando di non perdere terreno sul nuovo Trump europeo, promuovendo intanto una delle più dure campagne antimigranti degli ultimi anni... alla faccia del governo di ‘sinistra’.
Ma il vero interesse era appunto quello di porre le basi della riconfigurazione del complesso militare-industriale europeo, con sinergie utili a entrambe le parti. Le attività di alcuni importanti colossi di armamenti britannici, come BAE Systems, si intrecciano già con i ‘campioni europei’ del settore bellico, e nel pieno del programma di riarmo non c’è nessuna intenzione di rompere questi legami.
Dal lato londinese della questione si guarda invece all’opportunità di accaparrarsi parte dei 150 miliardi del fondo SAFE, quelli previsti come prestito garantito dal bilancio UE per acquisti comuni tra più paesi, pensati in funzione di una difesa europea. Ciò significherebbe anche sanzionare definitivamente il ruolo che Londra vuole svolgere nel panorama geopolitico: d’intesa con l’imperialismo europeo.
Che fosse questo l’indirizzo che Starmer voleva intraprendere si vedeva già da qualche tempo. Se reggerà – sul piano interno nel confronto con Farage, su quello esterno nella capacità di Bruxelles di fare il salto di qualità dal punto di vista militare – è tutto da vedere.
Fonte
25/04/2025
La spesa militare in Italia nel 2025. Il trucco del Mef
Negli ultimi giorni diversi esponenti del governo (dal ministro dell’Economia al ministro della Difesa) hanno confermato l’intenzione dell’esecutivo di raggiungere il tanto chiacchierato obiettivo del 2% del prodotto interno lordo (Pil) in spesa militare.
Ne ha parlato anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nell’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump. Ma come si potrà raggiungere tale livello e quale sarà la cifra reale da mettere sul tavolo? Prima di analizzare i freddi numeri, occorrono due premesse.
Come nasce l’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare
La prima riguarda l’obiettivo ormai preso a punto di riferimento. Che – va sempre ricordato – non è una semplice applicazione di una richiesta Nato già prevista e decisa in maniera definitiva.
L’indicazione ai Paesi membri di dover raggiungere almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei ministri della Difesa. È stato ulteriormente rilanciato durante il vertice dei Capi di Stato e di governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. E poi ripetuto come un mantra negli ultimi anni per farlo passare come assodato e finalizzato.
In realtà, dal punto di vista formale, si tratta di “Dichiarazioni di intenti” mai ratificate da alcun Parlamento con forza normativa e obbligo vincolante per il bilancio dello Stato (cosa per cui non basta l’approvazione di mozioni di indirizzo).
Inoltre l’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari.
Collega inoltre una previsione di spesa pubblica a un parametro che non si può definire preventivamente (nessuno sa ancora quale sarà il Pil del 2025, ad esempio). Un parametro che, per giunta, è soggetto a fluttuazioni impreviste (si pensi al crollo inaspettato durante il Covid-19) e comprende nel suo conteggio anche la ricchezza privata.
Insomma, è un parametro aleatorio che va oltre i fondi pubblici realmente a disposizione dello Stato (e dunque delle decisioni governative). Ed è per giunta scollegato da reali esigenze tecnico-militari. In poche parole, un artificio per poter aumentare la spesa militare “giustificandola” con un pre-giudizio intoccabile senza entrare nel merito delle motivazioni o necessità reali.
Quanto vale nel suo insieme la spesa militare italiana
La seconda premessa riguarda il valore complessivo della spesa militare italiana. L’Osservatorio Mil€x lo ricava da una metodologia in linea con gli standard internazionali e dalla possibilità di effettuare un’analisi dettagliata dei documenti della Legge di Bilancio. Con questo metodo, ha calcolato per il 2025 una spesa militare totale “diretta” di poco più di 32 miliardi di euro. Pari a un rapporto dell’1,42% sul Pil previsionale Nadef calcolato a fine anno scorso (ma comunque in discesa nelle successive previsioni). Il conteggio non considera le quote parte di progetti europei, che non rientrano nel calcolo dell’obiettivo Nato.
Abbiamo già sottolineato come le stime Mil€x siano state sempre storicamente allineate ai ricalcoli di spesa militare che il ministero della Difesa esegue, esplicitandoli nel Documento programmatico pluriennale per la difesa (Dpp), per organizzazioni come l’Ocse (200 milioni di differenza con Mil€x sul 2024) o istituti di ricerca come il Sipri (600 milioni di differenza con Mil€x sul 2024). Le nostre stime sono state sempre più conservative rispetto a quelle calcolate dal ministero anche con altre metodologie. Soprattutto in relazione al cosiddetto “bilancio in chiave Nato” che vede sempre cifre molto più alte.
Per il dato 2024 la differenza con i nostri dati era di ben 3,8 miliardi in più.
Gli espedienti del governo per allinearsi all’obiettivo della spesa militare al 2% del Pil
Partendo da questo livello di spesa, per raggiungere subito il 2% del Pil – ovvero 45,1 miliardi considerando il valore odierno dichiarato – si dovrebbe concretizzare un investimento aggiuntivo di almeno 9,7 miliardi. Un investimento enorme per le casse statali italiane. Infatti il Mef punta a tagliarlo di qualche miliardo presentando alla Nato una spesa militare che comprenda anche altre voci già a bilancio ma finora non considerate.
Il secondo espediente, che ricorda l’aneddoto di certi carri armati spostati da una parte all’altra per far percepire un totale complessivo di armamenti maggiore del reale...
I tentativi di conteggiare le spese relative ad altri corpi militari
La valutazione aggiuntiva riguarda le spese relative ad altri corpi militari difficilmente compatibili con le linee guida dell’Alleanza su cosa sia e cosa non sia considerabile come spesa per la difesa. Non solo Carabinieri (costo totale: oltre 7 miliardi) ma anche Guardia Costiera a carico del ministero dei Trasporti (per oltre 3 miliardi) e Guardia di Finanza a carico del Mef (per quasi 1 miliardo).
Nei documenti Nato si legge che tali costi «possono anche includere reparti di altre forze (ma) solo in proporzione alle forze che sono addestrate secondo tattiche militari, equipaggiate come una forza militare, in grado di operare sotto autorità militare diretta durante operazioni schierate, e realisticamente impiegabili al di fuori del territorio nazionale a supporto di una forza militare».
Questo già accade per i Carabinieri. Attualmente la Difesa fornisce alla Nato solo il costo «della quota parte afferente al personale dell’Arma dei Carabinieri impiegabile presso i Teatri Operativi del Fuori Area (c.d. deployable), fissata in complessive 8.600 unità» su un totale di circa 110mila. L’ultima quantificazione di questa spesa è stata resa pubblica per il 2020 ed era pari a 543 milioni l’anno.
Se vorrà trovare fondi reali, il governo dovrà tagliare altre spese
Difficilmente la Nato accetterebbe di ricomprendere ulteriori spese relative ai Carabinieri, che solo in caso di guerra sul territorio italiano contribuirebbero davvero alla difesa nazionale. Per la stessa ragione sarà arduo ottenere dall’Alleanza atlantica il via libera al conteggio dei costi di 11mila guardiacoste e 64mila finanzieri tra le spese per la difesa. Due corpi di polizia – marittima e tributaria – che avrebbero un ruolo di contributo alla difesa territoriale e costiera ancora una volta solo in caso di conflitto conclamato.
Non è la prima volta che l’Italia avanza questa proposta in sede Nato, e finora è sempre stata rigettata. Se dunque il governo Meloni vorrà raggiungere i circa 45 miliardi di euro in spesa militare che metterebbero l’Italia in linea con gli obiettivi non vincolanti definiti in chiave Nato (e forse obsoleti, visto che già si parla di 3,5% o addirittura 5% sul Pil...), dovrà trovare fondi “reali” da mettere sul tavolo. Con il probabile taglio di altre voci di spesa nel bilancio dello Stato.
*Mil€x – Osservatorio contro le spese militari è un progetto lanciato per realizzare un primo Rapporto annuale sulle spese militari italiane (pubblicato ad inizio 2017) che è servito come base per la creazione di un Osservatorio stabile sul tema. L’Osservatorio è stato promosso da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca con la collaborazione e la struttura operativa del Movimento Nonviolento (nell’ambito delle attività della Rete italiana pace e disarmo).
Fonte
Ne ha parlato anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nell’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump. Ma come si potrà raggiungere tale livello e quale sarà la cifra reale da mettere sul tavolo? Prima di analizzare i freddi numeri, occorrono due premesse.
Come nasce l’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare
La prima riguarda l’obiettivo ormai preso a punto di riferimento. Che – va sempre ricordato – non è una semplice applicazione di una richiesta Nato già prevista e decisa in maniera definitiva.
L’indicazione ai Paesi membri di dover raggiungere almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei ministri della Difesa. È stato ulteriormente rilanciato durante il vertice dei Capi di Stato e di governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. E poi ripetuto come un mantra negli ultimi anni per farlo passare come assodato e finalizzato.
In realtà, dal punto di vista formale, si tratta di “Dichiarazioni di intenti” mai ratificate da alcun Parlamento con forza normativa e obbligo vincolante per il bilancio dello Stato (cosa per cui non basta l’approvazione di mozioni di indirizzo).
Inoltre l’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari.
Collega inoltre una previsione di spesa pubblica a un parametro che non si può definire preventivamente (nessuno sa ancora quale sarà il Pil del 2025, ad esempio). Un parametro che, per giunta, è soggetto a fluttuazioni impreviste (si pensi al crollo inaspettato durante il Covid-19) e comprende nel suo conteggio anche la ricchezza privata.
Insomma, è un parametro aleatorio che va oltre i fondi pubblici realmente a disposizione dello Stato (e dunque delle decisioni governative). Ed è per giunta scollegato da reali esigenze tecnico-militari. In poche parole, un artificio per poter aumentare la spesa militare “giustificandola” con un pre-giudizio intoccabile senza entrare nel merito delle motivazioni o necessità reali.
Quanto vale nel suo insieme la spesa militare italiana
La seconda premessa riguarda il valore complessivo della spesa militare italiana. L’Osservatorio Mil€x lo ricava da una metodologia in linea con gli standard internazionali e dalla possibilità di effettuare un’analisi dettagliata dei documenti della Legge di Bilancio. Con questo metodo, ha calcolato per il 2025 una spesa militare totale “diretta” di poco più di 32 miliardi di euro. Pari a un rapporto dell’1,42% sul Pil previsionale Nadef calcolato a fine anno scorso (ma comunque in discesa nelle successive previsioni). Il conteggio non considera le quote parte di progetti europei, che non rientrano nel calcolo dell’obiettivo Nato.
Abbiamo già sottolineato come le stime Mil€x siano state sempre storicamente allineate ai ricalcoli di spesa militare che il ministero della Difesa esegue, esplicitandoli nel Documento programmatico pluriennale per la difesa (Dpp), per organizzazioni come l’Ocse (200 milioni di differenza con Mil€x sul 2024) o istituti di ricerca come il Sipri (600 milioni di differenza con Mil€x sul 2024). Le nostre stime sono state sempre più conservative rispetto a quelle calcolate dal ministero anche con altre metodologie. Soprattutto in relazione al cosiddetto “bilancio in chiave Nato” che vede sempre cifre molto più alte.
Per il dato 2024 la differenza con i nostri dati era di ben 3,8 miliardi in più.
Gli espedienti del governo per allinearsi all’obiettivo della spesa militare al 2% del Pil
Partendo da questo livello di spesa, per raggiungere subito il 2% del Pil – ovvero 45,1 miliardi considerando il valore odierno dichiarato – si dovrebbe concretizzare un investimento aggiuntivo di almeno 9,7 miliardi. Un investimento enorme per le casse statali italiane. Infatti il Mef punta a tagliarlo di qualche miliardo presentando alla Nato una spesa militare che comprenda anche altre voci già a bilancio ma finora non considerate.
Il secondo espediente, che ricorda l’aneddoto di certi carri armati spostati da una parte all’altra per far percepire un totale complessivo di armamenti maggiore del reale...
I tentativi di conteggiare le spese relative ad altri corpi militari
La valutazione aggiuntiva riguarda le spese relative ad altri corpi militari difficilmente compatibili con le linee guida dell’Alleanza su cosa sia e cosa non sia considerabile come spesa per la difesa. Non solo Carabinieri (costo totale: oltre 7 miliardi) ma anche Guardia Costiera a carico del ministero dei Trasporti (per oltre 3 miliardi) e Guardia di Finanza a carico del Mef (per quasi 1 miliardo).
Nei documenti Nato si legge che tali costi «possono anche includere reparti di altre forze (ma) solo in proporzione alle forze che sono addestrate secondo tattiche militari, equipaggiate come una forza militare, in grado di operare sotto autorità militare diretta durante operazioni schierate, e realisticamente impiegabili al di fuori del territorio nazionale a supporto di una forza militare».
Questo già accade per i Carabinieri. Attualmente la Difesa fornisce alla Nato solo il costo «della quota parte afferente al personale dell’Arma dei Carabinieri impiegabile presso i Teatri Operativi del Fuori Area (c.d. deployable), fissata in complessive 8.600 unità» su un totale di circa 110mila. L’ultima quantificazione di questa spesa è stata resa pubblica per il 2020 ed era pari a 543 milioni l’anno.
Se vorrà trovare fondi reali, il governo dovrà tagliare altre spese
Difficilmente la Nato accetterebbe di ricomprendere ulteriori spese relative ai Carabinieri, che solo in caso di guerra sul territorio italiano contribuirebbero davvero alla difesa nazionale. Per la stessa ragione sarà arduo ottenere dall’Alleanza atlantica il via libera al conteggio dei costi di 11mila guardiacoste e 64mila finanzieri tra le spese per la difesa. Due corpi di polizia – marittima e tributaria – che avrebbero un ruolo di contributo alla difesa territoriale e costiera ancora una volta solo in caso di conflitto conclamato.
Non è la prima volta che l’Italia avanza questa proposta in sede Nato, e finora è sempre stata rigettata. Se dunque il governo Meloni vorrà raggiungere i circa 45 miliardi di euro in spesa militare che metterebbero l’Italia in linea con gli obiettivi non vincolanti definiti in chiave Nato (e forse obsoleti, visto che già si parla di 3,5% o addirittura 5% sul Pil...), dovrà trovare fondi “reali” da mettere sul tavolo. Con il probabile taglio di altre voci di spesa nel bilancio dello Stato.
*Mil€x – Osservatorio contro le spese militari è un progetto lanciato per realizzare un primo Rapporto annuale sulle spese militari italiane (pubblicato ad inizio 2017) che è servito come base per la creazione di un Osservatorio stabile sul tema. L’Osservatorio è stato promosso da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca con la collaborazione e la struttura operativa del Movimento Nonviolento (nell’ambito delle attività della Rete italiana pace e disarmo).
Fonte
23/04/2025
Italia - Il riarmo è già in corso, con programmi per 73 miliardi di euro
Ci si interroga sulla necessità per l’Italia di riarmarsi per far fronte a eventuali minacce esterne. La risposta è che il riarmo italiano è già in corso con piani che, una volta giunti a compimento, faranno del nostro Paese una delle principali potenze militari europee.
Passando in rassegna i principali nuovi programmi pluriennali di riarmo recentemente approvati o decisi, risulta discutibile la necessità di programmare nuove spese in tal senso, considerando il costo complessivo solo di questi programmi – e ve ne sono molti altri.
Aeronautica
Il programma Eurofighter è stato appena incrementato con l’ordine di altri 24 caccia Typhoon (7,5 mld) che si aggiungono ai 93 in servizio. Altrettanto si prevede di fare per il programma F-35 con la richiesta di altri 25 bombardieri (7 mld) in aggiunta ai 90 già ordinati.
L’Aeronautica italiana sta inoltre potenziando due flotte altamente strategiche: quella – unica in Europa – di aerei radar e per la guerra elettronica basata sui Gulfstream G550 – ne ha 3 cui se ne aggiungeranno altri 2 (550 milioni) – richiestissimi per le operazioni Nato sul fronte orientale; e quella delle aerocisterne per il rifornimento in volo basata sui KC-767 – ne ha 4 cui se ne aggiungeranno altre 2 (1,3 mld). Infine, dopo anni di titubanze, si sta anche dotando di una flotta di droni armati basata sui Falco di produzione nazionale e forse anche sui Reaper americani.
Marina
Alle 10 fregate lanciamissili Fremm se ne aggiungeranno altre 2 (1,5 mld), mentre proseguono spediti i programmi di costruzione e consegna dei 7 pattugliatori d’altura PPA (5,7 mld) e dei 4 pattugliatori leggeri PPX (1,2 mld), a cui si aggiungeranno anche 4 corvette europee in fase di studio e due nuove navi per operazioni speciali subacque, Olterra (60 milioni) e Ubos (35 milioni).
Ai due cacciatorpediniere Orizzonte in fase di radicale potenziamento (1 mld) si affiancheranno due nuovi super-cacciatorpediniere/incrociatori DDX (2,7 mld). Dopo il recente varo della nuova ammiraglia della flotta, la “Trieste”, seconda portaerei per gli F-35B (1,2 mld), sono in cantiere altri 4 sommergibili U212 (2,7 mld) che forse diventeranno 6, 12 nuovi cacciamine (2,6 mld per i primi 8) e 3 navi da sbarco (con dislocamento doppio delle 3 “Santi” che andranno a sostituire).
Rinnovata anche la componente aerea imbarcata: non solo con gli F-35B ma anche con altri 9 aerei antisommergibili (560 milioni), con l’ammodernamento e l’ampliamento degli elicotteri HH-101 (680 milioni) e con l’ordine di 14 droni imbarcati (192 milioni) – per i quali è in pianificazione anche un’apposita nave portadroni (progetto “Sciamano Drone Carrier”).
