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16/04/2025

Sudan - L’Arabia Saudita si schiera tra le fazioni in guerra

Negli ultimi giorni del Ramadan, davanti alla Grande Moschea della Mecca, il presidente de facto e capo dell’esercito del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, si è inginocchiato in preghiera accanto al principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Al-Burhan era arrivato nel regno appena due giorni dopo che le sue truppe avevano inferto un colpo significativo alle forze Paramilitari di Supporto Rapido (Rapid Support Forces, RSF), riconquistando la capitale Khartoum dopo due anni di guerra civile. Nell’inquadratura mancavano gli Emirati Arabi Uniti (EAU), la potenza del Golfo che ha sostenuto i rivali di al-Burhan nella guerra civile sudanese con armi, mercenari e copertura politica.

La scena ha catturato l’essenza di una spaccatura sempre più profonda tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – un tempo alleati nel rimodellare il mondo arabo, ora artefici di visioni concorrenti per il Sudan e la regione.

Da due anni il Sudan è avvolto nel caos. Il conflitto scoppiato nell’aprile 2023 tra le Forze Armate Sudanesi (Sudanese Armed Forces, SAF) e le RSF, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, ha inflitto immense sofferenze: si stima che ci siano stati 150.000 morti, accuse di atrocità di massa che hanno macchiato entrambe le parti, ma in particolare le RSF nel Darfur, 12 milioni di sfollati e più della metà della popolazione che si trova ad affrontare una grave insicurezza alimentare.

Khartoum, un tempo simbolo di confluenza, porta profonde cicatrici: distruzione diffusa, case saccheggiate e strade infestate da morti non sepolti. È in questo contesto di devastazione e di conquiste militari che al-Burhan ha compiuto il suo viaggio attraverso il Mar Rosso.

All’inizio del conflitto, l’Arabia Saudita ha svolto un ruolo di primo piano facilitando l’evacuazione di migliaia di stranieri attraverso Port Sudan, uno sforzo che ha raccolto una notevole benevolenza. Su questa base, e insieme agli Stati Uniti, il Regno ha assunto il ruolo di mediatore ospitando i colloqui per il cessate il fuoco di Gedda nel maggio 2023.

Questa mediazione si è allineata con il più ampio orientamento strategico di Riyadh verso la de-escalation, evidente nel suo riavvicinamento all’Iran e nella sua trasformazione da aggressore a pacificatore nello Yemen. L’instabilità sul Mar Rosso rappresenta una minaccia diretta per l’ambiziosa revisione economica del Regno – Vision 2030 – in particolare per i progetti di punta come NEOM e i megaprogetti turistici sul Mar Rosso lungo la costa occidentale, nonché per l’espansione del terminale di Yanbu, che mira a diversificare le rotte di esportazione del petrolio dallo Stretto di Hormuz. Queste turbolenze rischiano anche di compromettere i fondamentali investimenti dell’Arabia Saudita per la sicurezza alimentare in Sudan, dove vaste imprese agricole sono diventate un pilastro dei legami bilaterali.

Tuttavia, il processo di Gedda si è affievolito e gli impegni firmati sulla carta si sono dissolti davanti alla realtà caratterizzata dai continui combattimenti. Un successivo sforzo guidato dagli Stati Uniti a Ginevra, incentrato sull’accesso umanitario dopo il fallimento dei colloqui di Gedda, ha vacillato quando il SAF ha boicottato completamente i colloqui. Nel 2025, il ritorno della dottrina “America First” del Presidente Donald Trump ha smantellato ciò che restava del capitale diplomatico americano. I tagli ai finanziamenti di USAID – che hanno fatto chiudere il 77% delle cucine alimentari d’emergenza del Sudan – non solo hanno aggravato la carestia, ma hanno privato Washington di una leva fondamentale da utilizzare per ottenere concessioni. Con gli Stati Uniti in ritirata, il vuoto si è rivelato irresistibile per l’Arabia Saudita. 