Esercito
Spicca su tutti il programma da 23 miliardi per il rafforzamento delle forze corazzate cingolate: 280 nuovi carri armati pesanti Panther (8 mld) e oltre mille carri leggeri Lynx (15 mld) che si aggiungeranno ai 125 carri pesanti Ariete in fase di ammodernamento (1 mld).
Arriveranno poi circa 150 nuovi obici semoventi Rch155 (1,8 mld) in aggiunta ai 70 Pzh2000 rimodernati (270 milioni). Rafforzato anche il parco carri ruotati con 150 Centauro 2 (1,5 mld) – che si aggiungono ai 250 vecchio modello – e 76 Freccia Plus (300 milioni) – anch’essi in aggiunta ai 250 già in servizio.
Rinnovata anche la flotta degli elicotteri da guerra con un centinaio di nuovi velivoli da combattimento AW-249 e multiruolo AW-169 (4 mld). In arrivo infine anche sei nuove batterie di missili anti-aerei Samp/t (3,7 mld) e una ventina di lanciarazzi Himars (1 mld), oltre a massicce forniture di proiettili da artiglieria da 155 mm (240 milioni).
Fonte
Passando in rassegna i principali nuovi programmi pluriennali di riarmo recentemente approvati o decisi, risulta discutibile la necessità di programmare nuove spese in tal senso, considerando il costo complessivo solo di questi programmi – e ve ne sono molti altri.
Aeronautica
Il programma Eurofighter è stato appena incrementato con l’ordine di altri 24 caccia Typhoon (7,5 mld) che si aggiungono ai 93 in servizio. Altrettanto si prevede di fare per il programma F-35 con la richiesta di altri 25 bombardieri (7 mld) in aggiunta ai 90 già ordinati.
L’Aeronautica italiana sta inoltre potenziando due flotte altamente strategiche: quella – unica in Europa – di aerei radar e per la guerra elettronica basata sui Gulfstream G550 – ne ha 3 cui se ne aggiungeranno altri 2 (550 milioni) – richiestissimi per le operazioni Nato sul fronte orientale; e quella delle aerocisterne per il rifornimento in volo basata sui KC-767 – ne ha 4 cui se ne aggiungeranno altre 2 (1,3 mld). Infine, dopo anni di titubanze, si sta anche dotando di una flotta di droni armati basata sui Falco di produzione nazionale e forse anche sui Reaper americani.
Marina
Alle 10 fregate lanciamissili Fremm se ne aggiungeranno altre 2 (1,5 mld), mentre proseguono spediti i programmi di costruzione e consegna dei 7 pattugliatori d’altura PPA (5,7 mld) e dei 4 pattugliatori leggeri PPX (1,2 mld), a cui si aggiungeranno anche 4 corvette europee in fase di studio e due nuove navi per operazioni speciali subacque, Olterra (60 milioni) e Ubos (35 milioni).
Ai due cacciatorpediniere Orizzonte in fase di radicale potenziamento (1 mld) si affiancheranno due nuovi super-cacciatorpediniere/incrociatori DDX (2,7 mld). Dopo il recente varo della nuova ammiraglia della flotta, la “Trieste”, seconda portaerei per gli F-35B (1,2 mld), sono in cantiere altri 4 sommergibili U212 (2,7 mld) che forse diventeranno 6, 12 nuovi cacciamine (2,6 mld per i primi 8) e 3 navi da sbarco (con dislocamento doppio delle 3 “Santi” che andranno a sostituire).
Rinnovata anche la componente aerea imbarcata: non solo con gli F-35B ma anche con altri 9 aerei antisommergibili (560 milioni), con l’ammodernamento e l’ampliamento degli elicotteri HH-101 (680 milioni) e con l’ordine di 14 droni imbarcati (192 milioni) – per i quali è in pianificazione anche un’apposita nave portadroni (progetto “Sciamano Drone Carrier”).
Esercito
Spicca su tutti il programma da 23 miliardi per il rafforzamento delle forze corazzate cingolate: 280 nuovi carri armati pesanti Panther (8 mld) e oltre mille carri leggeri Lynx (15 mld) che si aggiungeranno ai 125 carri pesanti Ariete in fase di ammodernamento (1 mld).
Arriveranno poi circa 150 nuovi obici semoventi Rch155 (1,8 mld) in aggiunta ai 70 Pzh2000 rimodernati (270 milioni). Rafforzato anche il parco carri ruotati con 150 Centauro 2 (1,5 mld) – che si aggiungono ai 250 vecchio modello – e 76 Freccia Plus (300 milioni) – anch’essi in aggiunta ai 250 già in servizio.
Rinnovata anche la flotta degli elicotteri da guerra con un centinaio di nuovi velivoli da combattimento AW-249 e multiruolo AW-169 (4 mld). In arrivo infine anche sei nuove batterie di missili anti-aerei Samp/t (3,7 mld) e una ventina di lanciarazzi Himars (1 mld), oltre a massicce forniture di proiettili da artiglieria da 155 mm (240 milioni).
Fonte
19/04/2025
I costi e i conti del riarmo europeo
Le proposte della Commissione europea sul riarmo, se diventeranno operative, faranno lievitare le spese militari dei paesi della Ue dentro la NATO da meno degli attuali 200 miliardi di euro l’anno nel 2021 a quasi 600 miliardi di euro nel 2029. Anche a occhio si tratta di un cambiamento epocale. Questo imponente aumento di spese militari europee sarà finanziato a debito, anche se non tutti i paesi europei lo considerano accettabile o economicamente sostenibile. Ma non è questo l’unico problema.
Come già segnalato dal Rapporto Draghi sulla competitività, il sistema della difesa europeo resta ancora fortemente frammentato sulla base delle industrie e delle politiche militari nazionali e sul come superare questo problema le proposte della Commissione europea ancora non hanno trovato la quadra.
L’Unione Europea continua a dipendere ancora molto dalle importazioni per gli apparati della difesa. Secondo l’Ispi viene calcolato che il 40% degli approvvigionamenti proviene dall’estero, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Dal 2022, un incremento rapido delle spese si è inoltre tradotto nell’acquisto di sistemi d’arma “pronti all’uso”, aggravando però questa dipendenza e portando le importazioni al 70-80% dell’ approvvigionamento.
Il piano della Commissione europea prevede che i 150 miliardi di euro di acquisti comuni dovranno essere riservati per almeno il 65% all’industria europea, e per il 35% ai soli paesi terzi che abbiano siglato “patti di sicurezza” con l’UE, dove in posizione prevalente ci sono gli Stati Uniti e Israele.
L’Ispi riporta un sondaggio tra esperti di difesa europea dove viene indicato come l’orizzonte temporale immaginato dalla Commissione per rendere l’Europa militarmente “autonoma” dagli Stati Uniti (4 anni), potrebbe essere solo appena sufficiente. In alcuni sistemi critici (intelligence e sorveglianza dallo spazio, soppressione delle difese aeree nemiche e attacco a lungo raggio), il tempo necessario sarà quasi sicuramente superiore.
C’è poi il tema degli investimenti nel comparto difesa. Dall’attacco russo all’Ucraina del febbraio 2022 a oggi, in Italia sono stati piuttosto contenuti. In particolare, gli investimenti per nuovi equipaggiamenti sono rimasti sostanzialmente fermi a 7 miliardi di euro l’anno. In confronto, oggi la Germania ne spende 26 (erano 9 solo quattro anni fa), la Francia 17 e la Polonia 16. Spagna e Paesi Bassi, che nel 2021 investivano la metà dell’Italia, l’hanno raggiunta o addirittura superata.
Per l’Italia, le proposte della Commissione potrebbero tradursi in una ulteriore spesa per 95 miliardi di euro in quattro anni, di cui almeno 12 entro la fine del 2025. Se, come sembra probabile, l’Italia scegliesse di finanziare questo incremento a debito, il deficit pubblico italiano (oggi al 4%) anziché ridursi gradualmente fino al 3% rischia di risalire fino al 4,6%.
Le proposte della Commissione europea prevedono maggiori spese per 800 miliardi di euro in quattro anni. Il nodo però è come spendere i 650 miliardi di euro previsti “a debito”, forzando le rigide regole del Patto di stabilità che per tre decenni hanno martoriato con l’austerity i bilanci e le spese sociali di molti paesi aderenti alla UE.
L’obiettivo del piano è quello di aumentare le spese militari dei paesi NATO dell’UE dal 2% del PIL (raggiunto in molti casi già l’anno scorso) a circa il 3,5% entro il 2029.
Se l’Unione Europea dovesse davvero realizzare gli obiettivi indicati della Commissione, nel 2029 la spesa militare in Europa arriverebbe a circa 580 miliardi di euro: quasi il doppio rispetto ai 305 miliardi spesi nel 2024, oltre il triplo se confrontati con i 190 miliardi spesi nel 2021.
Il piano della Von der Leyen distribuisce l’aumento delle spese militari in proporzione al PIL dei singoli paesi. La spesa militare tedesca ad esempio, passerebbe dai 90 miliardi di euro attuali a circa 170 nel 2029, rendendo la Germania una potenza militare di notevoli dimensioni. Un inquietante salto indietro nella storia europea.
Fonte
Come già segnalato dal Rapporto Draghi sulla competitività, il sistema della difesa europeo resta ancora fortemente frammentato sulla base delle industrie e delle politiche militari nazionali e sul come superare questo problema le proposte della Commissione europea ancora non hanno trovato la quadra.
L’Unione Europea continua a dipendere ancora molto dalle importazioni per gli apparati della difesa. Secondo l’Ispi viene calcolato che il 40% degli approvvigionamenti proviene dall’estero, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Dal 2022, un incremento rapido delle spese si è inoltre tradotto nell’acquisto di sistemi d’arma “pronti all’uso”, aggravando però questa dipendenza e portando le importazioni al 70-80% dell’ approvvigionamento.
Il piano della Commissione europea prevede che i 150 miliardi di euro di acquisti comuni dovranno essere riservati per almeno il 65% all’industria europea, e per il 35% ai soli paesi terzi che abbiano siglato “patti di sicurezza” con l’UE, dove in posizione prevalente ci sono gli Stati Uniti e Israele.
L’Ispi riporta un sondaggio tra esperti di difesa europea dove viene indicato come l’orizzonte temporale immaginato dalla Commissione per rendere l’Europa militarmente “autonoma” dagli Stati Uniti (4 anni), potrebbe essere solo appena sufficiente. In alcuni sistemi critici (intelligence e sorveglianza dallo spazio, soppressione delle difese aeree nemiche e attacco a lungo raggio), il tempo necessario sarà quasi sicuramente superiore.
C’è poi il tema degli investimenti nel comparto difesa. Dall’attacco russo all’Ucraina del febbraio 2022 a oggi, in Italia sono stati piuttosto contenuti. In particolare, gli investimenti per nuovi equipaggiamenti sono rimasti sostanzialmente fermi a 7 miliardi di euro l’anno. In confronto, oggi la Germania ne spende 26 (erano 9 solo quattro anni fa), la Francia 17 e la Polonia 16. Spagna e Paesi Bassi, che nel 2021 investivano la metà dell’Italia, l’hanno raggiunta o addirittura superata.
Per l’Italia, le proposte della Commissione potrebbero tradursi in una ulteriore spesa per 95 miliardi di euro in quattro anni, di cui almeno 12 entro la fine del 2025. Se, come sembra probabile, l’Italia scegliesse di finanziare questo incremento a debito, il deficit pubblico italiano (oggi al 4%) anziché ridursi gradualmente fino al 3% rischia di risalire fino al 4,6%.
Le proposte della Commissione europea prevedono maggiori spese per 800 miliardi di euro in quattro anni. Il nodo però è come spendere i 650 miliardi di euro previsti “a debito”, forzando le rigide regole del Patto di stabilità che per tre decenni hanno martoriato con l’austerity i bilanci e le spese sociali di molti paesi aderenti alla UE.
L’obiettivo del piano è quello di aumentare le spese militari dei paesi NATO dell’UE dal 2% del PIL (raggiunto in molti casi già l’anno scorso) a circa il 3,5% entro il 2029.
Se l’Unione Europea dovesse davvero realizzare gli obiettivi indicati della Commissione, nel 2029 la spesa militare in Europa arriverebbe a circa 580 miliardi di euro: quasi il doppio rispetto ai 305 miliardi spesi nel 2024, oltre il triplo se confrontati con i 190 miliardi spesi nel 2021.
Il piano della Von der Leyen distribuisce l’aumento delle spese militari in proporzione al PIL dei singoli paesi. La spesa militare tedesca ad esempio, passerebbe dai 90 miliardi di euro attuali a circa 170 nel 2029, rendendo la Germania una potenza militare di notevoli dimensioni. Un inquietante salto indietro nella storia europea.
Fonte
07/03/2025
Von der Leyen e Macron fuori di cranio
Più debito, ma solo per le armi. Per la gente solo fame, repressione infine guerra.
La “nuova Unione Europea” è al 90% identica a quella vecchia (“austerità”, salari sempre più bassi, tagli a pensioni sanità e istruzione, zero diritti sul lavoro) ma decisamente “innovativa” sul piano bellico.
In un attimo vuol cancellare anche il ricordo del “continente che ha vissuto 80 anni in pace” – immagine totalmente falsa, visto che è stata fatta la guerra per smembrare la Yugoslavia nel 1999 – e percorrere velocemente le due strade parallele: riarmo a rotta di collo (ma ci vorranno anni) e ingresso trionfale immediato nella guerra in Ucraina.
Andiamo con ordine. La prima strada è stata indicata dalla presidente pro forma dell’Unione Europea, quell’Ursula von der Leyen specializzata nel pagare con soldi comuni le forniture che lei contratta con imprenditori evidentemente amici suoi, cancellando poi le prove dei contatti avuti.
Il piano che ha presentato – RearmEurope – vale 800 miliardi di euro: la maggior verrà dai bilanci nazionali, sorvegliatissimi dalla Commissione che lei dirige. Ma per la armi si farà eccezione, lasciando ai governi la facoltà di sforare deficit e debito solo per questo capitolo di spesa. Il resto in parte da fondi di coesione e Pnrr, da Bei e Mes.
150 miliardi in “prestiti” (da restituire) dovrebbero essere raccolti sul mercato con la garanzia comunitaria – con Eurobond, insomma – e successivamente erogati ai Paesi membri in forma di prestiti per le priorità della difesa paneuropea, in primo luogo difesa aerea, i missili e i droni. E qui sorgono le prime divisioni. Per alcuni paesi la formula dei prestiti è accettabile, per altri – tipo la Polonia molto meno.
Varsavia insiste perché siano distribuiti come “sussidi”, che non devono evidentemente essere restituiti e non aprirebbero dunque voragini difficili da gestire nei conti pubblici.
I rimanenti 650 miliardi dovrebbero invece venire dalle spese nazionali, grazie alla maggiore flessibilità garantita alle spese militari. «Se gli Stati membri aumentassero la spesa per la difesa in media dell’1,5% del Pil, si potrebbe creare uno spazio fiscale di quasi 650 miliardi di euro in quattro anni», ha dichiarato von der Leyen.
Ovvio che non tutti gli Stati possiedono in questo momento l’identico margine di manovra nei conti pubblici. La Germania, per esempio, ha uno spazio enorme (il suo debito pubblico è poco sopra il 60% rispetto al Pil, meno della metà di quello italiano). E quindi può permettersi di sfoderare un bazooka mentre altri giocheranno con le fionde.
L’ormai prossimo cancelliere, Friedrich Merz, democristiano destrorso fin qui cerbero dell’austerità più ottusa, ha improvvisamente rovesciato il paradigma promettendo di fare – come a suo tempo Mario Draghi alla Bce – “whatever it takes”. Tradotto in spiccioli: 500 miliardi per un nuovo fondo speciale per gli investimenti infrastrutturali da spendere in 10 anni.
Un impegno gigantesco che per un verso richiederà riforme costituzionali – i tedeschi sono stati così follemente “austeri” da inserire lì un limite dello 0,35% al deficit annuale – e una maggioranza dei due terzi, ben più larga di quella garantita dalla Grosse Koalition con l’Spd (ma i guerrafondai verdi stanno lì pronti, con la penna in mano).
Per l’altro occorrerà un veloce allentamento delle norme fiscali nell’Ue, paradossalmente su spinta proprio di Berlino, che fin qui aveva premuto sul pedale del freno.
La seconda strada passa invece dai bollori bellici di Parigi, la cui ultima chance di grandeur poggia sul possesso – unici, nell’Unione Europea – di un minimo di testate nucleari.
Con un discorso di 15 minuti il presidente francese Emmanuel Macron, ieri sera alle 20, si è rivolto ai concittadini con toni eccezionalmente solenni (“l’ora delle decisioni irrevocabili”, nel frasario mussoliniano): «A partire dalla prossima settimana riuniremo a Parigi i capi di stato maggiore dei Paesi che desiderano assumersi le proprie responsabilità», ossia che si sono già dichiarati pronti al dispiegamento in Ucraina di forze europee per garantire un eventuale trattato di pace.
«Stiamo entrando in una nuova era», ha detto Macron, parlando della Russia come di «una minaccia per la Francia e per l’Europa». Ha rispolverato persino la più incredibile delle bufale – «Chi può pensare che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina?» – come se non sapesse nulla delle vere ragioni di questa guerra, come se non fosse stato proprio lui tra i protagonisti della truffa degli “accordi di Minsk” ai danni di Mosca (la stessa Angela Merkel, corresponsabile di quella truffa, ha da tempo ammesso che l’unico scopo non era fare un accordo di pace, ma “prendere tempo per armare meglio Kiev”).
Macron ha recitato un mucchio di frottole, insomma, per arrivare infine al punto “forte”: «Di fronte a questo mondo di pericoli, restare spettatori sarebbe una follia».
L’unica follia che si possa commettere, in “un mondo di pericoli”, è quella di mettersi a sparare senza avere neanche uno straccio di obiettivo politico e di strategia realistica per raggiungerlo.
Nel caso specifico: cosa mandi a fare truppe “europee” (falso anche questo, perché Macron sa di poter contare su un contingente britannico – fuori dalla UE – e spera di ottenere un contingente turco, anche questo extraeuropeo) in Ucraina? Pensi davvero che queste (25-40mila uomini al massimo) truppe sarebbero una variabile significativa nei rapporti di forza sul campo? E per ottenere cosa?
In secondo luogo: sai già che per la Russia questo sarebbe una inaccettabile provocazione. E che dunque, le tue truppe – oltre quella ucraine residue – diventerebbero un bersaglio privilegiato degli attacchi missilistici. E tu non hai né sistemi antimissile abbastanza buoni o in numero sufficiente, né – soprattutto – una deterrenza nucleare all’altezza di quella russa.
Un rischio tutto a perdere, insomma, per ottenere non si sa bene cosa. Ma “non possiamo restare spettatori”, altrimenti nessuno ci si fila...
Ogni giorno ci regala una pazzia nuova. È escluso che ci si possa annoiare, ma è escluso anche che si possa dormire tranquilli in attesa di una brutta fine. È tempo di rompere la passività e il silenzio. Fermiamo questi mostri senza cervello prima che sia troppo tardi...
“Abbassate le armi, alzate i salari!”. In piazza il 15, contro chi vuole la guerra, per cominciare...
Fonte
La “nuova Unione Europea” è al 90% identica a quella vecchia (“austerità”, salari sempre più bassi, tagli a pensioni sanità e istruzione, zero diritti sul lavoro) ma decisamente “innovativa” sul piano bellico.
In un attimo vuol cancellare anche il ricordo del “continente che ha vissuto 80 anni in pace” – immagine totalmente falsa, visto che è stata fatta la guerra per smembrare la Yugoslavia nel 1999 – e percorrere velocemente le due strade parallele: riarmo a rotta di collo (ma ci vorranno anni) e ingresso trionfale immediato nella guerra in Ucraina.
Andiamo con ordine. La prima strada è stata indicata dalla presidente pro forma dell’Unione Europea, quell’Ursula von der Leyen specializzata nel pagare con soldi comuni le forniture che lei contratta con imprenditori evidentemente amici suoi, cancellando poi le prove dei contatti avuti.
Il piano che ha presentato – RearmEurope – vale 800 miliardi di euro: la maggior verrà dai bilanci nazionali, sorvegliatissimi dalla Commissione che lei dirige. Ma per la armi si farà eccezione, lasciando ai governi la facoltà di sforare deficit e debito solo per questo capitolo di spesa. Il resto in parte da fondi di coesione e Pnrr, da Bei e Mes.
150 miliardi in “prestiti” (da restituire) dovrebbero essere raccolti sul mercato con la garanzia comunitaria – con Eurobond, insomma – e successivamente erogati ai Paesi membri in forma di prestiti per le priorità della difesa paneuropea, in primo luogo difesa aerea, i missili e i droni. E qui sorgono le prime divisioni. Per alcuni paesi la formula dei prestiti è accettabile, per altri – tipo la Polonia molto meno.
Varsavia insiste perché siano distribuiti come “sussidi”, che non devono evidentemente essere restituiti e non aprirebbero dunque voragini difficili da gestire nei conti pubblici.
I rimanenti 650 miliardi dovrebbero invece venire dalle spese nazionali, grazie alla maggiore flessibilità garantita alle spese militari. «Se gli Stati membri aumentassero la spesa per la difesa in media dell’1,5% del Pil, si potrebbe creare uno spazio fiscale di quasi 650 miliardi di euro in quattro anni», ha dichiarato von der Leyen.
Ovvio che non tutti gli Stati possiedono in questo momento l’identico margine di manovra nei conti pubblici. La Germania, per esempio, ha uno spazio enorme (il suo debito pubblico è poco sopra il 60% rispetto al Pil, meno della metà di quello italiano). E quindi può permettersi di sfoderare un bazooka mentre altri giocheranno con le fionde.
L’ormai prossimo cancelliere, Friedrich Merz, democristiano destrorso fin qui cerbero dell’austerità più ottusa, ha improvvisamente rovesciato il paradigma promettendo di fare – come a suo tempo Mario Draghi alla Bce – “whatever it takes”. Tradotto in spiccioli: 500 miliardi per un nuovo fondo speciale per gli investimenti infrastrutturali da spendere in 10 anni.
Un impegno gigantesco che per un verso richiederà riforme costituzionali – i tedeschi sono stati così follemente “austeri” da inserire lì un limite dello 0,35% al deficit annuale – e una maggioranza dei due terzi, ben più larga di quella garantita dalla Grosse Koalition con l’Spd (ma i guerrafondai verdi stanno lì pronti, con la penna in mano).
Per l’altro occorrerà un veloce allentamento delle norme fiscali nell’Ue, paradossalmente su spinta proprio di Berlino, che fin qui aveva premuto sul pedale del freno.
La seconda strada passa invece dai bollori bellici di Parigi, la cui ultima chance di grandeur poggia sul possesso – unici, nell’Unione Europea – di un minimo di testate nucleari.
Con un discorso di 15 minuti il presidente francese Emmanuel Macron, ieri sera alle 20, si è rivolto ai concittadini con toni eccezionalmente solenni (“l’ora delle decisioni irrevocabili”, nel frasario mussoliniano): «A partire dalla prossima settimana riuniremo a Parigi i capi di stato maggiore dei Paesi che desiderano assumersi le proprie responsabilità», ossia che si sono già dichiarati pronti al dispiegamento in Ucraina di forze europee per garantire un eventuale trattato di pace.
«Stiamo entrando in una nuova era», ha detto Macron, parlando della Russia come di «una minaccia per la Francia e per l’Europa». Ha rispolverato persino la più incredibile delle bufale – «Chi può pensare che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina?» – come se non sapesse nulla delle vere ragioni di questa guerra, come se non fosse stato proprio lui tra i protagonisti della truffa degli “accordi di Minsk” ai danni di Mosca (la stessa Angela Merkel, corresponsabile di quella truffa, ha da tempo ammesso che l’unico scopo non era fare un accordo di pace, ma “prendere tempo per armare meglio Kiev”).
Macron ha recitato un mucchio di frottole, insomma, per arrivare infine al punto “forte”: «Di fronte a questo mondo di pericoli, restare spettatori sarebbe una follia».
L’unica follia che si possa commettere, in “un mondo di pericoli”, è quella di mettersi a sparare senza avere neanche uno straccio di obiettivo politico e di strategia realistica per raggiungerlo.
Nel caso specifico: cosa mandi a fare truppe “europee” (falso anche questo, perché Macron sa di poter contare su un contingente britannico – fuori dalla UE – e spera di ottenere un contingente turco, anche questo extraeuropeo) in Ucraina? Pensi davvero che queste (25-40mila uomini al massimo) truppe sarebbero una variabile significativa nei rapporti di forza sul campo? E per ottenere cosa?
In secondo luogo: sai già che per la Russia questo sarebbe una inaccettabile provocazione. E che dunque, le tue truppe – oltre quella ucraine residue – diventerebbero un bersaglio privilegiato degli attacchi missilistici. E tu non hai né sistemi antimissile abbastanza buoni o in numero sufficiente, né – soprattutto – una deterrenza nucleare all’altezza di quella russa.
Un rischio tutto a perdere, insomma, per ottenere non si sa bene cosa. Ma “non possiamo restare spettatori”, altrimenti nessuno ci si fila...
Ogni giorno ci regala una pazzia nuova. È escluso che ci si possa annoiare, ma è escluso anche che si possa dormire tranquilli in attesa di una brutta fine. È tempo di rompere la passività e il silenzio. Fermiamo questi mostri senza cervello prima che sia troppo tardi...
“Abbassate le armi, alzate i salari!”. In piazza il 15, contro chi vuole la guerra, per cominciare...
Fonte
20/12/2024
Leonardo factotum della difesa europea, parla Cingolani
Il 15 dicembre Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, ha rilasciato a La Repubblica un’intervista che mette in fila tutti i tavoli su cui Leonardo sta lavorando. In epoca di guerra, più o meno dichiarata, è necessario dare parola ai produttori di armi, affinché legittimino il loro operato nell’opinione pubblica.
Il quadro delineato da Cingolani è quello che vede Leonardo assumere sempre più la funzione di pilastro del riarmo europeo, nell’orizzonte di un ruolo maggiormente attivo di Bruxelles nella competizione globale, e della sua proiezione negli scenari di tensione in tutto il mondo. Il ruolo, insomma, che vuole assumere una compiuta potenza imperialista.
Il conflitto in Ucraina ha segnato una svolta in questa direzione, perché ha rotto lo stallo, pur sempre dinamico e non privo di conflitti, che aveva segnato le relazioni tra le grandi potenze fino a pochi anni fa. “Multidominio interoperabile” è la definizione che il dirigente d’azienda ha dato all’approccio di sicurezza globale onnicomprensivo che il colosso italiano vuole seguire.
Significa fare la propria parte in un modello integrato, sempre più declinato sulle esigenze di guerra, in cui vanno di pari passo sviluppi bellici, cybersicurezza, autonomia energetica e alimentare.
Su quest’ultima la UE, che non possiede grandi risorse, sta lavorando tra accordi con paesi africani e il Mediterraneo allargato, dal Sahel al Golfo Persico.
Sui primi punti, invece, Leonardo vuole essere la punta di diamante di una comunità europea che, per Cingolani, deve comunque fare i conti al più presto con i soliti problemi di frammentazione delle politiche e delle filiere.
Anche per questo il colosso di piazza Monte Grappa vuole diventare “un’azienda sempre più internazionale e interconnessa che come prodotto centrale avrà la sicurezza globale”.
L’ex ministro italiano ha fatto degli esempi, che rendono tutto più chiaro: se “l’esigenza attuale è garantire che tutte le piattaforme dialoghino”, allora accanto ad aerei ed elicotteri ci sono i servizi spaziali e satellitari che garantiscono le comunicazioni, le strumentazioni elettroniche e i supercomputer per lo sviluppo digitale e la cybersicurezza.
Ma la protezione dei dati informatici vale anche in periodo di pace, i satelliti permettono importanti salti di qualità anche in usi civili, come nell’agricoltura di precisione e nella climatologia. “Abbiamo messo in piedi una tecnologia che opera su tutti i domini, ossia in terra, in cielo e spazio, nel mare e nel digital continuum”, ha detto Cingolani.
Se volessimo dirlo in altri termini, meno spendibili forse per i media mainstream, Leonardo ha messo in piedi una serie di divisioni di lavoro che toccano in maniera diffusa ognuno dei settori fondamentali della vita civile e militare della UE, mettendoli in sinergia per rispondere alle mire strategiche di Bruxelles.
Quella che è apparsa su La Repubblica è la rappresentazione plastica migliore di cosa implica il dual use che abbiamo avuto negli ultimi mesi. Con in più l’esplicitazione dell’elemento politico-strategico, che non è compreso nel semplice riconoscimento della possibilità di utilizzo sia per fini civili che militari di alcune tecnologie e strumentazioni.
Perché dire che questa intersezione tra vari settori e ambiti può essere riassunta in “sicurezza globale”, e farlo dire al vertice di un’impresa bellica significa, da una parte, che l’intero modello sociale e produttivo verrà ripensato intorno al complesso militare-industriale; dall’altra, che le priorità politiche saranno decise in base alla politica estera.
Ripensare l’economia continentale secondo una prospettiva di guerra e spingere sul keynesismo anche per dare legittimità all’avventurismo bellico contro coloro che sono identificati come nemici. E dunque tutte quelle realtà che, in forme varie, vogliono perseguire relazioni e percorsi di sviluppo differenti da quelli imposti dall’imperialismo euroatlantico.
Ad ogni modo, Leonardo si occupa innanzitutto di armi e armamenti, e dunque Cingolani elenca i progetti che rappresenteranno la spina dorsale dell’attività dell’azienda per i prossimi anni, e che avranno un ruolo fondamentale anche nel disegnare la fisionomia della difesa europea, dalla terra allo spazio. Una breve disamina può essere utile per non perdersi le prossime notizie in merito.
L’accordo con Rheinmetall per un nuovo carro armato, secondo Cingolani, “è la prima chiara dimostrazione che si può creare uno spazio europeo della difesa a livello industriale”.
Il Panther tedesco e il digitale italiano verranno uniti per creare un mezzo nuovo e capace di competere sui campi di battaglia del futuro, almeno per come sono immaginati dopo l’esperienza ucraina.
C’è poi una frase che, di nuovo, parla di come lo sviluppo tecnologico sia tutt’altro che neutrale. Per quanto riguarda la mancanza di competenze necessarie, Cingolani afferma: “quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza”, perché serve a muovere guerra proprio a quei paesi.
Ora, che prima non ci fossero preoccupazioni rispetto alla condivisione di informazioni e studi con i paesi citati non è vero, ci sono sempre state. Semmai è interessante che vengano citati proprio quei due paesi, Iran e Cina, a ribadire che la fase è cambiata e i legami con essi vanno considerati, appunto, una questione di sicurezza nazionale e che la scienza non è un terreno dove la politica non ha casa.
Per quanto riguarda i cieli, Cingolani ammette che sui droni sono rimasti indietro, anche se stanno mettendo a disposizioni le capacità digitali di Leonardo in programmi di collaborazione con altri produttori. C’è poi il convertiplano AW 609 (un ibrido tra un aereo e un elicottero).
Oggi solo la statunitense Bell e l’azienda di piazza Monte Grappa possiedono questo tipo di tecnologia, e il prototipo italiano dovrebbe ottenere presto la certificazione come mezzo civile. “Poi valuteremo le applicazioni militari”, aggiunge ovviamente Cingolani, perché ormai non c’è conquista che non debba essere messa a disposizione di una politica di potenza.
Ma il vero fiore all’occhiello, nel dominio dell’aria, sarà il Global Combat Air Programme (GCAP). Si tratta di un caccia stealth di sesta generazione, che sarà invisibile ai radar e attraverso il quale si potrà controllare in remoto una flotta di droni senza pilota: una “portaerei che sta in cielo”, ha detto Cingolani.
Una settimana fa è stata firmata la joint venture tra l’italiana Leonardo, la britannica BAE Systems e la nipponica Mitsubishi, mostrando la volontà di assecondare un assetto euroatlantico (allargato al Giappone) per l’aereo che dovrebbe sostituire il parco dei mezzi dei paesi coinvolti, a partire dal 2035.
I costi previsti per lo sviluppo dei droni e del software che dovrà gestire lo sciame di dispositivi si aggirano sui 100 miliardi di euro, per questo per Cingolani i sauditi sarebbero i benvenuti nel progetto: “hanno voglia di creare un’industria aeronautica, che può legarsi al programma GCAP e metterli al centro del grande mercato mediorientale”, e hanno molti soldi da spendere.
C’è anche la concorrenza del FCAS, un consorzio tra Francia, Germania e Spagna per creare un caccia dalle caratteristiche simili al GCAP. Ma per l’amministratore delegato italiano gli altri alleati europei sono in ritardo rispetto alla nuova joint venture che coinvolge Leonardo, e inoltre, come detto già tempo fa, in realtà i due programmi non sono necessariamente in contraddizione tra di loro.
Infine, la space economy, in particolare i servizi satellitari con usi “che vanno dalla difesa alla geologia, all’agricoltura alla geolocalizzazione”. Per questo settore, Cingolani auspica una maggiore apertura al privato e più ampie e forti alleanze europee, facendo a meno di particolarismi nazionali.
Il messaggio di fondo è ancora quello: serve creare un complesso militare-industriale europeo, che non sia poi solamente militare ma metta in collegamento tutti i settori principali e maturi del ciclo capitalistico così come funziona oggi. Non c’è nessuna divisione tra civile e militare, tutto serve unicamente a vincere lo scontro della competizione globale.
Fonte
Il quadro delineato da Cingolani è quello che vede Leonardo assumere sempre più la funzione di pilastro del riarmo europeo, nell’orizzonte di un ruolo maggiormente attivo di Bruxelles nella competizione globale, e della sua proiezione negli scenari di tensione in tutto il mondo. Il ruolo, insomma, che vuole assumere una compiuta potenza imperialista.
Il conflitto in Ucraina ha segnato una svolta in questa direzione, perché ha rotto lo stallo, pur sempre dinamico e non privo di conflitti, che aveva segnato le relazioni tra le grandi potenze fino a pochi anni fa. “Multidominio interoperabile” è la definizione che il dirigente d’azienda ha dato all’approccio di sicurezza globale onnicomprensivo che il colosso italiano vuole seguire.
Significa fare la propria parte in un modello integrato, sempre più declinato sulle esigenze di guerra, in cui vanno di pari passo sviluppi bellici, cybersicurezza, autonomia energetica e alimentare.
Su quest’ultima la UE, che non possiede grandi risorse, sta lavorando tra accordi con paesi africani e il Mediterraneo allargato, dal Sahel al Golfo Persico.
Sui primi punti, invece, Leonardo vuole essere la punta di diamante di una comunità europea che, per Cingolani, deve comunque fare i conti al più presto con i soliti problemi di frammentazione delle politiche e delle filiere.
Anche per questo il colosso di piazza Monte Grappa vuole diventare “un’azienda sempre più internazionale e interconnessa che come prodotto centrale avrà la sicurezza globale”.
L’ex ministro italiano ha fatto degli esempi, che rendono tutto più chiaro: se “l’esigenza attuale è garantire che tutte le piattaforme dialoghino”, allora accanto ad aerei ed elicotteri ci sono i servizi spaziali e satellitari che garantiscono le comunicazioni, le strumentazioni elettroniche e i supercomputer per lo sviluppo digitale e la cybersicurezza.