Il punto di svolta è arrivato nel febbraio 2025. Mentre le RSF e i suoi alleati formalizzavano la loro carta per un’amministrazione parallela a Nairobi, l’Arabia Saudita, insieme a Qatar e Kuwait, ha espresso un fermo rifiuto pubblico. Il Ministero degli Esteri saudita ha dichiarato inequivocabilmente la sua opposizione a “qualsiasi passo illegittimo compiuto al di fuori delle istituzioni ufficiali del Sudan che ne minacci l’unità”.

La recente visita di al-Burhan in Arabia Saudita e la sua tempistica hanno consolidato questo allineamento. L’accordo annunciato da entrambe le nazioni durante la visita di istituire un “Consiglio di Coordinamento per rafforzare le relazioni” indica un impegno a lungo termine, che va oltre il ruolo di arbitro neutrale. È significativo che questo incontro abbia seguito di poco la visita di una delegazione saudita di alto livello a Port Sudan, avvenuta qualche giorno prima e incentrata sulla ricostruzione.

Mentre Riyadh coltiva attivamente il ruolo di stabilizzatore regionale, Abu Dhabi si trova ad affrontare un crescente scrutinio riguardo al suo presunto ruolo nell’alimentare lo sforzo bellico delle RSF.

Nel marzo 2025, il Sudan ha presentato una causa alla Corte Internazionale di Giustizia, accusando gli Emirati Arabi Uniti di aver violato la Convenzione sul Genocidio attraverso il loro presunto sostegno militare, finanziario e politico alle RSF, facilitando così le atrocità, in particolare la pulizia etnica dei Masalit nel Darfur occidentale. Mentre il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha respinto il caso come “debole manovra mediatica, le accuse fanno eco ai risultati di un rapporto del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, che ha ritenuto “credibili” le prove di forniture di armi degli Emirati Arabi Uniti (compresi droni e difese aeree) alle RSF.

Questo presunto sostegno ha scatenato notevoli ripercussioni politiche a Washington. Il senatore Chris Van Hollen e la deputata Sara Jacobs hanno confermato pubblicamente a gennaio, citando i briefing dell’amministrazione, che gli Emirati Arabi Uniti stavano effettivamente armando le RSF, contraddicendo direttamente le precedenti assicurazioni fornite all’amministrazione Biden. Anche il deputato Gregory Meeks, membro della commissione Affari Rsteri della Camera, ha bloccato la vendita di armi agli EAU per il loro ruolo in Sudan.

Le azioni degli Emirati Arabi Uniti in Sudan sembrano coerenti con un modus operandi regionale più ampio. Il copione di Abu Dhabi prevede il potenziamento di attori non statali, spesso con tendenze secessioniste, per assicurarsi l’accesso alle risorse e a posizioni geografiche strategiche. Abbiamo visto questo schema in Libia, con l’appoggio a Khalifa Haftar, e in Yemen, con il suo sostegno duraturo al Southern Transitional Council (STC), la cui spinta all’indipendenza contrasta direttamente con gli sforzi sauditi per mantenere l’unità yemenita sotto il Presidential Leadership Council (PLC).

La Somalia offre un altro esempio lampante, dove gli Emirati Arabi Uniti hanno aggirato Mogadiscio per armare e finanziare direttamente entità regionali come il Puntland (che avrebbe usato la sua base di Bosaso per i rifornimenti delle RSF), il Somaliland e il Jubaland, frammentando così il Paese e assicurandosi al contempo punti di appoggio costieri. L’annuncio del governo parallelo delle RSF a Nairobi, il mese scorso, è sembrato un’applicazione diretta di queste tattiche. Gli Emirati Arabi Uniti hanno concluso un prestito di 1,5 miliardi di dollari al Kenya la stessa settimana, facendo ipotizzare che la loro influenza abbia giocato un ruolo nell’ospitare l’evento a Nairobi.

Il crescente divario sul Sudan, quindi, non è un disaccordo isolato, ma è sintomatico di una più profonda divergenza strategica tra Riyadh e Abu Dhabi. Se un tempo si coordinavano strettamente, in particolare per contrastare la minaccia percepita dei Fratelli Musulmani e per cercare di rimodellare il Consiglio di Cooperazione del Golfo durante il blocco del Qatar, ora le loro strade divergono nettamente.