Ma la protezione dei dati informatici vale anche in periodo di pace, i satelliti permettono importanti salti di qualità anche in usi civili, come nell’agricoltura di precisione e nella climatologia. “Abbiamo messo in piedi una tecnologia che opera su tutti i domini, ossia in terra, in cielo e spazio, nel mare e nel digital continuum”, ha detto Cingolani.
Se volessimo dirlo in altri termini, meno spendibili forse per i media mainstream, Leonardo ha messo in piedi una serie di divisioni di lavoro che toccano in maniera diffusa ognuno dei settori fondamentali della vita civile e militare della UE, mettendoli in sinergia per rispondere alle mire strategiche di Bruxelles.
Quella che è apparsa su La Repubblica è la rappresentazione plastica migliore di cosa implica il dual use che abbiamo avuto negli ultimi mesi. Con in più l’esplicitazione dell’elemento politico-strategico, che non è compreso nel semplice riconoscimento della possibilità di utilizzo sia per fini civili che militari di alcune tecnologie e strumentazioni.
Perché dire che questa intersezione tra vari settori e ambiti può essere riassunta in “sicurezza globale”, e farlo dire al vertice di un’impresa bellica significa, da una parte, che l’intero modello sociale e produttivo verrà ripensato intorno al complesso militare-industriale; dall’altra, che le priorità politiche saranno decise in base alla politica estera.
Ripensare l’economia continentale secondo una prospettiva di guerra e spingere sul keynesismo anche per dare legittimità all’avventurismo bellico contro coloro che sono identificati come nemici. E dunque tutte quelle realtà che, in forme varie, vogliono perseguire relazioni e percorsi di sviluppo differenti da quelli imposti dall’imperialismo euroatlantico.
Ad ogni modo, Leonardo si occupa innanzitutto di armi e armamenti, e dunque Cingolani elenca i progetti che rappresenteranno la spina dorsale dell’attività dell’azienda per i prossimi anni, e che avranno un ruolo fondamentale anche nel disegnare la fisionomia della difesa europea, dalla terra allo spazio. Una breve disamina può essere utile per non perdersi le prossime notizie in merito.
L’accordo con Rheinmetall per un nuovo carro armato, secondo Cingolani, “è la prima chiara dimostrazione che si può creare uno spazio europeo della difesa a livello industriale”.
Il Panther tedesco e il digitale italiano verranno uniti per creare un mezzo nuovo e capace di competere sui campi di battaglia del futuro, almeno per come sono immaginati dopo l’esperienza ucraina.
C’è poi una frase che, di nuovo, parla di come lo sviluppo tecnologico sia tutt’altro che neutrale. Per quanto riguarda la mancanza di competenze necessarie, Cingolani afferma: “quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza”, perché serve a muovere guerra proprio a quei paesi.
Ora, che prima non ci fossero preoccupazioni rispetto alla condivisione di informazioni e studi con i paesi citati non è vero, ci sono sempre state. Semmai è interessante che vengano citati proprio quei due paesi, Iran e Cina, a ribadire che la fase è cambiata e i legami con essi vanno considerati, appunto, una questione di sicurezza nazionale e che la scienza non è un terreno dove la politica non ha casa.
Per quanto riguarda i cieli, Cingolani ammette che sui droni sono rimasti indietro, anche se stanno mettendo a disposizioni le capacità digitali di Leonardo in programmi di collaborazione con altri produttori. C’è poi il convertiplano AW 609 (un ibrido tra un aereo e un elicottero).
Oggi solo la statunitense Bell e l’azienda di piazza Monte Grappa possiedono questo tipo di tecnologia, e il prototipo italiano dovrebbe ottenere presto la certificazione come mezzo civile. “Poi valuteremo le applicazioni militari”, aggiunge ovviamente Cingolani, perché ormai non c’è conquista che non debba essere messa a disposizione di una politica di potenza.
Ma il vero fiore all’occhiello, nel dominio dell’aria, sarà il Global Combat Air Programme (GCAP). Si tratta di un caccia stealth di sesta generazione, che sarà invisibile ai radar e attraverso il quale si potrà controllare in remoto una flotta di droni senza pilota: una “portaerei che sta in cielo”, ha detto Cingolani.
Una settimana fa è stata firmata la joint venture tra l’italiana Leonardo, la britannica BAE Systems e la nipponica Mitsubishi, mostrando la volontà di assecondare un assetto euroatlantico (allargato al Giappone) per l’aereo che dovrebbe sostituire il parco dei mezzi dei paesi coinvolti, a partire dal 2035.
I costi previsti per lo sviluppo dei droni e del software che dovrà gestire lo sciame di dispositivi si aggirano sui 100 miliardi di euro, per questo per Cingolani i sauditi sarebbero i benvenuti nel progetto: “hanno voglia di creare un’industria aeronautica, che può legarsi al programma GCAP e metterli al centro del grande mercato mediorientale”, e hanno molti soldi da spendere.
C’è anche la concorrenza del FCAS, un consorzio tra Francia, Germania e Spagna per creare un caccia dalle caratteristiche simili al GCAP. Ma per l’amministratore delegato italiano gli altri alleati europei sono in ritardo rispetto alla nuova joint venture che coinvolge Leonardo, e inoltre, come detto già tempo fa, in realtà i due programmi non sono necessariamente in contraddizione tra di loro.
Infine, la space economy, in particolare i servizi satellitari con usi “che vanno dalla difesa alla geologia, all’agricoltura alla geolocalizzazione”. Per questo settore, Cingolani auspica una maggiore apertura al privato e più ampie e forti alleanze europee, facendo a meno di particolarismi nazionali.
Il messaggio di fondo è ancora quello: serve creare un complesso militare-industriale europeo, che non sia poi solamente militare ma metta in collegamento tutti i settori principali e maturi del ciclo capitalistico così come funziona oggi. Non c’è nessuna divisione tra civile e militare, tutto serve unicamente a vincere lo scontro della competizione globale.
Fonte
19/12/2024
UE - Cortocircuito tra austerity e nuovo militarismo
di Emiliano Brancaccio
Sono in vigore solo da pochi mesi, eppure le nuove regole di bilancio europee scricchiolano già come un vecchio rudere. Le precedenti regole fiscali dell’Ue erano state criticate e poi sospese anche perché a molti risultava pressoché impossibile rispettarle.
Dal 1998, hanno violato i vincoli di bilancio europei: la Slovenia nel 57% dei casi, l’Austria, il Belgio e la Spagna nel 61%, il Portogallo e la Grecia nel 70%, l’Italia nel 74%, la Francia nel 78%. Persino la Germania ha dovuto mettere in conto un 47% di violazioni di quei vincoli che i suoi governi hanno comunque accanitamente difeso in sede europea.
Come osservato anche dal Fondo Monetario Internazionale, un sistema di norme che viene così frequentemente disatteso rischia di perdere credibilità fino a implodere. Le nuove regole fiscali europee, approvate ad aprile, avrebbero dovuto ripulire questa macchia. Il problema è che, stando alle prime verifiche, le violazioni sembrano addirittura in aumento rispetto al passato. Non solo Italia, Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia e Romania sono già state sottoposte alla procedura per deficit eccessivo. Ma la Commissione ha messo nel mirino anche Austria e Olanda per il rischio di scostamenti di bilancio rilevanti rispetto ai vincoli normativi. E ha di nuovo redarguito la Germania, per una spesa netta troppo alta rispetto alle raccomandazioni. Una nemesi che ha contribuito non poco alle attuali fibrillazioni nella politica tedesca.
Per l’economia mondiale uno scenario sempre più cupo
Con l’indolenza di chi sembra passato per caso a commentare un disastro che non gli compete, il commissario europeo Gentiloni ha ammesso che le difficoltà sono di ordine generale. Nonostante le correzioni di bilancio imposte dalle nuove regole, il livello medio europeo del debito pubblico in rapporto al Pil ha ricominciato a salire, e nel 2026 potrebbe raggiungere l’83,6%. Una previsione drammaticamente al di sopra del mirabolante obiettivo del 60% stabilito a Maastricht e molto vicino alla soglia minacciosa del 90%, che fa scattare un’austerity ancor più rigida.
Davanti alle telecamere fanno il consueto buon viso a cattivo gioco, ma nei corridoi di Bruxelles gli sherpa dell’Unione ammettono che la nuova disciplina fiscale è già andata in corto circuito. Essenzialmente per due ragioni, che hanno un volto e un nome: Donald Trump e Christine Lagarde.
Ieri la presidente della Bce ha annunciato un’altra riduzione dei tassi d’interesse monetari, per venire incontro alle lamentele di molti debitori sulle soglie della bancarotta. Ma è solo un pannicello caldo. Nel complesso la politica della Bce resta fortemente sbilanciata a favore dei creditori, che in questi anni sono riusciti a riportare il tasso d’interesse al netto dell’inflazione sopra lo zero e puntano adesso a nuovi aumenti: oltre il 2 percento, stando alle previsioni ufficiali. Musica sublime per le orecchie dei possessori di capitali, ma anche l’annuncio di guai crescenti per i debitori, a cominciare dagli Stati membri dell’Unione.
Il motivo è semplice: quando il tasso d’interesse viene situato al di sopra della crescita, il debito corre più veloce dello stesso Pil. La conseguenza è che il rapporto tra debito e Pil riprende a salire e le regole fiscali diventano quindi sempre più difficili da rispettare. In teoria si potrebbe parzialmente rimediare con una politica espansiva che rimetta la crescita del Pil al di sopra del tasso d’interesse.
Il paradosso è che questa opzione viene esclusa dalle stesse regole fiscali europee, che al contrario ingozzano i paesi in difficoltà con dosi ulteriori di disciplina fiscale.
Ma non è finita qui, il corto circuito ha pure una faccia americana. Già prima di insediarsi alla Casa Bianca, il nuovo presidente degli Stati Uniti sta provocando tumulti in Europa, in particolare nella gestione dei bilanci pubblici. La condizione che Trump pone per la sopravvivenza della Nato è che i paesi membri contribuiscano tutti al suo rafforzamento, con un incremento delle spese militari che adesso si pretende raggiunga il 3% del Pil. I paesi europei stanno compiendo sforzi considerevoli per assecondare il nuovo corso guerrafondaio.
L’Italia in modo particolare, con un incremento di spesa pari a un quarto rispetto al decennio scorso. Ma in rapporto al Pil siamo ancora all’1,6%, piuttosto lontani dall’obiettivo americano. C’è dunque ancora molto da spingere sulla spesa pubblica per armamenti, ben oltre le deroghe “di guerra” previste dal nuovo patto di stabilità. Per quanto i governi si impegnino a compensare con tagli al welfare, alla sanità e all’istruzione, risulta dunque sempre più difficile rispettare contemporaneamente sia gli impegni militari che i vincoli di bilancio europei. La doppia contraddizione raggiunge così il suo apice. Nel corto circuito tra nuova austerity e nuovo militarismo, c’è chi scommette sul black out di una nuova crisi europea.
Fonte
Sono in vigore solo da pochi mesi, eppure le nuove regole di bilancio europee scricchiolano già come un vecchio rudere. Le precedenti regole fiscali dell’Ue erano state criticate e poi sospese anche perché a molti risultava pressoché impossibile rispettarle.
Dal 1998, hanno violato i vincoli di bilancio europei: la Slovenia nel 57% dei casi, l’Austria, il Belgio e la Spagna nel 61%, il Portogallo e la Grecia nel 70%, l’Italia nel 74%, la Francia nel 78%. Persino la Germania ha dovuto mettere in conto un 47% di violazioni di quei vincoli che i suoi governi hanno comunque accanitamente difeso in sede europea.
Come osservato anche dal Fondo Monetario Internazionale, un sistema di norme che viene così frequentemente disatteso rischia di perdere credibilità fino a implodere. Le nuove regole fiscali europee, approvate ad aprile, avrebbero dovuto ripulire questa macchia. Il problema è che, stando alle prime verifiche, le violazioni sembrano addirittura in aumento rispetto al passato. Non solo Italia, Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia e Romania sono già state sottoposte alla procedura per deficit eccessivo. Ma la Commissione ha messo nel mirino anche Austria e Olanda per il rischio di scostamenti di bilancio rilevanti rispetto ai vincoli normativi. E ha di nuovo redarguito la Germania, per una spesa netta troppo alta rispetto alle raccomandazioni. Una nemesi che ha contribuito non poco alle attuali fibrillazioni nella politica tedesca.
Per l’economia mondiale uno scenario sempre più cupo
Con l’indolenza di chi sembra passato per caso a commentare un disastro che non gli compete, il commissario europeo Gentiloni ha ammesso che le difficoltà sono di ordine generale. Nonostante le correzioni di bilancio imposte dalle nuove regole, il livello medio europeo del debito pubblico in rapporto al Pil ha ricominciato a salire, e nel 2026 potrebbe raggiungere l’83,6%. Una previsione drammaticamente al di sopra del mirabolante obiettivo del 60% stabilito a Maastricht e molto vicino alla soglia minacciosa del 90%, che fa scattare un’austerity ancor più rigida.
Davanti alle telecamere fanno il consueto buon viso a cattivo gioco, ma nei corridoi di Bruxelles gli sherpa dell’Unione ammettono che la nuova disciplina fiscale è già andata in corto circuito. Essenzialmente per due ragioni, che hanno un volto e un nome: Donald Trump e Christine Lagarde.
Ieri la presidente della Bce ha annunciato un’altra riduzione dei tassi d’interesse monetari, per venire incontro alle lamentele di molti debitori sulle soglie della bancarotta. Ma è solo un pannicello caldo. Nel complesso la politica della Bce resta fortemente sbilanciata a favore dei creditori, che in questi anni sono riusciti a riportare il tasso d’interesse al netto dell’inflazione sopra lo zero e puntano adesso a nuovi aumenti: oltre il 2 percento, stando alle previsioni ufficiali. Musica sublime per le orecchie dei possessori di capitali, ma anche l’annuncio di guai crescenti per i debitori, a cominciare dagli Stati membri dell’Unione.
Il motivo è semplice: quando il tasso d’interesse viene situato al di sopra della crescita, il debito corre più veloce dello stesso Pil. La conseguenza è che il rapporto tra debito e Pil riprende a salire e le regole fiscali diventano quindi sempre più difficili da rispettare. In teoria si potrebbe parzialmente rimediare con una politica espansiva che rimetta la crescita del Pil al di sopra del tasso d’interesse.
Il paradosso è che questa opzione viene esclusa dalle stesse regole fiscali europee, che al contrario ingozzano i paesi in difficoltà con dosi ulteriori di disciplina fiscale.
Ma non è finita qui, il corto circuito ha pure una faccia americana. Già prima di insediarsi alla Casa Bianca, il nuovo presidente degli Stati Uniti sta provocando tumulti in Europa, in particolare nella gestione dei bilanci pubblici. La condizione che Trump pone per la sopravvivenza della Nato è che i paesi membri contribuiscano tutti al suo rafforzamento, con un incremento delle spese militari che adesso si pretende raggiunga il 3% del Pil. I paesi europei stanno compiendo sforzi considerevoli per assecondare il nuovo corso guerrafondaio.
L’Italia in modo particolare, con un incremento di spesa pari a un quarto rispetto al decennio scorso. Ma in rapporto al Pil siamo ancora all’1,6%, piuttosto lontani dall’obiettivo americano. C’è dunque ancora molto da spingere sulla spesa pubblica per armamenti, ben oltre le deroghe “di guerra” previste dal nuovo patto di stabilità. Per quanto i governi si impegnino a compensare con tagli al welfare, alla sanità e all’istruzione, risulta dunque sempre più difficile rispettare contemporaneamente sia gli impegni militari che i vincoli di bilancio europei. La doppia contraddizione raggiunge così il suo apice. Nel corto circuito tra nuova austerity e nuovo militarismo, c’è chi scommette sul black out di una nuova crisi europea.
Fonte
Etichette:
Amministrazione Trump 2,
Austerità,
BCE,
Contraddizioni,
Economia,
Emiliano Brancaccio,
Internazionale,
Militarismo,
NATO,
Spese militari,
Tasso di interesse,
UE,
USA
31/10/2024
Regno Unito e Germania rafforzano la loro cooperazione militare
Il 23 ottobre scorso, il Regno Unito e la Germania hanno firmato quello che viene definito come un accordo “storico”, volto a rafforzare la cooperazione in materia di difesa tra i due Paesi. Denominato “Trinity House Agreement”, il patto firmato a Londra dai ministri della Difesa dei rispettivi Paesi – Boris Pistorius per la Germania e John Healey per il Regno Unito – fa seguito all’annuncio dello scorso 28 agosto.
Oltre a ribadire l’impegno nel “promuovere la stabilità sul fianco orientale della NATO, in Europa nel suo complesso e al di là dell’area euro-atlantica” in un contesto di “crescenti preoccupazioni per la sicurezza, esacerbate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’accordo abbraccia numerosi aspetti che saranno ulteriormente affinati per la finalizzazione del trattato, prevista l’anno prossimo.
“Con questo accordo, abbiamo messo a fuoco, con risorse e ambizione, i nostri obiettivi precedentemente dichiarati: rafforzare le industrie della difesa, rafforzare la sicurezza euro-atlantica, migliorare l’inter–operabilità, affrontare le minacce emergenti, sostenere l’Ucraina e l’attacco profondo di precisione”, afferma la dichiarazione congiunta.
La Germania e il Regno Unito sono i due maggiori contributori europei di aiuti militari all’Ucraina, con rispettivamente 10,6 e 9,4 miliardi di euro tra gennaio 2022 e fine agosto 2024, secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy.
L’accordo prevede anche un lavoro congiunto sullo sviluppo di armi d’attacco a lungo raggio per “rafforzare la difesa aerea e missilistica integrata europea” e sul coordinamento delle attività di difesa aerea e missilistica integrata attraverso l’iniziativa europea “Sky Shield”.
La scorsa settimana il Regno Unito aveva già annunciato l’adesione a un’iniziativa europea su questo tema insieme a Germania, Italia, Francia e Polonia e, nel breve termine, si impegna a supportare l’equipaggiamento degli elicotteri “Sea King” donati dalla Germania con moderni sistemi missilistici.
Inoltre, l’accordo prevede che i due eserciti si addestrino insieme più spesso negli Stati baltici, utilizzando come catalizzatore le “Forward Land Forces” (il cui comando è a guida italiana dall’ottobre 2022). Gli aerei da pattugliamento marittimo tedeschi, utilizzati in particolare per la guerra antisommergibile, opereranno periodicamente dalla base scozzese di Lossiemouth per contribuire alla protezione del fianco nord-atlantico.
Il Regno Unito e la Germania lavoreranno insieme per rafforzare la cooperazione navale, con particolare attenzione all’Atlantico settentrionale e al Mare del Nord. All’inizio di questa settimana, la Germania ha inaugurato un nuovo centro di comando navale della NATO nel Mar Baltico, a Rostock, per coordinare le forze degli Stati membri dell’Alleanza nell’area. Il centro impiegherà 180 persone, compresi i rappresentanti britannici.
L’accordo mira inoltre a “promuovere una profonda partnership industriale tra le industrie della difesa britanniche e tedesche, anche assistendo i rispettivi appaltatori principali che desiderano espandere gli impianti di produzione nei rispettivi Paesi”. Per questo, viene annunciata anche l’apertura di una nuova fabbrica nel Regno Unito da parte dell’azienda tedesca Rheinmetall, con la promessa di creare più di 400 posti di lavoro.
“Questo accordo segna un percorso verso una più profonda cooperazione industriale”, ha dichiarato John Healey. Tuttavia, ciò richiederà un certo sforzo di coordinazione, visto che da un lato Berlino intende trasformare la Bundeswehr nel principale esercito convenzionale europeo e si concentra sulla difesa del territorio, mentre dall’altro Londra vuole rafforzare in via prioritaria le proprie capacità navali e aeree.
E alla domanda se questo accordo potesse rappresentare una minaccia per la cooperazione franco-tedesca, Boris Pistorius ha assicurato che Parigi è stata coinvolta nelle discussioni, anche in virtù trattato di “Lancaster House”, firmato nel 2010 da David Cameron e Nicolas Sarkozy e integrato da altri accordi bilaterali tra Francia e Regno Unito.
“Una delle idee dell’accordo di Trinity House è quella di rafforzare questi tre grandi Paesi europei attraverso accordi bilaterali”, ha dichiarato a Claudia Major, direttrice del gruppo di ricerca “Sicurezza internazionale” presso il think tank tedesco. Dato che Francia e Germania sono vincolate dai Trattati dell’Eliseo e di Aquisgrana, “mancava solo un accordo anglo-tedesco”, ha aggiunto.
“A tal fine, il nostro accordo diventerà un elemento cruciale nella più ampia architettura della sicurezza europea; è esplicitamente concepito per sostenere i nostri alleati e rafforzare il contributo europeo alla NATO”, conclude il comunicato congiunto firmato da Regno Unito e Germania.
La crisi economica e sociale morde in tutto il continente europeo – in particolare nella vecchia locomotiva tedesca e proprio nello storico settore faro dell’automobile – mentre manovre “lacrime e sangue” sono già pronte sui tavoli dei governi per “riallineare” i deficit e i debiti pubblici ai diktat della Commissione europea.
La corsa al riarmo e l’economia di guerra non sono altro che la drammatica conseguenza della crisi strutturale del modo di produzione capitalista e del tentativo forsennato da parte delle classi dirigenti occidentali di contrastare – ad ogni costo e a rischio di una catastrofe per l’intera umanità – l’inesorabile declino della propria egemonia su scala mondiale.
Fonte
Oltre a ribadire l’impegno nel “promuovere la stabilità sul fianco orientale della NATO, in Europa nel suo complesso e al di là dell’area euro-atlantica” in un contesto di “crescenti preoccupazioni per la sicurezza, esacerbate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’accordo abbraccia numerosi aspetti che saranno ulteriormente affinati per la finalizzazione del trattato, prevista l’anno prossimo.
“Con questo accordo, abbiamo messo a fuoco, con risorse e ambizione, i nostri obiettivi precedentemente dichiarati: rafforzare le industrie della difesa, rafforzare la sicurezza euro-atlantica, migliorare l’inter–operabilità, affrontare le minacce emergenti, sostenere l’Ucraina e l’attacco profondo di precisione”, afferma la dichiarazione congiunta.
La Germania e il Regno Unito sono i due maggiori contributori europei di aiuti militari all’Ucraina, con rispettivamente 10,6 e 9,4 miliardi di euro tra gennaio 2022 e fine agosto 2024, secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy.
L’accordo prevede anche un lavoro congiunto sullo sviluppo di armi d’attacco a lungo raggio per “rafforzare la difesa aerea e missilistica integrata europea” e sul coordinamento delle attività di difesa aerea e missilistica integrata attraverso l’iniziativa europea “Sky Shield”.
La scorsa settimana il Regno Unito aveva già annunciato l’adesione a un’iniziativa europea su questo tema insieme a Germania, Italia, Francia e Polonia e, nel breve termine, si impegna a supportare l’equipaggiamento degli elicotteri “Sea King” donati dalla Germania con moderni sistemi missilistici.
Inoltre, l’accordo prevede che i due eserciti si addestrino insieme più spesso negli Stati baltici, utilizzando come catalizzatore le “Forward Land Forces” (il cui comando è a guida italiana dall’ottobre 2022). Gli aerei da pattugliamento marittimo tedeschi, utilizzati in particolare per la guerra antisommergibile, opereranno periodicamente dalla base scozzese di Lossiemouth per contribuire alla protezione del fianco nord-atlantico.
Il Regno Unito e la Germania lavoreranno insieme per rafforzare la cooperazione navale, con particolare attenzione all’Atlantico settentrionale e al Mare del Nord. All’inizio di questa settimana, la Germania ha inaugurato un nuovo centro di comando navale della NATO nel Mar Baltico, a Rostock, per coordinare le forze degli Stati membri dell’Alleanza nell’area. Il centro impiegherà 180 persone, compresi i rappresentanti britannici.
L’accordo mira inoltre a “promuovere una profonda partnership industriale tra le industrie della difesa britanniche e tedesche, anche assistendo i rispettivi appaltatori principali che desiderano espandere gli impianti di produzione nei rispettivi Paesi”. Per questo, viene annunciata anche l’apertura di una nuova fabbrica nel Regno Unito da parte dell’azienda tedesca Rheinmetall, con la promessa di creare più di 400 posti di lavoro.
“Questo accordo segna un percorso verso una più profonda cooperazione industriale”, ha dichiarato John Healey. Tuttavia, ciò richiederà un certo sforzo di coordinazione, visto che da un lato Berlino intende trasformare la Bundeswehr nel principale esercito convenzionale europeo e si concentra sulla difesa del territorio, mentre dall’altro Londra vuole rafforzare in via prioritaria le proprie capacità navali e aeree.
E alla domanda se questo accordo potesse rappresentare una minaccia per la cooperazione franco-tedesca, Boris Pistorius ha assicurato che Parigi è stata coinvolta nelle discussioni, anche in virtù trattato di “Lancaster House”, firmato nel 2010 da David Cameron e Nicolas Sarkozy e integrato da altri accordi bilaterali tra Francia e Regno Unito.
“Una delle idee dell’accordo di Trinity House è quella di rafforzare questi tre grandi Paesi europei attraverso accordi bilaterali”, ha dichiarato a Claudia Major, direttrice del gruppo di ricerca “Sicurezza internazionale” presso il think tank tedesco. Dato che Francia e Germania sono vincolate dai Trattati dell’Eliseo e di Aquisgrana, “mancava solo un accordo anglo-tedesco”, ha aggiunto.
“A tal fine, il nostro accordo diventerà un elemento cruciale nella più ampia architettura della sicurezza europea; è esplicitamente concepito per sostenere i nostri alleati e rafforzare il contributo europeo alla NATO”, conclude il comunicato congiunto firmato da Regno Unito e Germania.
La crisi economica e sociale morde in tutto il continente europeo – in particolare nella vecchia locomotiva tedesca e proprio nello storico settore faro dell’automobile – mentre manovre “lacrime e sangue” sono già pronte sui tavoli dei governi per “riallineare” i deficit e i debiti pubblici ai diktat della Commissione europea.
La corsa al riarmo e l’economia di guerra non sono altro che la drammatica conseguenza della crisi strutturale del modo di produzione capitalista e del tentativo forsennato da parte delle classi dirigenti occidentali di contrastare – ad ogni costo e a rischio di una catastrofe per l’intera umanità – l’inesorabile declino della propria egemonia su scala mondiale.
Fonte
04/08/2024
In dirittura d’arrivo il decreto materie prime, ma c’è tensione nel governo Meloni
Il decreto materie prime è passato alla Camera e ora è in Senato, per l’approvazione definitiva che dovrebbe avvenire in settimana. Il provvedimento dovrebbe servire a garantire “un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche considerate strategiche e assicurare lo sviluppo di progetti che siano di rilevante interesse pubblico”.
Con questa norma viene adeguata la legge italiana al Critical Raw Material Act della UE. E infatti viene pure riconosciuta l’importanza di questi beni “nella realizzazione delle transizioni verde e digitale e nella salvaguardia della resilienza economica e dell’autonomia strategica”.
Una legge tutto interna alla logica imperialistica europea. Sul sito del ministero delle Imprese si legge “che al 2030 l’Europa avrà bisogno di 18 volte più litio e 5 volte più cobalto […]. Nel 2050 questo fabbisogno crescerà a 60 volte più litio e 15 volte più cobalto rispetto ai livelli attuali. Per il neodimio già nel 2025 potrebbe servire 120 volte l’attuale domanda dell’Unione Europea”.
Sarà proprio questo dicastero ad avere il compito di monitorare le catene del valore strategiche e di misurare il fabbisogno nazionale di queste materie prime, conducendo anche degli stress test. Con questa prospettiva è stato creato il Registro nazionale delle aziende e delle catene del valore strategiche.
Il provvedimento individua 34 materie prime critiche e 17 strategiche, fondamentali anche per l’industria della difesa e dell’aerospazio. Stabilisce, inoltre, le percentuali da rispettare rispetto alla loro provenienza e lavorazione: il 10% dovrà provenire da estrazioni locali, il 40% sarà trasformato nella UE e il 25% sarà recuperato tramite riciclaggio.
Per quanto riguarda le concessioni minerarie relative a progetti strategici è ora previsto il versamento di un’aliquota del prodotto tra il 5% e il 7%. Gli introiti ottenuti saranno poi destinati a finanziare altri progetti per lo sviluppo del settore, in mare e sulla terraferma.
È stato attribuito all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra – Servizio geologico d’Italia) l’elaborazione del Programma nazionale di esplorazione per queste materie. Esso si basa su di una convenzione stipulata con il ministero delle Imprese e quello dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
Il viceministro di quest’ultimo, Vannia Gava, ha detto che Palazzo Chigi vuole “rilanciare il settore minerario italiano attraverso iter autorizzativi semplificati per i progetti strategici, con procedure non più lunghe di 18 mesi per le estrazioni e 10 mesi per il riciclo”. Ispra ha da poco presentato la banca dati sulle risorse minerarie nazionali.
Si tratta di 76 miniere ancora attive in Italia, 22 delle quali estraggono materiali che rientrano nell’elenco della UE. A giudicare dalle parole della Gava, possiamo immaginare la devastazione senza regole del territorio che ci aspetta, per le mire di potenza della UE, e la repressione di chi vi si opporrà attraverso il nuovo ddl Sicurezza.
Ma non c’è accordo totale all’interno del governo, anche se considerata la necessità di convertire in legge il decreto prima del 25 agosto è difficile che ciò porti a qualche modifica al Senato. La Difesa, dietro la critica retorica e propagandistica verso possibili acquirenti esteri, voleva infatti un provvedimento più sbilanciato verso il complesso militare-industriale.
Dopo il voto alla Camera, Gianclaudio Torlizzi, consigliere del ministro della Difesa per le materie prime, ha scritto su X che “la Difesa ha fatto tutto quello che ha potuto per scongiurare un rischio che purtroppo diventa ora una certezza: ossia quella di favorire il depauperamento minerario del paese. Il paese da questo provvedimento ne esce sconfitto”.
“La Difesa aveva presentato un emendamento che prevedesse, nell’ambito delle attività di riconoscimento dei progetti strategici di estrazione, trasformazione o riciclo di materie prime, di cui all’articolo 2 del provvedimento in esame, uno specifico meccanismo di prelazione esercitabile da Difesa Servizi SpA per l’acquisto delle materie prime nei casi in cui la loro carenza sia in grado di compromettere gli interessi essenziali della Difesa e della sicurezza nazionale”.
Crosetto e compagnia volevano una misura che desse priorità alla filiera della guerra, per accelerare ulteriormente sulla transizione verso un’economia di guerra (altro che verde). Ma era probabilmente più un favore a qualche consorteria perché, come abbiamo visto, la norma è pensata precisamente dentro il rafforzamento dell’autonomia, e dunque della Difesa europea.
Continua la svolta bellicista UE, che più che una deriva è lo svelamento del suo vero volto.
Fonte
Con questa norma viene adeguata la legge italiana al Critical Raw Material Act della UE. E infatti viene pure riconosciuta l’importanza di questi beni “nella realizzazione delle transizioni verde e digitale e nella salvaguardia della resilienza economica e dell’autonomia strategica”.
Una legge tutto interna alla logica imperialistica europea. Sul sito del ministero delle Imprese si legge “che al 2030 l’Europa avrà bisogno di 18 volte più litio e 5 volte più cobalto […]. Nel 2050 questo fabbisogno crescerà a 60 volte più litio e 15 volte più cobalto rispetto ai livelli attuali. Per il neodimio già nel 2025 potrebbe servire 120 volte l’attuale domanda dell’Unione Europea”.
Sarà proprio questo dicastero ad avere il compito di monitorare le catene del valore strategiche e di misurare il fabbisogno nazionale di queste materie prime, conducendo anche degli stress test. Con questa prospettiva è stato creato il Registro nazionale delle aziende e delle catene del valore strategiche.
Il provvedimento individua 34 materie prime critiche e 17 strategiche, fondamentali anche per l’industria della difesa e dell’aerospazio. Stabilisce, inoltre, le percentuali da rispettare rispetto alla loro provenienza e lavorazione: il 10% dovrà provenire da estrazioni locali, il 40% sarà trasformato nella UE e il 25% sarà recuperato tramite riciclaggio.
Per quanto riguarda le concessioni minerarie relative a progetti strategici è ora previsto il versamento di un’aliquota del prodotto tra il 5% e il 7%. Gli introiti ottenuti saranno poi destinati a finanziare altri progetti per lo sviluppo del settore, in mare e sulla terraferma.
È stato attribuito all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra – Servizio geologico d’Italia) l’elaborazione del Programma nazionale di esplorazione per queste materie. Esso si basa su di una convenzione stipulata con il ministero delle Imprese e quello dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
Il viceministro di quest’ultimo, Vannia Gava, ha detto che Palazzo Chigi vuole “rilanciare il settore minerario italiano attraverso iter autorizzativi semplificati per i progetti strategici, con procedure non più lunghe di 18 mesi per le estrazioni e 10 mesi per il riciclo”. Ispra ha da poco presentato la banca dati sulle risorse minerarie nazionali.
Si tratta di 76 miniere ancora attive in Italia, 22 delle quali estraggono materiali che rientrano nell’elenco della UE. A giudicare dalle parole della Gava, possiamo immaginare la devastazione senza regole del territorio che ci aspetta, per le mire di potenza della UE, e la repressione di chi vi si opporrà attraverso il nuovo ddl Sicurezza.
Ma non c’è accordo totale all’interno del governo, anche se considerata la necessità di convertire in legge il decreto prima del 25 agosto è difficile che ciò porti a qualche modifica al Senato. La Difesa, dietro la critica retorica e propagandistica verso possibili acquirenti esteri, voleva infatti un provvedimento più sbilanciato verso il complesso militare-industriale.
Dopo il voto alla Camera, Gianclaudio Torlizzi, consigliere del ministro della Difesa per le materie prime, ha scritto su X che “la Difesa ha fatto tutto quello che ha potuto per scongiurare un rischio che purtroppo diventa ora una certezza: ossia quella di favorire il depauperamento minerario del paese. Il paese da questo provvedimento ne esce sconfitto”.
“La Difesa aveva presentato un emendamento che prevedesse, nell’ambito delle attività di riconoscimento dei progetti strategici di estrazione, trasformazione o riciclo di materie prime, di cui all’articolo 2 del provvedimento in esame, uno specifico meccanismo di prelazione esercitabile da Difesa Servizi SpA per l’acquisto delle materie prime nei casi in cui la loro carenza sia in grado di compromettere gli interessi essenziali della Difesa e della sicurezza nazionale”.
Crosetto e compagnia volevano una misura che desse priorità alla filiera della guerra, per accelerare ulteriormente sulla transizione verso un’economia di guerra (altro che verde). Ma era probabilmente più un favore a qualche consorteria perché, come abbiamo visto, la norma è pensata precisamente dentro il rafforzamento dell’autonomia, e dunque della Difesa europea.
Continua la svolta bellicista UE, che più che una deriva è lo svelamento del suo vero volto.
Fonte
21/07/2024
Germania - Il riarmo procede a passo di carica
In Germania l’economia di guerra e il rafforzamento delle forze armate procede a ritmi vertiginosi. Il riarmo in corso segue un piano d’investimenti teso alla ristrutturazione delle forze armate, affinché esse siano pronte in caso di guerra contro la Russia.