Dal punto di vista economico, sono in forte competizione: l’Arabia Saudita ha sfidato lo status di hub commerciale di Dubai attraverso politiche che richiedono sedi regionali a Riyadh e il lancio di megaprogetti rivali. All’interno dell’OPEC+, le tensioni tra i due paesi si sono acuite sulle quote di produzione, riflettendo priorità diverse e proiezioni non allineate sulla prossimità del futuro decarbonizzato. Anche i confini marittimi vicino alle isole Yasat sono diventati un punto di contesa, con Riyadh che ha presentato denunce all’ONU contro la demarcazione unilaterale di Abu Dhabi dell’area potenzialmente ricca di petrolio.

Questa rivalità si riversa ora nel dominio pubblico attraverso i social media. Recenti scontri online hanno visto commentatori sauditi noti e molto seguiti bollare le controparti emiratine come “reietti”, descrivendole come “odiate dagli arabi e dai musulmani”. In ambienti mediatici strettamente controllati, questi scambi taglienti spesso riflettono il disappunto delle autorità.

In definitiva, il Sudan sta pagando il prezzo di questa relazione fratturata nel Golfo. L’Arabia Saudita, spinta dagli imperativi della Vision 2030 e dal desiderio di riaffermare la leadership regionale attraverso la stabilità e le istituzioni statali, ha puntato sul SAF. Gli Emirati Arabi Uniti, concentrati sull’accesso alle risorse e sul contrasto alle minacce ideologiche percepite, continuano a sostenere le RSF nonostante la crescente condanna.

Finché la rivalità persisterà, il Sudan rimarrà tragicamente sotto il fuoco incrociato, il suo futuro tenuto in ostaggio da una lotta geopolitica che sta ridisegnando i contorni del potere nella regione.

di Elfadil Ibrahim, scrittore e analista di politica sudanese. Il suo lavoro è stato pubblicato su The Guardian, Al Jazeera, The New Arab, Open Democracy e altre testate.

Fonte

01/03/2025

Sudan - La guerra civile è ad una svolta?

Lo schianto di un aereo da trasporto militare su alcune abitazioni a Omdurman, la “città gemella” della capitale Khartoum, ha causato la morte di una cinquantina di persone tra civili e militari, tra cui un generale. Non è chiaro cosa abbia fatto precipitare il velivolo, anche se nella zona infuriano da tempo i combattimenti tra le forze regolari fedeli al regime (SAF) e i ribelli (ex alleati del governo) delle Forze di Supporto Rapido, guidate dal generale Mohamed Hamdam Dagalo detto Hemeti

L’offensiva governativa funziona 

Nonostante le perdite, l’esercito e le milizie alleate riunite nelle Sudan Shield Forces hanno conquistato recentemente molto terreno, riprendendo il controllo di varie località a ridosso della capitale e di Omdurman oltre che zone consistenti della regione del Nilo Orientale, a lungo controllate dalle Forze di Supporto Rapido (RSF).

Secondo testimoni ed osservatori, dopo aver conquistato lo stato di Gezira, le avanguardie delle Forze Armate Sudanesi sarebbero già riuscite a penetrare nel centro della città.

Anche nel Kordofan del nord, grazie al supporto dei droni turchi, l’esercito avrebbe conquistato terreno anche se le milizie hanno risposto bombardando ripetutamente le centrali elettriche con i droni forniti da Abu Dhabi.

Le mosse di al-Burhan

Sembra quindi che “l’offensiva generale” lanciata lo scorso anno dal capo del regime sudanese ora insediato a Port Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, stia funzionando, anche grazie ad alcuni mosse azzeccate dal punto di vista politico e tattico.

Tra queste, l’alleanza tra le forze armate fedeli ad al-Burhan e alcuni movimenti armati presenti nel paese, in particolare una delle fazioni in cui è diviso il Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan – Nord (SPLM-N), guidata da Malik Agar, promosso alla vicepresidenza del governo lealista denominato “Consiglio Sovrano”.