Questa accelerazione e il cosiddetto grande cambiamento dell’esercito tedesco prevede che quest’ultimo abbia una struttura più snella e agile, dotata di un unico comando centrale sia per le operazioni esterne che interne, oltre ad un settore specifico per il cyberspazio. Il piano prevede anche un aumento del numero di militari attivi sul campo, l’obiettivo è averne 203 mila rispetto ai 181 mila attuali, entro il 2031.
Il ministro della Difesa Boris Pistorius da tempo evoca la minaccia di una guerra in Europa e l’intento di preparare a questo sia il paese che gli alleati, al momento attraverso la deterrenza. Ma il ministro ha anche esplicitato la necessità di preparare l’opinione pubblica agli scenari peggiori.
Per la sua dottrina, lo sdoganamento della possibilità di una guerra sul suolo europeo e la preparazione psicologica delle masse a una dimensione bellica è imprescindibile. A questo fine, Berlino ha sostituito la vecchia dottrina militare del 2011 con un nuovo documento, intitolato Linee guida per la politica della difesa, redatto proprio da Pistorius e dal capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Carsten Breuer.
Le nuove linee guida implicano il rafforzamento di esercito, industria ed apparati militari. Pertanto, determinano la corsa al riarmo, dopo anni di de-finanziamento delle forze armate. È in questo contesto che si inserisce la ristrutturazione dell’ambiente militare che, oltre all’Esercito, all’Aeronautica e alla Marina comprenderà il Cir (reparto dedicato alle cyber-operazioni e all’informazione). Esso si concentrerà sulle minacce ibride come le campagne di disinformazione e verrà elevato al rango di forza armata.
Il ministro della Difesa Pistorius ha confermato che la Germania raggiungerà presto la quota del 2% di investimenti del Pil in difesa, obiettivo minimo concordato in ambito Nato. Dopo avere stanziato, a questo scopo, un fondo speciale del valore nominale di 200 miliardi di euro, ha affermato che avrà bisogno di ulteriori 6,5 miliardi nel bilancio 2025 per raggiungere gli obiettivi di spesa. Il fondo speciale che, da quest’anno, garantisce 50 miliardi l’anno alla Difesa, con scadenza nel 2028, dovrebbe permettere di raggiungere il 2% del Pil. Dal 2028 in poi questa voce andrà finanziata di nuovo dal bilancio ordinario e per mantenere l’obiettivo del 2% le risorse dovranno aumentare da 50 a 75 miliardi.
Fonte
Questa accelerazione e il cosiddetto grande cambiamento dell’esercito tedesco prevede che quest’ultimo abbia una struttura più snella e agile, dotata di un unico comando centrale sia per le operazioni esterne che interne, oltre ad un settore specifico per il cyberspazio. Il piano prevede anche un aumento del numero di militari attivi sul campo, l’obiettivo è averne 203 mila rispetto ai 181 mila attuali, entro il 2031.
Il ministro della Difesa Boris Pistorius da tempo evoca la minaccia di una guerra in Europa e l’intento di preparare a questo sia il paese che gli alleati, al momento attraverso la deterrenza. Ma il ministro ha anche esplicitato la necessità di preparare l’opinione pubblica agli scenari peggiori.
Per la sua dottrina, lo sdoganamento della possibilità di una guerra sul suolo europeo e la preparazione psicologica delle masse a una dimensione bellica è imprescindibile. A questo fine, Berlino ha sostituito la vecchia dottrina militare del 2011 con un nuovo documento, intitolato Linee guida per la politica della difesa, redatto proprio da Pistorius e dal capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Carsten Breuer.
Le nuove linee guida implicano il rafforzamento di esercito, industria ed apparati militari. Pertanto, determinano la corsa al riarmo, dopo anni di de-finanziamento delle forze armate. È in questo contesto che si inserisce la ristrutturazione dell’ambiente militare che, oltre all’Esercito, all’Aeronautica e alla Marina comprenderà il Cir (reparto dedicato alle cyber-operazioni e all’informazione). Esso si concentrerà sulle minacce ibride come le campagne di disinformazione e verrà elevato al rango di forza armata.
Il ministro della Difesa Pistorius ha confermato che la Germania raggiungerà presto la quota del 2% di investimenti del Pil in difesa, obiettivo minimo concordato in ambito Nato. Dopo avere stanziato, a questo scopo, un fondo speciale del valore nominale di 200 miliardi di euro, ha affermato che avrà bisogno di ulteriori 6,5 miliardi nel bilancio 2025 per raggiungere gli obiettivi di spesa. Il fondo speciale che, da quest’anno, garantisce 50 miliardi l’anno alla Difesa, con scadenza nel 2028, dovrebbe permettere di raggiungere il 2% del Pil. Dal 2028 in poi questa voce andrà finanziata di nuovo dal bilancio ordinario e per mantenere l’obiettivo del 2% le risorse dovranno aumentare da 50 a 75 miliardi.
Fonte
18/06/2024
Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare: crisi di egemonia e pulsioni belliche degli USA
I. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie
La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.
II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito
Una prima relazione causale tra tassi di interesse e consumi che vale la pena considerare è quella stabilita dall’influenza diretta che il tasso di interesse esercita sulla distribuzione del reddito. Il tasso di interesse sulle attività finanziarie prive di rischio a lungo termine costituisce un determinante autonomo dei costi normali di produzione; a parità di condizioni, un abbassamento persistente del tasso di interesse a lungo termine come quello avvenuto negli ultimi quaranta anni provoca un abbassamento del livello dei prezzi in relazione al livello dei salari monetari, generando così una riduzione del tasso normale di profitto e un aumento del salario reale. Questa relazione tra tasso di interesse e salari reali è tuttavia offuscata dal fatto che il tasso di interesse a lungo termine non è che uno dei determinanti dei margini di profitto normali lordi. Gli altri sono, oltre ai profitti normali di impresa, gli ammortamenti e le remunerazioni degli alti dirigenti. Per ogni dato andamento del tasso di interesse a lungo termine, ciascuna di queste altre componenti del profitto normale lordo può subire nel tempo qualche cambiamento, tale da risultare in un movimento non inverso dei tassi di interesse e dei salari reali. È ampiamente riconosciuto che l’accorciamento della vita media delle attrezzature ha causato negli ultimi decenni un aumento delle quote di ammortamento per unità di prodotto. Ancora più importante, un indebolimento generale dell’incentivo a investire ha probabilmente comportato profitti aziendali significativamente più elevati in tutta l’economia. L’epocale allontanamento dall’obiettivo politico della piena occupazione avvenuto alla fine degli anni ’70 ha ridotto l’incentivo a investire in tutto il capitalismo avanzato, abbassando il tasso di crescita della formazione di capitale fisso a meno della metà di quello registrato nell’età d’oro del capitalismo avanzato, ovvero il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. Il punto è che una riduzione dell’incentivo a investire equivale a un aumento del rischio di impiegare produttivamente il capitale, che deve dunque tradursi in un aumento della componente normale del profitto necessaria a remunerarlo. A causa di tutti questi cambiamenti, i margini di profitto sono aumentati nonostante la marcata tendenza al ribasso dei tassi di interesse a lungo termine. Ma senza la riduzione dei tassi di interesse, i margini di profitto lordi e il rapporto tra prezzi e salari monetari sarebbero stati ancora più elevati. In effetti, soprattutto nella seconda metà degli anni ’90, la diminuzione dei tassi di interesse sembra aver in una certa misura frenato l’impatto negativo sui salari reali dell’aumento delle altre tre componenti dei profitti normali.
III. Bassi tassi di interesse e prestiti al consumo
A prescindere dal loro impatto attraverso la distribuzione del reddito, i bassi tassi di interesse hanno sostenuto i consumi, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso i loro effetti sul debito delle famiglie, sui prezzi dei titoli obbligazionari e azionari, nonché sul valore delle case. A partire dalla metà degli anni Novanta, la capacità di ampi settori della popolazione di acquistare beni e servizi è stata significativamente influenzata in modo positivo sia da un minore onere del debito che da un aumento dei prezzi dei titoli e delle case. Consideriamo questi fenomeni più nel dettaglio, partendo dall’indebitamento delle famiglie.
Come abbiamo sostenuto altrove (Barba e Pivetti, 2009), il calo dei tassi di interesse è riuscito a contenere per diversi anni la quota di reddito personale disponibile delle famiglie necessaria ad onorare il loro crescente indebitamento, prolungando così in modo significativo la sostenibilità macroeconomica di un massiccio processo di sostituzione dei salari con i prestiti. Dal 1982 in poi il credito al consumo ebbe una forte espansione, con una crescita media dell’8% nel periodo dal 1992 fino alla crisi finanziaria. Oltre ai debiti dovuti alle carte di credito e alle vendite rateali (per le automobili in particolar modo), anche una cospicua parte dell’aumento dei mutui ipotecari del periodo fu il riflesso della crescente tendenza delle famiglie a indebitarsi per finanziare i consumi, utilizzando il valore delle case come collaterale. Dal momento che, in proporzione al reddito, il credito al consumo a vario titolo erogato era fortemente concentrato nell’80% più basso della distribuzione del reddito, l’indebitamento delle famiglie di quegli anni può essere visto come la contropartita del cambiamento distributivo avvenuto negli USA a partire dall’inizio degli anni ‘80. In un contesto di deregolamentazione finanziaria e di allentamento dei vincoli di liquidità per le famiglie a basso e medio reddito, l’aumento del credito al consumo è stato la risposta alla stagnazione dei salari reali (anche ad aumenti dei salari che, tuttavia, persistentemente non tenevano il passo con la produttività), nonché alle crescenti divergenze tra le retribuzioni più alte e quelle più basse.
Attraverso l’indebitamento delle famiglie si assicurò in sostanza la coesistenza tra salari relativamente bassi e livelli elevati di domanda aggregata, senza che fosse per questo necessario ricorrere all’intervento statale e a maggiori spese pubbliche. Inoltre, con la sostituzione dei prestiti ai salari, la quota di reddito effettivo spettante ai capitalisti ed hoc genus omne (soprattutto a quest’ultimo, secondo Piketty e Saez 2006) venne alimentata anche dal fatto che l’onere del servizio del debito alla fine spinse i salariati a lavorare di più e per orari più lunghi, accrescendo la loro disponibilità ad “andare ovunque e fare qualsiasi cosa” e contribuendo così alla persistenza dei bassi salari.
Ma il processo di sostituzione dei prestiti ai salari non poteva andare avanti all’infinito. Oltre certi livelli, il servizio del debito da parte delle famiglie indebitate diventava insostenibile. Di fatto, la sostenibilità macroeconomica del processo venne significativamente prolungata in due modi: in primo luogo, coinvolgendo un numero crescente di lavoratori dipendenti nel processo di indebitamento (un’espansione considerevole nel corso di diversi anni dei cosiddetti mutui subprime fu l’aspetto principale di questo primo mezzo di protrazione del processo); in secondo luogo, proprio dalla politica di progressiva riduzione dei tassi di interesse perseguita dalla Federal Reserve a partire dal 1995. Infatti, a fronte di tassi di interesse che continuavano a scendere, l’onere del servizio del debito, misurato in percentuale del reddito personale disponibile, non aumentava nonostante il continuo aumento del debito delle famiglie in rapporto al PIL. Non c’è dubbio, insomma, che il ricorso ad una politica monetaria di denaro sempre più a buon mercato ritardò significativamente negli Stati Uniti il redde rationem del rapido aumento del debito delle famiglie, così come non c’è dubbio che la posizione del dollaro come indiscussa valuta di riserva internazionale fu ciò che permise agli Stati Uniti di mantenere il controllo dei tassi di interesse interni, nonostante la liberalizzazione finanziaria.
Resta tuttavia il fatto che anche una politica di bassi tassi di interesse non poteva consentire al processo di continuare, come divenne chiaro non solo con la crisi finanziaria ma anche dopo, quando l’espansione del credito al consumo non riavviò il trend di crescita pre-crisi, nonostante i bassi tassi di interesse e la ripresa dei prezzi delle case.
IV. Bassi tassi di interesse e effetti ricchezza
Oltre a consentire un lungo processo di sostituzione dei salari con prestiti, c’è un altro canale attraverso il quale il denaro a basso costo potrebbe aver reso i consumi delle famiglie negli Stati Uniti la componente più dinamica della domanda effettiva. Ci riferiamo alla crescita del loro patrimonio netto. I dati sembrano suggerire una stabile relazione inversa tra il tasso di risparmio personale e il patrimonio netto delle famiglie. Durante l’età dell’oro del capitalismo avanzato, il tasso di risparmio personale aumentò leggermente, mentre il rapporto tra patrimonio netto e PIL diminuì leggermente. Questo rapporto cominciò a crescere costantemente all’inizio degli anni ‘80, quando il tasso di risparmio personale iniziò a ridursi, per poi acquistare slancio nei decenni successivi, in particolare durante la bolla delle dot-com 1995-2000, la bolla immobiliare e creditizia del 2003-2007 e l’emergenza sanitaria pubblica del COVID-19.
A partire dal 2007, tuttavia, il legame tra ricchezza e risparmio è venuto meno, e nonostante una crescita sostanziale del rapporto patrimonio netto/PIL, il tasso di risparmio personale è rimasto pressoché invariato dopo il 2010. Lo sganciamento del rapporto patrimonio netto/PIL dal tasso di risparmio personale suggerisce con forza che in realtà gli effetti della ricchezza sui consumi sono molto più tenui di quanto si creda. Il motivo è legato al modo in cui la crescita del patrimonio netto ha interessato i diversi percentili della distribuzione del reddito. Alla fine del 1989 il patrimonio netto delle famiglie americane era pari a circa 21 trilioni; nel terzo trimestre del 2023 ha raggiunto i 142,4 trilioni. Questa crescita è andata per 80 trilioni al 10% più ricco della popolazione; solo per 40 trilioni all’80% più povero. Mentre nel 1989 la quota di ricchezza netta detenuta dall’80% delle famiglie più povere era pari al 39,3% rispetto al 60,7% detenuta dal 20% più ricco, nel 2023 la quota delle prime è scesa al 29,6% mentre quella delle seconde è cresciuta al 70,4%. La riduzione ha interessato tutti i gruppi percentili più bassi della scala del reddito, ad eccezione del gruppo 0-20% la cui quota è rimasta pressoché invariata. La quota del gruppo 20-40% è scesa dal 7,5% al 4,6%; quello del gruppo 40-60% dal 12,4% all’8,4% e quello del gruppo 60-80% dal 16,5% al 13,5%. A beneficiarne è stata la fascia 80-99% con un aumento dal 43,9% al 47,2% e, soprattutto, l’1% più ricco della popolazione con la sua quota in aumento dal 16,8% al 23,3%.
È quindi possibile concludere che il fenomeno rilevante verificatosi nel 2010 fu la fine della crescita incontrollata dei consumi delle famiglie finanziati dal debito – non la perdita di forza dell’effetto ricchezza, dal momento che anche prima della crisi finanziaria il suo ruolo era stato di fatto limitato alla sola ricchezza immobiliare come strumento di finanziamento dei consumi a debito.
Proprio perché è difficile negare che gli effetti ricchezza, eccezion fatta per il canale mutui ipotecari-credito al consumo, riguardino soprattutto i ricchi, secondo alcuni autori (vedi ad esempio Maki e Palumbo, 2001) la caduta del tasso di risparmio statunitense sarebbe stata determinata dal comportamento di consumo del quintile più alto della distribuzione: gli effetti ricchezza avrebbero aumentato la propensione al consumo dei percettori dei redditi più alti a tal punto da rendere negativo il loro tasso di risparmio. In realtà, l’idea che gli effetti ricchezza possano aver portato i ricchi a ridurre il tasso di risparmio complessivo è piuttosto difficile da digerire, considerando che la coda finale del quintile più alto è composto da persone che sono semplicemente troppo ricche per poter spendere in consumi l’intero reddito. Quindi, anche se il calo dei tassi di interesse e i relativi effetti ricchezza possono aver stimolato per diversi anni dei consumi opulenti, può difficilmente stupire che l’idea che la concentrazione della ricchezza possa trasformarsi da “da vizio privato a pubblica virtù” abbia recentemente perso terreno. Da un lato, gli studi quantitativi dell’effetto ricchezza sui consumi personali stanno sempre di più evidenziando un ruolo molto limitato per il mercato azionario, mentre un’influenza molto più forte risulta essere esercitata dalla ricchezza non finanziaria. Questo esito dipende proprio dall’elevata concentrazione della ricchezza azionaria, rispetto a quella immobiliare, che è invece molto più equamente distribuita, e che, come sottolineato in precedenza, ha sostenuto i consumi fungendo da garanzia per il debito delle famiglie, funzione che soprattutto negli anni precedenti la crisi finanziaria ha interessato i livelli più bassi della distribuzione del reddito, composti in gran parte da famiglie con basso merito creditizio. Del resto, il riconoscimento che i ricchi risparmino di più e che il maggiore risparmio del 10%-20% più ricco della popolazione sia da mettere in relazione al minor risparmio del restante 90%-80% sta guadagnando terreno anche nella letteratura ortodossa, anche se con un ritardo significativo e in connessione con la tesi tradizionale secondo cui sarebbe stato proprio l’eccesso di risparmio dei ricchi ad aver spinto i tassi di interesse verso il basso (cfr. Mian et al., 2021).