Inoltre al-Burhan è riuscito a convincere alcuni comandanti delle Forze di Supporto Rapido a passare dalla sua parte; un importante ruolo, nella conquista di Gezira, è stato giocato dalla scelta di Abuagla Keikel di mollare le RSF e passare dalla parte delle SAF.

Il sostegno di Russia e Iran 

Sul fronte internazionale, al-Burhan ha deciso di affidarsi alla Russia e all’Iran ottenendo sostegno politico ed economico ma soprattutto militare, fondamentale per la riuscita dell’offensiva contro le milizie ribelli. Da Mosca sono infatti arrivati tank, caccia e tecnologie d’avanguardia mentre Teheran ha fornito i droni Mohajer-6, aiutando al contempo le SAF ad avviare la produzione di una versione locale dei velivoli senza pilota iraniani. Anche l’Eritrea si è schierata con al-Burhan, impegnandosi ad addestrare un certo numero di militari sudanesi.

In cambio del supporto iraniano, al-Burhan sembra aver rinunciato alla normalizzazione delle relazioni con Israele e alla paventata adesione agli Accordi di Abramo. Inoltre Port Sudan ha chiesto a Teheran di assumere un ruolo chiave nella futura ricostruzione del paese.

Da parte sua la Russia sembra aver ottenuto l’assenso definitivo del regime sudanese alla realizzazione di una propria base navale sul Mar Rosso. Il 13 febbraio, infatti, il ministro degli Esteri di al-Burhan, Ali Youssef, ha incontrato a Mosca l’omologo Sergei Lavrov per discutere della richiesta russa. Dopo sei anni di difficili e altalenanti trattative (all’inizio della guerra civile Mosca ha appoggiato le Forze di Supporto Rapido in cambio dello sfruttamento delle miniere d’oro del Darfur) la Russia ha finalmente ottenuto l’assenso, spera definitivo, a stabilire una base militare nell’area di Port Sudan.

Le due parti hanno concordato il riavvio dell’accordo preliminare firmato nel novembre 2020 che prevedeva una concessione di 25 anni per la realizzazione di un polo navale russo sulle coste del Mar Rosso in grado di ospitare alcune centinaia di militari e quattro navi da guerra.

Dagalo divide le opposizioni e forma un “governo parallelo” 

Tentando di bilanciare i rovesci militari, il generale Dagalo ha realizzato una serie di incontri con alcuni dei leader dei partiti della coalizione “Taqaddum” prefigurando, in caso di vittoria, un processo di transizione che allo stato sembra assai improbabile.

Il leader delle Forze di Supporto Rapido ha potuto contare sul processo di frammentazione che ha investito la coalizione di movimenti civili finora guidati da Abdullah Hamdok, primo ministro del governo di transizione destituito nell’ottobre del 2021 da un colpo di stato realizzato congiuntamente dalle forze di al-Burhan e di Dagalo (che poi però nel 2023 hanno iniziato la sanguinosa guerra civile tuttora in corso).

La divisione di Taqaddum ha portato alla creazione di due coalizioni politiche. La prima, denominata “Sumoud” (Alleanza civile democratica delle forze della rivoluzione) e guidata da Hamdok, si dichiara contraria ad ogni tipo di collaborazione con i due schieramenti protagonisti del conflitto civile; la seconda, invece, guidata dall’ex portavoce di Taqaddum Idris al-Hadi, si è prestata a firmare una dichiarazione di intenti propedeutica alla formazione di un governo parallelo in esilio guidato dalle Forze di Supporto Rapido.

La firma, dopo vari rinvii, è avvenuta a Nairobi lo scorso 22 febbraio ed ha provocato una forte crisi diplomatica tra il paese ospitante, il Kenya, e il governo di al-Burhan. Port Sudan ha ritirato il proprio ambasciatore ed ha accusato il presidente keniota William Ruto di sostenere quella che ha definito “una milizia genocida (…) vendendosi ai finanziatori delle RSF”, in riferimento all’Etiopia ma soprattutto agli Emirati Arabi Uniti.

Le Forze di Supporto Rapido si asserragliano nel Darfur 

Da parte loro, pressati da più direzioni dall’offensiva delle forze regolari, i miliziani di Dagalo hanno ripiegato nel Darfur, regione dove le Forze di Supporto Rapido si sono formate a partire dalle milizie Janjawid, costituite per volontà del dittatore Omar al Bashir. In Darfur i paramilitari di Hemeti sono tornati a praticare la pulizia etnica a danno delle popolazioni africane non islamiche.

Il leader dei ribelli sembrerebbe intenzionato almeno a consolidare il suo potere e il suo controllo della regione dove le sue milizie sono più numerose e radicate, e allo scopo si è dedicato alla formazione del “governo parallelo” alternativo al Consiglio Sovrano e che aspira ad ottenere un certo riconoscimento internazionale in virtù dell’inclusione di una parte dei partiti che avevano dato vita al processo di transizione interrotto violentemente.

L’emergenza umanitaria si aggrava 

Nel frattempo il blocco dei finanziamenti statunitensi ha paralizzato ciò che rimane del sistema sanitario sudanese, causando un impatto gravissimo sulla popolazione stremata dalla lunga crisi e poi dalla guerra civile che ha causato molte decine di migliaia di vittime.

La situazione è stata denunciata da un rapporto stilato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dall’Health Cluster, che racchiude 66 partner tra cui organizzazioni internazionali, agenzie Onu, Ong e istituti accademici. Secondo il documento il taglio dei finanziamenti deciso da Trump ha colpito le principali agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni, ostacolando gravemente la loro capacità di far fronte ad una crescente crisi umanitaria. Oltre alla malnutrizione e alle conseguenti patologie, nel paese stanno dilagando anche epidemie di colera e malaria, con una situazione particolarmente grave in Darfur.

Dall’inizio del conflitto si stima che almeno 12 milioni di persone siano state costrette ad abbandonare le proprie case e a cercare rifugio in altre aree del paese se non addirittura nei paesi confinanti.

Fonte

29/01/2024

La strage dimenticata nel Sudan devastato dai signori della guerra

La rivolta popolare che nel 2019 ha rovesciato la dittatura reazionaria e islamista di Omar al-Bashir, al potere da ormai tre decenni, sembrava potesse portare il Sudan sulla strada della transizione verso la democrazia e lo sviluppo.

Dal golpe alla guerra civile 

Ma il 25 ottobre 2021 il colpo di stato militare, diretto dal generale Abdel Fattah al-Burhan, ha posto fine ad ogni speranza di liberazione, nonostante il tentativo di resistenza di un vasto fronte di forze politiche, sociali e sindacali che hanno pagato con centinaia di morti le continue mobilitazioni contro il nuovo regime.

Il 15 aprile del 2022, poi, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti, ha lanciato le sue Forze di Supporto Rapido (la milizia nata dal movimento dei famigerati janjaweed) contro l’ex alleato al-Burhan, capo delle Forze Armate Sudanesi sostenuto dagli ambienti ancora fedeli al vecchio dittatore al-Bashir.

La vasta ribellione delle FSR ha scatenato una guerra civile che in nove mesi ha causato decine di migliaia di vittime, ridotto in macerie numerose città e portato il Sudan sull’orlo dell’implosione.

Una mediazione impossibile 

Alcune settimane fa un accordo raggiunto grazie alla mediazione dell’Etiopia sembrava aprire uno spiraglio. Il 2 gennaio le Forze di Supporto Rapido hanno infatti firmato ad Addis Abeba, con il “Coordinamento delle forze civili democratiche” (Taqaddum, una piattaforma formata da decine di partiti politici, comitati popolari, sindacati, organizzazioni della società civile), una dichiarazione diretta a stabilire una tabella di marcia per porre fine ai combattimenti e aprire le trattative con al-Burhan. Subito dopo, però, molte realtà politiche interne ed esterne a Taqaddum hanno disconosciuto l’accordo firmato da Dagalo e dall’ex premier Abdallah Hamdok, denunciando quello che hanno definito un “tradimento”. D’altronde il rifiuto del presidente de facto di partecipare all’incontro organizzato da Hamdok in Etiopia aveva già reso inefficace il documento siglato.