V. Bassi tassi di interesse ed eutanasia del rentier
Nel 2021, la politica statunitense di lungo periodo di tassi di interesse bassi e calanti è giunta al termine, un cambiamento di indirizzo ufficialmente giustificato dalla necessità di combattere l’inflazione. Ma come strumento antinflazionistico, una politica monetaria più restrittiva è a dir poco problematica. Questo perché i tassi di interesse sono considerati dalle imprese come un costo, con il corollario che una politica di denaro a caro prezzo è inflazionistica, come confermato da tempo dagli studi empirici sulle politiche di prezzo delle imprese. Si potrebbe dire, usando le parole di un vecchio presidente del Joint Economic Committee americano, che “alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione è come buttare benzina sul fuoco”. Dati i salari monetari e la produttività del lavoro, l’aumento dei prezzi causato da un aumento duraturo dei tassi di interesse riflette semplicemente l’adattamento dei prezzi ai costi normali produzione causato dalla concorrenza. Tassi di interesse più elevati potrebbero riuscire a ridurre l’inflazione solo se il rapporto più elevato tra prezzi e salari monetari che essi determinano fosse più che controbilanciato da una riduzione o da un aumento più lento dei salari monetari, causato dall’impatto negativo sull’occupazione della contrazione della spesa per consumi provocata da tassi di interesse più elevati. Rispetto all’abbandono della politica di bassi tassi di interesse, più importante dei suoi effetti sull’inflazione è il semplice fatto che il capitalismo non può funzionare indefinitamente con tassi di interesse nulli o negativi – uno stato di “eutanasia del rentier” non può essere raggiunto semplicemente attraverso la politica monetaria, senza alcuna rivoluzione sociale. Nel sistema capitalistico la proprietà privata della ricchezza, distinta dalla proprietà del capitale produttivo, non può cessare permanentemente di produrre reddito, indipendentemente dalle forme del suo impiego; né la maggior parte di quel reddito può essere garantita in modo permanente dalla speculazione e dalle plusvalenze. Nel contesto di una politica permanente di tassi di interesse nulli, la mera proprietà privata della ricchezza cesserebbe di essere una sinecura, il sistema creditizio collasserebbe e i redditi da capitale potrebbero continuare ad esistere solo come profitti d’impresa.
VI. Domanda effettiva e spesa militare
Negli ultimi tre anni la politica statunitense di rincaro della moneta e rafforzamento del dollaro si è accompagnata a politiche di bilancio espansive, integrate da politiche industriali volte a ridurre la propensione all’importazione del Paese, soprattutto in alcuni settori chiave: il “Buy American Rules”, l’“Inflation Reduction Act” (in realtà una misura protezionistica intesa a stimolare la produzione manifatturiera nazionale) e il “CHIPS & Science Act” sono le più importanti tra esse. La fine nel 2021 di un lungo periodo durante il quale negli USA la crescita era stata sostenuta principalmente dalla spesa per consumi delle famiglie sembra aver trovato sbocco nel ritorno ad una politica di “grande governo”, non solo con l’obiettivo di sostenere la crescita nel nuovo contesto, ma anche di riconquistare egemonia internazionale. Su entrambi i fronti – crescita economica e ripristino dell’egemonia – un nuovo rafforzamento militare americano sembra essere l’esito più probabile.
Nella tradizione keynesiana, con il termine “grande governo” si è sempre fatto riferimento a tassi elevati e crescenti di spesa statale, locale e federale – in particolare di quest’ultima, poiché è principalmente il governo federale che può influenzare la domanda aggregata attraverso la politica fiscale per garantire il buon andamento dell’economia. Ma dall’inizio della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica nel 1947, fatta eccezione per la breve esperienza del presidente Johnson con i suoi programmi sociali della Great Society, un’ingente spesa federale non ha mai significato negli Stati Uniti creazione e sviluppo di un generoso sistema di Welfare State di tipo socialdemocratico europeo. Dall’enunciazione della Dottrina Truman nel marzo 1947 fino alla fine degli anni ’60 gli acquisti federali legati ai programmi militari e spaziali (DoD più NASA) furono la componente più dinamica della domanda effettiva, mentre la disoccupazione statunitense rimase su livelli ben al di sotto della media dell’intero dopoguerra. Dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 il tasso di disoccupazione mostrò un trend crescente, in coincidenza con la stagnazione della spesa militare e la sua tendenza al ribasso in percentuale del PIL; infine, dal suo picco assoluto nel 1982 (quasi l’11% alla fine di quell’anno), il tasso di disoccupazione statunitense continuò a scendere per il resto degli anni ’80, con il potenziamento militare di Reagan cui corrispose il più intenso processo di riarmo in tempo di pace della storia degli Stati Uniti (vedi Pivetti, 1992 e 1994). L’implosione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda diedero inizio all’“era del dividendo della pace”. Un buon andamento a lungo termine del capitalismo americano difficilmente poteva continuare a essere ottenuto attraverso l’espansione della spesa militare e al suo posto, come abbiamo rilevato, subentrò un’espansione di lungo periodo dei consumi privati attraverso una politica di tassi di interesse bassi e decrescenti, che non poteva però durare indefinitamente senza causare il collasso del sistema creditizio.
VII. Trasferimenti pubblici e Keynesismo anticongiunturale
Con la Grande Recessione del 2008 e la recessione da Covid-19 si è verificato un massiccio ricorso ad un’ampia gamma di trasferimenti alle famiglie (indennità di disoccupazione, assistenza abitativa, assistenza alimentare, ecc.), principalmente in funzione anticiclica, che ha portato il disavanzo pubblico totale a livelli senza precedenti: -13,1% nel 2009, -11,8% nel 2010 e -11% nel 2011, poi -15,7% nel 2020 e -12% nel 2021. Le ragioni di questo uso diffuso dei trasferimenti pubblici derivavano non solo dal loro loro essere un potente veicolo di stabilità sociale – sia direttamente che indirettamente attraverso il moltiplicatore dell’occupazione – ma anche dalla loro facile reversibilità, cioè dal non implicare investimenti pubblici e un’espansione del ruolo dello Stato nell’economia (così già nel 2014 il deficit venne ridotto al 4,8% e nel 2022 al 6%). La sostituzione dei salari con prestiti, quindi, è stata in parte rimpiazzata dalla sostituzione di prestiti inesigibili con aumenti transitori dei trasferimenti pubblici – a buona conferma dell’idea secondo cui “ci si può aspettare che i leader aziendali e i loro esperti siano più favorevoli al sussidio del consumo di massa che agli investimenti pubblici, poiché sovvenzionando il consumo il governo non si imbarca in alcun tipo di impresa” (Kalecki, 1943, pp. 325-6). Si tratta tuttavia di un favore che non può che essere limitato poiché “i fondamenti dell’etica capitalista richiedono che ‘ci si guadagni il pane con il sudore’ – a meno che non si disponga di mezzi privati” (ibid.). Qui ovviamente la questione non è di carattere etico ma riguarda piuttosto la sottomissione del lavoro al capitale, che nel caso di un crescente debito privato è assicurata da una forza lavoro sempre più sottomessa, mentre nel caso di crescenti trasferimenti pubblici tende ad evolvere nella direzione opposta, con ovvie conseguenze sul potere contrattuale dei lavoratori dipendenti.
VIII. Cause interne ed esterne del militarismo USA
Queste considerazioni portano alla conclusione che nell’attuale confronto geopolitico ed economico tra gli USA e i loro satelliti europei, da un lato, la Russia e la Cina dall’altro, appare molto probabile che le spese militari e il riarmo riprenderanno il loro vecchio ruolo. Come abbiamo argomentato, importanti esigenze economiche interne si affiancano alla prospettiva di una vera e propria guerra fredda tra l’Occidente e la Cina, attualmente la nazione più insidiosa per l’egemonia internazionale americana. C’è poi l’obiettivo, difficilmente perseguibile senza un complesso militare-industriale sempre più potente e una forza militare travolgente, di frantumare la Federazione Russa allo scopo di saccheggiare le sue ingenti risorse naturali ed impedire una sempre più stretta integrazione tra la sua economia e quella europea, frustrando l’aspirazione di quest’ultima al ruolo di forza ‘neutrale’ nello scontro in atto.
L’intreccio tra circostanze interne ed esterne che alimentano la pulsione bellica del paese egemone non va sottovalutato. La necessità di garantire il sostegno alla domanda effettiva con spese militari è determinato dalle inevitabili conseguenze distributive che avrebbe un rilancio della domanda interna basato su programmi di spesa del tipo Great Society. Allo stesso modo, un serio piano di reindustrializzazione, non motivato soltanto dalla necessità di impedire lo sviluppo dei concorrenti internazionali in campi suscettibili di compromettere il primato tecnologico e militare degli USA, implicherebbe una svolta protezionistica di natura non meramente ‘strategica’, con ancor più marcate conseguenze sul piano distributivo. L’opzione bellica soddisfa dunque esigenze tanto interne che esterne, entrambe funzionali a preservare l’assetto distributivo che il capitalismo avanzato si è dato nell’ultimo quarantennio. La crisi a cui la globalizzazione è andata incontro negli ultimi anni non è motivata da una presa di consapevolezza dell’insostenibilità sociale degli effetti occupazionali e distributivi che essa ha generato nel capitalismo avanzato. Se la Cina non costituisse una minaccia reale, gli USA non avrebbero nessun problema a continuare ad approvvigionarsi dei beni prodotti dalla “grande fabbrica del mondo”. Di fatto è ciò che essi stanno ancora facendo, ostacolando determinate produzioni e non altre, determinati paesi e non altri, tutto in funzione di non compromettere ulteriormente la propria egemonia.
Per quanto riguarda l’Europa, il sabotaggio del Nord Stream 2 ha chiarito quanto velleitaria fosse l’idea di poter conquistare spazi di maggior autonomia in nome dei principi della concorrenza e del libero commercio internazionale. D’altro canto, vi è ancor meno consapevolezza che negli USA degli effetti socialmente deleteri della globalizzazione. L’Europa non riesce ad esprimere null’altro che grossolana subalternità delle sue élite politiche agli Stati Uniti. Settant’anni di intrighi internazionali, interventi militari e cambi di regime hanno portato la maggior parte della popolazione mondiale, compresa una parte sostanziale di quella europea, a diffidare profondamente dell’America e dei suoi valletti sparsi per il mondo. L’egemonia culturale degli Stati Uniti si è notevolmente attenuata dalla “fine della storia” nel dicembre 1991 e un numero crescente di cittadini europei percepisce oggi l’America come un faro di inciviltà. Ma per quanto forte sia il loro sentimento di ripulsa, resta vero che, come il rigetto nei confronti di un assetto di politica economica sempre più incapace di garantire ai lavoratori condizioni di esistenza dignitose, esso resta del tutto privo di un qualsivoglia sbocco politico socialmente progressivo.
Bibliografia
Barba, A. and Pivetti, M. (2009), “Rising household debt: its causes and macroeconomic implications – a long period analysis”. Cambridge Journal of Economics, 33, 113-37.
Kalecki, M. 1943. “Political Aspects of Full Employment”. Political Quarterly, 14 (4), 322–331.
Maki, D.M. and Palumbo, M.G. (2001), “Disentangling the wealth effect: a cohort analysis of household saving in the 1990s”. Board of Governors of the Federal Reserve System, Finance and Economics Discussion Series n. 2001-21.
Mian, A., Straub, L. and Sufi, A. (2021), “The Saving Glut of the Rich”. NBER Working Paper N.26942.
Piketty, T. and Saez, E. (2003), “Income inequality in the United States, 1913-1998”. Quarterly Journal of Economics, CVIII (1), 1-39.
Pivetti, M. (1992), “Military spending as a burden on growth: an ‘underconsumptionist critique’”. Cambridge Journal of Economics, 16 (4), 373-84. Pivetti, M. (1994), “Effective demand, ‘Marxo-marginalism’ and the economics of military spending: a rejoinder”. Cambridge Journal of Economics, 18 (5), 523-27.
Fonte
La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.
II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito
Una prima relazione causale tra tassi di interesse e consumi che vale la pena considerare è quella stabilita dall’influenza diretta che il tasso di interesse esercita sulla distribuzione del reddito. Il tasso di interesse sulle attività finanziarie prive di rischio a lungo termine costituisce un determinante autonomo dei costi normali di produzione; a parità di condizioni, un abbassamento persistente del tasso di interesse a lungo termine come quello avvenuto negli ultimi quaranta anni provoca un abbassamento del livello dei prezzi in relazione al livello dei salari monetari, generando così una riduzione del tasso normale di profitto e un aumento del salario reale. Questa relazione tra tasso di interesse e salari reali è tuttavia offuscata dal fatto che il tasso di interesse a lungo termine non è che uno dei determinanti dei margini di profitto normali lordi. Gli altri sono, oltre ai profitti normali di impresa, gli ammortamenti e le remunerazioni degli alti dirigenti. Per ogni dato andamento del tasso di interesse a lungo termine, ciascuna di queste altre componenti del profitto normale lordo può subire nel tempo qualche cambiamento, tale da risultare in un movimento non inverso dei tassi di interesse e dei salari reali. È ampiamente riconosciuto che l’accorciamento della vita media delle attrezzature ha causato negli ultimi decenni un aumento delle quote di ammortamento per unità di prodotto. Ancora più importante, un indebolimento generale dell’incentivo a investire ha probabilmente comportato profitti aziendali significativamente più elevati in tutta l’economia. L’epocale allontanamento dall’obiettivo politico della piena occupazione avvenuto alla fine degli anni ’70 ha ridotto l’incentivo a investire in tutto il capitalismo avanzato, abbassando il tasso di crescita della formazione di capitale fisso a meno della metà di quello registrato nell’età d’oro del capitalismo avanzato, ovvero il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. Il punto è che una riduzione dell’incentivo a investire equivale a un aumento del rischio di impiegare produttivamente il capitale, che deve dunque tradursi in un aumento della componente normale del profitto necessaria a remunerarlo. A causa di tutti questi cambiamenti, i margini di profitto sono aumentati nonostante la marcata tendenza al ribasso dei tassi di interesse a lungo termine. Ma senza la riduzione dei tassi di interesse, i margini di profitto lordi e il rapporto tra prezzi e salari monetari sarebbero stati ancora più elevati. In effetti, soprattutto nella seconda metà degli anni ’90, la diminuzione dei tassi di interesse sembra aver in una certa misura frenato l’impatto negativo sui salari reali dell’aumento delle altre tre componenti dei profitti normali.
III. Bassi tassi di interesse e prestiti al consumo
A prescindere dal loro impatto attraverso la distribuzione del reddito, i bassi tassi di interesse hanno sostenuto i consumi, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso i loro effetti sul debito delle famiglie, sui prezzi dei titoli obbligazionari e azionari, nonché sul valore delle case. A partire dalla metà degli anni Novanta, la capacità di ampi settori della popolazione di acquistare beni e servizi è stata significativamente influenzata in modo positivo sia da un minore onere del debito che da un aumento dei prezzi dei titoli e delle case. Consideriamo questi fenomeni più nel dettaglio, partendo dall’indebitamento delle famiglie.
Come abbiamo sostenuto altrove (Barba e Pivetti, 2009), il calo dei tassi di interesse è riuscito a contenere per diversi anni la quota di reddito personale disponibile delle famiglie necessaria ad onorare il loro crescente indebitamento, prolungando così in modo significativo la sostenibilità macroeconomica di un massiccio processo di sostituzione dei salari con i prestiti. Dal 1982 in poi il credito al consumo ebbe una forte espansione, con una crescita media dell’8% nel periodo dal 1992 fino alla crisi finanziaria. Oltre ai debiti dovuti alle carte di credito e alle vendite rateali (per le automobili in particolar modo), anche una cospicua parte dell’aumento dei mutui ipotecari del periodo fu il riflesso della crescente tendenza delle famiglie a indebitarsi per finanziare i consumi, utilizzando il valore delle case come collaterale. Dal momento che, in proporzione al reddito, il credito al consumo a vario titolo erogato era fortemente concentrato nell’80% più basso della distribuzione del reddito, l’indebitamento delle famiglie di quegli anni può essere visto come la contropartita del cambiamento distributivo avvenuto negli USA a partire dall’inizio degli anni ‘80. In un contesto di deregolamentazione finanziaria e di allentamento dei vincoli di liquidità per le famiglie a basso e medio reddito, l’aumento del credito al consumo è stato la risposta alla stagnazione dei salari reali (anche ad aumenti dei salari che, tuttavia, persistentemente non tenevano il passo con la produttività), nonché alle crescenti divergenze tra le retribuzioni più alte e quelle più basse.
Attraverso l’indebitamento delle famiglie si assicurò in sostanza la coesistenza tra salari relativamente bassi e livelli elevati di domanda aggregata, senza che fosse per questo necessario ricorrere all’intervento statale e a maggiori spese pubbliche. Inoltre, con la sostituzione dei prestiti ai salari, la quota di reddito effettivo spettante ai capitalisti ed hoc genus omne (soprattutto a quest’ultimo, secondo Piketty e Saez 2006) venne alimentata anche dal fatto che l’onere del servizio del debito alla fine spinse i salariati a lavorare di più e per orari più lunghi, accrescendo la loro disponibilità ad “andare ovunque e fare qualsiasi cosa” e contribuendo così alla persistenza dei bassi salari.
Ma il processo di sostituzione dei prestiti ai salari non poteva andare avanti all’infinito. Oltre certi livelli, il servizio del debito da parte delle famiglie indebitate diventava insostenibile. Di fatto, la sostenibilità macroeconomica del processo venne significativamente prolungata in due modi: in primo luogo, coinvolgendo un numero crescente di lavoratori dipendenti nel processo di indebitamento (un’espansione considerevole nel corso di diversi anni dei cosiddetti mutui subprime fu l’aspetto principale di questo primo mezzo di protrazione del processo); in secondo luogo, proprio dalla politica di progressiva riduzione dei tassi di interesse perseguita dalla Federal Reserve a partire dal 1995. Infatti, a fronte di tassi di interesse che continuavano a scendere, l’onere del servizio del debito, misurato in percentuale del reddito personale disponibile, non aumentava nonostante il continuo aumento del debito delle famiglie in rapporto al PIL. Non c’è dubbio, insomma, che il ricorso ad una politica monetaria di denaro sempre più a buon mercato ritardò significativamente negli Stati Uniti il redde rationem del rapido aumento del debito delle famiglie, così come non c’è dubbio che la posizione del dollaro come indiscussa valuta di riserva internazionale fu ciò che permise agli Stati Uniti di mantenere il controllo dei tassi di interesse interni, nonostante la liberalizzazione finanziaria.