Nei giorni scorsi poi, la scena si è ripetuta all’incontro organizzato dall’IGAD – Inter Governamental Agency for Development, l’organizzazione regionale del Corno d’Africa e dell’Africa Orientale alla quale l’Unione Africana ha delegato la ricerca di una soluzione delle diverse crisi in atto nel quadrante – il 18 gennaio a Entebbe, in Uganda. Alla riunione, alla quale erano presenti i rappresentanti dell’Onu, dell’Unione Europea, di vari paesi arabi e degli Stati Uniti, si sono infatti presentati sia l’ex primo ministro e coordinatore di Taqaddum Abdallah Hamdok, sia il capo delle Forze di Supporto Rapido, Dagalo. Il capo della giunta militare, al-Burhan, ha dato invece forfait accusando l’iniziativa di rappresentare una violazione della sovranità del Sudan. Non contento, al-Burhan ha sospeso l’adesione del Sudan all’IGAD e ha richiamato l’ambasciatore di Khartum in Kenya, accusando Nairobi di «ospitare la ribellione e (…) cospirare contro il Sudan». La mossa è stata decisa dopo che il 3 gennaio il presidente keniota William Ruto ha ricevuto Dagalo, che nelle ultime settimane ha intrapreso un tour che ha fatto tappa anche in Ruanda, Uganda, Etiopia e Gibuti nel tentativo di accreditarsi come rappresentante legittimo del suo paese.

Etiopia contro tutti 

Ad aggravare il quadro, recentemente, la firma da parte dell’Etiopia di un accordo con la regione separatista somala del Somaliland per l’ottenimento di uno sbocco al mare, che ha causato la dura reazione di Mogadiscio ma anche dell’Eritrea, dell’Egitto e dello stesso governo golpista sudanese. L’esplosione di nuove tensioni regionali indebolisce ulteriormente i già infruttuosi tentativi dei paesi dell’area di costringere i contendenti sudanesi ad un accordo.

Le credibilità di molti degli attori regionali, del resto, è minata dal fatto che vari paesi sono direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra civile, interessati ai proventi della vendita di armi o a conquistare un ruolo egemone in un Sudan ridotto in pezzi.

Lo zampino degli Emirati Arabi Uniti 

La potenza regionale più attiva in Sudan sembra essere Abu Dhabi che, del resto, in passato ha già fornito varie flotte di droni da bombardamento all’esercito etiope, garantendogli una schiacciante superiorità aerea contro i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, e ingenti carichi di armi all’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, in guerra con il governo di Tripoli riconosciuto dalla cosiddetta comunità internazionale.

Ora da più parti si accusano gli Emirati Arabi Uniti di armare i miliziani delle Forze di Supporto Rapido che, durante la dittatura di Omar al-Bashir hanno combattuto per anni assieme alle forze di Abu Dhabi contro i ribelli houthi yemeniti.

Nonostante gli emiratini continuino a negare ogni coinvolgimento, numerosi media hanno documentato i carichi di armi inviati ai janjaweed da parte della piccola ma potente petromonarchia, a tal punto che a metà dicembre al-Burhan ha espulso 15 diplomatici di Abu Dhabi. In precedenza Yassir al-Atta, membro della giunta golpista, aveva esplicitamente accusato gli Emirati di rifornire i ribelli attraverso l’Uganda, la Repubblica Centrafricana e il Ciad. Recentemente, un documento diffuso dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, basato su fonti di intelligence e testimonianze di osservatori indipendenti, definisce “credibili” le ricostruzioni secondo cui gli Emirati hanno più volte fornito armi ai miliziani ribelli tramite la base aerea di Amdharass, nel nord del Ciad. I più di 100 voli registrati, secondo Adu Dhabi, trasportavano invece soltanto “aiuti umanitari” destinati ai profughi.