Resta tuttavia il fatto che anche una politica di bassi tassi di interesse non poteva consentire al processo di continuare, come divenne chiaro non solo con la crisi finanziaria ma anche dopo, quando l’espansione del credito al consumo non riavviò il trend di crescita pre-crisi, nonostante i bassi tassi di interesse e la ripresa dei prezzi delle case.
IV. Bassi tassi di interesse e effetti ricchezza
Oltre a consentire un lungo processo di sostituzione dei salari con prestiti, c’è un altro canale attraverso il quale il denaro a basso costo potrebbe aver reso i consumi delle famiglie negli Stati Uniti la componente più dinamica della domanda effettiva. Ci riferiamo alla crescita del loro patrimonio netto. I dati sembrano suggerire una stabile relazione inversa tra il tasso di risparmio personale e il patrimonio netto delle famiglie. Durante l’età dell’oro del capitalismo avanzato, il tasso di risparmio personale aumentò leggermente, mentre il rapporto tra patrimonio netto e PIL diminuì leggermente. Questo rapporto cominciò a crescere costantemente all’inizio degli anni ‘80, quando il tasso di risparmio personale iniziò a ridursi, per poi acquistare slancio nei decenni successivi, in particolare durante la bolla delle dot-com 1995-2000, la bolla immobiliare e creditizia del 2003-2007 e l’emergenza sanitaria pubblica del COVID-19.
A partire dal 2007, tuttavia, il legame tra ricchezza e risparmio è venuto meno, e nonostante una crescita sostanziale del rapporto patrimonio netto/PIL, il tasso di risparmio personale è rimasto pressoché invariato dopo il 2010. Lo sganciamento del rapporto patrimonio netto/PIL dal tasso di risparmio personale suggerisce con forza che in realtà gli effetti della ricchezza sui consumi sono molto più tenui di quanto si creda. Il motivo è legato al modo in cui la crescita del patrimonio netto ha interessato i diversi percentili della distribuzione del reddito. Alla fine del 1989 il patrimonio netto delle famiglie americane era pari a circa 21 trilioni; nel terzo trimestre del 2023 ha raggiunto i 142,4 trilioni. Questa crescita è andata per 80 trilioni al 10% più ricco della popolazione; solo per 40 trilioni all’80% più povero. Mentre nel 1989 la quota di ricchezza netta detenuta dall’80% delle famiglie più povere era pari al 39,3% rispetto al 60,7% detenuta dal 20% più ricco, nel 2023 la quota delle prime è scesa al 29,6% mentre quella delle seconde è cresciuta al 70,4%. La riduzione ha interessato tutti i gruppi percentili più bassi della scala del reddito, ad eccezione del gruppo 0-20% la cui quota è rimasta pressoché invariata. La quota del gruppo 20-40% è scesa dal 7,5% al 4,6%; quello del gruppo 40-60% dal 12,4% all’8,4% e quello del gruppo 60-80% dal 16,5% al 13,5%. A beneficiarne è stata la fascia 80-99% con un aumento dal 43,9% al 47,2% e, soprattutto, l’1% più ricco della popolazione con la sua quota in aumento dal 16,8% al 23,3%.
È quindi possibile concludere che il fenomeno rilevante verificatosi nel 2010 fu la fine della crescita incontrollata dei consumi delle famiglie finanziati dal debito – non la perdita di forza dell’effetto ricchezza, dal momento che anche prima della crisi finanziaria il suo ruolo era stato di fatto limitato alla sola ricchezza immobiliare come strumento di finanziamento dei consumi a debito.
Proprio perché è difficile negare che gli effetti ricchezza, eccezion fatta per il canale mutui ipotecari-credito al consumo, riguardino soprattutto i ricchi, secondo alcuni autori (vedi ad esempio Maki e Palumbo, 2001) la caduta del tasso di risparmio statunitense sarebbe stata determinata dal comportamento di consumo del quintile più alto della distribuzione: gli effetti ricchezza avrebbero aumentato la propensione al consumo dei percettori dei redditi più alti a tal punto da rendere negativo il loro tasso di risparmio. In realtà, l’idea che gli effetti ricchezza possano aver portato i ricchi a ridurre il tasso di risparmio complessivo è piuttosto difficile da digerire, considerando che la coda finale del quintile più alto è composto da persone che sono semplicemente troppo ricche per poter spendere in consumi l’intero reddito. Quindi, anche se il calo dei tassi di interesse e i relativi effetti ricchezza possono aver stimolato per diversi anni dei consumi opulenti, può difficilmente stupire che l’idea che la concentrazione della ricchezza possa trasformarsi da “da vizio privato a pubblica virtù” abbia recentemente perso terreno. Da un lato, gli studi quantitativi dell’effetto ricchezza sui consumi personali stanno sempre di più evidenziando un ruolo molto limitato per il mercato azionario, mentre un’influenza molto più forte risulta essere esercitata dalla ricchezza non finanziaria. Questo esito dipende proprio dall’elevata concentrazione della ricchezza azionaria, rispetto a quella immobiliare, che è invece molto più equamente distribuita, e che, come sottolineato in precedenza, ha sostenuto i consumi fungendo da garanzia per il debito delle famiglie, funzione che soprattutto negli anni precedenti la crisi finanziaria ha interessato i livelli più bassi della distribuzione del reddito, composti in gran parte da famiglie con basso merito creditizio. Del resto, il riconoscimento che i ricchi risparmino di più e che il maggiore risparmio del 10%-20% più ricco della popolazione sia da mettere in relazione al minor risparmio del restante 90%-80% sta guadagnando terreno anche nella letteratura ortodossa, anche se con un ritardo significativo e in connessione con la tesi tradizionale secondo cui sarebbe stato proprio l’eccesso di risparmio dei ricchi ad aver spinto i tassi di interesse verso il basso (cfr. Mian et al., 2021).
V. Bassi tassi di interesse ed eutanasia del rentier
Nel 2021, la politica statunitense di lungo periodo di tassi di interesse bassi e calanti è giunta al termine, un cambiamento di indirizzo ufficialmente giustificato dalla necessità di combattere l’inflazione. Ma come strumento antinflazionistico, una politica monetaria più restrittiva è a dir poco problematica. Questo perché i tassi di interesse sono considerati dalle imprese come un costo, con il corollario che una politica di denaro a caro prezzo è inflazionistica, come confermato da tempo dagli studi empirici sulle politiche di prezzo delle imprese. Si potrebbe dire, usando le parole di un vecchio presidente del Joint Economic Committee americano, che “alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione è come buttare benzina sul fuoco”. Dati i salari monetari e la produttività del lavoro, l’aumento dei prezzi causato da un aumento duraturo dei tassi di interesse riflette semplicemente l’adattamento dei prezzi ai costi normali produzione causato dalla concorrenza. Tassi di interesse più elevati potrebbero riuscire a ridurre l’inflazione solo se il rapporto più elevato tra prezzi e salari monetari che essi determinano fosse più che controbilanciato da una riduzione o da un aumento più lento dei salari monetari, causato dall’impatto negativo sull’occupazione della contrazione della spesa per consumi provocata da tassi di interesse più elevati. Rispetto all’abbandono della politica di bassi tassi di interesse, più importante dei suoi effetti sull’inflazione è il semplice fatto che il capitalismo non può funzionare indefinitamente con tassi di interesse nulli o negativi – uno stato di “eutanasia del rentier” non può essere raggiunto semplicemente attraverso la politica monetaria, senza alcuna rivoluzione sociale. Nel sistema capitalistico la proprietà privata della ricchezza, distinta dalla proprietà del capitale produttivo, non può cessare permanentemente di produrre reddito, indipendentemente dalle forme del suo impiego; né la maggior parte di quel reddito può essere garantita in modo permanente dalla speculazione e dalle plusvalenze. Nel contesto di una politica permanente di tassi di interesse nulli, la mera proprietà privata della ricchezza cesserebbe di essere una sinecura, il sistema creditizio collasserebbe e i redditi da capitale potrebbero continuare ad esistere solo come profitti d’impresa.
VI. Domanda effettiva e spesa militare
Negli ultimi tre anni la politica statunitense di rincaro della moneta e rafforzamento del dollaro si è accompagnata a politiche di bilancio espansive, integrate da politiche industriali volte a ridurre la propensione all’importazione del Paese, soprattutto in alcuni settori chiave: il “Buy American Rules”, l’“Inflation Reduction Act” (in realtà una misura protezionistica intesa a stimolare la produzione manifatturiera nazionale) e il “CHIPS & Science Act” sono le più importanti tra esse. La fine nel 2021 di un lungo periodo durante il quale negli USA la crescita era stata sostenuta principalmente dalla spesa per consumi delle famiglie sembra aver trovato sbocco nel ritorno ad una politica di “grande governo”, non solo con l’obiettivo di sostenere la crescita nel nuovo contesto, ma anche di riconquistare egemonia internazionale. Su entrambi i fronti – crescita economica e ripristino dell’egemonia – un nuovo rafforzamento militare americano sembra essere l’esito più probabile.
Nella tradizione keynesiana, con il termine “grande governo” si è sempre fatto riferimento a tassi elevati e crescenti di spesa statale, locale e federale – in particolare di quest’ultima, poiché è principalmente il governo federale che può influenzare la domanda aggregata attraverso la politica fiscale per garantire il buon andamento dell’economia. Ma dall’inizio della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica nel 1947, fatta eccezione per la breve esperienza del presidente Johnson con i suoi programmi sociali della Great Society, un’ingente spesa federale non ha mai significato negli Stati Uniti creazione e sviluppo di un generoso sistema di Welfare State di tipo socialdemocratico europeo. Dall’enunciazione della Dottrina Truman nel marzo 1947 fino alla fine degli anni ’60 gli acquisti federali legati ai programmi militari e spaziali (DoD più NASA) furono la componente più dinamica della domanda effettiva, mentre la disoccupazione statunitense rimase su livelli ben al di sotto della media dell’intero dopoguerra. Dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 il tasso di disoccupazione mostrò un trend crescente, in coincidenza con la stagnazione della spesa militare e la sua tendenza al ribasso in percentuale del PIL; infine, dal suo picco assoluto nel 1982 (quasi l’11% alla fine di quell’anno), il tasso di disoccupazione statunitense continuò a scendere per il resto degli anni ’80, con il potenziamento militare di Reagan cui corrispose il più intenso processo di riarmo in tempo di pace della storia degli Stati Uniti (vedi Pivetti, 1992 e 1994). L’implosione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda diedero inizio all’“era del dividendo della pace”. Un buon andamento a lungo termine del capitalismo americano difficilmente poteva continuare a essere ottenuto attraverso l’espansione della spesa militare e al suo posto, come abbiamo rilevato, subentrò un’espansione di lungo periodo dei consumi privati attraverso una politica di tassi di interesse bassi e decrescenti, che non poteva però durare indefinitamente senza causare il collasso del sistema creditizio.
VII. Trasferimenti pubblici e Keynesismo anticongiunturale
Con la Grande Recessione del 2008 e la recessione da Covid-19 si è verificato un massiccio ricorso ad un’ampia gamma di trasferimenti alle famiglie (indennità di disoccupazione, assistenza abitativa, assistenza alimentare, ecc.), principalmente in funzione anticiclica, che ha portato il disavanzo pubblico totale a livelli senza precedenti: -13,1% nel 2009, -11,8% nel 2010 e -11% nel 2011, poi -15,7% nel 2020 e -12% nel 2021. Le ragioni di questo uso diffuso dei trasferimenti pubblici derivavano non solo dal loro loro essere un potente veicolo di stabilità sociale – sia direttamente che indirettamente attraverso il moltiplicatore dell’occupazione – ma anche dalla loro facile reversibilità, cioè dal non implicare investimenti pubblici e un’espansione del ruolo dello Stato nell’economia (così già nel 2014 il deficit venne ridotto al 4,8% e nel 2022 al 6%). La sostituzione dei salari con prestiti, quindi, è stata in parte rimpiazzata dalla sostituzione di prestiti inesigibili con aumenti transitori dei trasferimenti pubblici – a buona conferma dell’idea secondo cui “ci si può aspettare che i leader aziendali e i loro esperti siano più favorevoli al sussidio del consumo di massa che agli investimenti pubblici, poiché sovvenzionando il consumo il governo non si imbarca in alcun tipo di impresa” (Kalecki, 1943, pp. 325-6). Si tratta tuttavia di un favore che non può che essere limitato poiché “i fondamenti dell’etica capitalista richiedono che ‘ci si guadagni il pane con il sudore’ – a meno che non si disponga di mezzi privati” (ibid.). Qui ovviamente la questione non è di carattere etico ma riguarda piuttosto la sottomissione del lavoro al capitale, che nel caso di un crescente debito privato è assicurata da una forza lavoro sempre più sottomessa, mentre nel caso di crescenti trasferimenti pubblici tende ad evolvere nella direzione opposta, con ovvie conseguenze sul potere contrattuale dei lavoratori dipendenti.
VIII. Cause interne ed esterne del militarismo USA
Queste considerazioni portano alla conclusione che nell’attuale confronto geopolitico ed economico tra gli USA e i loro satelliti europei, da un lato, la Russia e la Cina dall’altro, appare molto probabile che le spese militari e il riarmo riprenderanno il loro vecchio ruolo. Come abbiamo argomentato, importanti esigenze economiche interne si affiancano alla prospettiva di una vera e propria guerra fredda tra l’Occidente e la Cina, attualmente la nazione più insidiosa per l’egemonia internazionale americana. C’è poi l’obiettivo, difficilmente perseguibile senza un complesso militare-industriale sempre più potente e una forza militare travolgente, di frantumare la Federazione Russa allo scopo di saccheggiare le sue ingenti risorse naturali ed impedire una sempre più stretta integrazione tra la sua economia e quella europea, frustrando l’aspirazione di quest’ultima al ruolo di forza ‘neutrale’ nello scontro in atto.
L’intreccio tra circostanze interne ed esterne che alimentano la pulsione bellica del paese egemone non va sottovalutato. La necessità di garantire il sostegno alla domanda effettiva con spese militari è determinato dalle inevitabili conseguenze distributive che avrebbe un rilancio della domanda interna basato su programmi di spesa del tipo Great Society. Allo stesso modo, un serio piano di reindustrializzazione, non motivato soltanto dalla necessità di impedire lo sviluppo dei concorrenti internazionali in campi suscettibili di compromettere il primato tecnologico e militare degli USA, implicherebbe una svolta protezionistica di natura non meramente ‘strategica’, con ancor più marcate conseguenze sul piano distributivo. L’opzione bellica soddisfa dunque esigenze tanto interne che esterne, entrambe funzionali a preservare l’assetto distributivo che il capitalismo avanzato si è dato nell’ultimo quarantennio. La crisi a cui la globalizzazione è andata incontro negli ultimi anni non è motivata da una presa di consapevolezza dell’insostenibilità sociale degli effetti occupazionali e distributivi che essa ha generato nel capitalismo avanzato. Se la Cina non costituisse una minaccia reale, gli USA non avrebbero nessun problema a continuare ad approvvigionarsi dei beni prodotti dalla “grande fabbrica del mondo”. Di fatto è ciò che essi stanno ancora facendo, ostacolando determinate produzioni e non altre, determinati paesi e non altri, tutto in funzione di non compromettere ulteriormente la propria egemonia.
Per quanto riguarda l’Europa, il sabotaggio del Nord Stream 2 ha chiarito quanto velleitaria fosse l’idea di poter conquistare spazi di maggior autonomia in nome dei principi della concorrenza e del libero commercio internazionale. D’altro canto, vi è ancor meno consapevolezza che negli USA degli effetti socialmente deleteri della globalizzazione. L’Europa non riesce ad esprimere null’altro che grossolana subalternità delle sue élite politiche agli Stati Uniti. Settant’anni di intrighi internazionali, interventi militari e cambi di regime hanno portato la maggior parte della popolazione mondiale, compresa una parte sostanziale di quella europea, a diffidare profondamente dell’America e dei suoi valletti sparsi per il mondo. L’egemonia culturale degli Stati Uniti si è notevolmente attenuata dalla “fine della storia” nel dicembre 1991 e un numero crescente di cittadini europei percepisce oggi l’America come un faro di inciviltà. Ma per quanto forte sia il loro sentimento di ripulsa, resta vero che, come il rigetto nei confronti di un assetto di politica economica sempre più incapace di garantire ai lavoratori condizioni di esistenza dignitose, esso resta del tutto privo di un qualsivoglia sbocco politico socialmente progressivo.
Bibliografia
Barba, A. and Pivetti, M. (2009), “Rising household debt: its causes and macroeconomic implications – a long period analysis”. Cambridge Journal of Economics, 33, 113-37.
Kalecki, M. 1943. “Political Aspects of Full Employment”. Political Quarterly, 14 (4), 322–331.
Maki, D.M. and Palumbo, M.G. (2001), “Disentangling the wealth effect: a cohort analysis of household saving in the 1990s”. Board of Governors of the Federal Reserve System, Finance and Economics Discussion Series n. 2001-21.
Mian, A., Straub, L. and Sufi, A. (2021), “The Saving Glut of the Rich”. NBER Working Paper N.26942.
Piketty, T. and Saez, E. (2003), “Income inequality in the United States, 1913-1998”. Quarterly Journal of Economics, CVIII (1), 1-39.
Pivetti, M. (1992), “Military spending as a burden on growth: an ‘underconsumptionist critique’”. Cambridge Journal of Economics, 16 (4), 373-84. Pivetti, M. (1994), “Effective demand, ‘Marxo-marginalism’ and the economics of military spending: a rejoinder”. Cambridge Journal of Economics, 18 (5), 523-27.
Fonte
Iscriviti a:
Post (Atom)