Ma i legami tra il leader delle RSF e la petromonarchia araba sono noti e consistenti. Il centro dell’impero economico di Dagalo – e del fratello – è a Dubai, mentre il generale è ritenuto molto vicino al vicepresidente degli Emirati Mansour bin Zayed ed ha fatto un lungo viaggio ad Abu Dhabi nella scorsa primavera, prima di ordinare la ribellione contro il suo ex alleato al-Burhan, che ora è sostenuto dall’Egitto di al Sisi e dall’Iran.

Il Sudan va in pezzi 

Mentre la guerra civile ha messo il paese in ginocchio, in varie regioni il vuoto di potere ha portato alla formazione di milizie regionali più o meno indipendenti dai due contendenti, che dettano legge a livello locale utilizzando la violenza e minacciano la stessa integrità dello stato sudanese.

Di fatto il paese è spaccato a metà. I paramilitari di Dagalo controllano gran parte della capitale, le regioni occidentali, il Darfur e una parte della provincia del Kordofan. L’esercito “regolare”, fedele al regime, invece, occupa alcuni quartieri di Omdurman, la città gemella di Khartum, il nord del paese, le regioni orientali e la valle del Nilo.

Crimini di guerra e pulizia etnica 

Recentemente i combattimenti tra le opposte fazioni si sono allargati a territori finora relativamente tranquille. Entrambe le fazioni si stanno rendendo responsabili di crimini di guerra e atrocità contro la popolazione, bombardando in maniera indiscriminata i centri abitati e sottoponendo gli oppositori a torture e detenzioni arbitrarie.

In particolare, l’avanzata delle Forze di Supporto Rapido di Dagalo nel Darfur Occidentale ha provocato nella sola capitale regionale Geneina tra i 10 e i 15 mila morti. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite i janjaweed hanno preso deliberatamente di mira i civili nelle strade, nelle case e nei campi profughi, colpendo anche le colonne di profughi in fuga verso il Ciad, con esecuzioni sommarie e stupri. Le RSF, i cui membri sono reclutati per la maggior parte tra le tribù arabe delle regioni occidentali, sono accusate di uccisioni di massa a sfondo etnico contro la popolazione nera africana, in particolare quella Masalit, maggioritaria nel Darfur Occidentale, oltre che di saccheggi e distruzioni punitive.

Mentre la capitale Khartum è sempre più una città fantasma, con interi quartieri ridotti in macerie e abbandonati dai loro abitanti, da dicembre gli scontri si sono estesi alle regioni orientali e meridionali, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone. Particolarmente intensi sono stati gli scontri nello stato di Gezira, a sud di Khartum, una regione che viene abitualmente definita “il granaio del Sudan”.

Emergenza umanitaria e sanitaria 

I profughi sarebbero in totale già 7,5 milioni; di questi, circa 1 milione e mezzo si sarebbero rifugiati in Ciad, Sud Sudan ed Egitto. Gli altri hanno cercato riparo nei territori scampati agli scontri fino al momento del loro arrivo, dovendo però poi spesso fuggire di nuovo a causa dello scoppio di ulteriori combattimenti e dovendo comunque confrontarsi con una grave penuria di cibo, acqua potabile e assistenza sanitaria.

Il paese, nonostante il sostanziale disinteresse dei circuiti mediatici principali, è investito da una crisi gravissima. Secondo l’Ufficio dell’ONU per il coordinamento umanitario (OCHA), circa 25 milioni di sudanesi hanno o avranno bisogno nei prossimi mesi di assistenza. Nel solo stato di Khartum, denuncia un dossier diffuso da Medici Senza Frontiere, almeno 3 milioni di persone non hanno alcun accesso all’assistenza medica.

Nelle zone interessate dalla guerra civile, afferma l’associazione Care International, l’80% degli ospedali e dei presidi sanitari ha dovuto chiudere a causa dell’inagibilità delle strutture e della mancanza di elettricità. La situazione, in mancanza di una svolta allo stato improbabile, può solo peggiorare.

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24/05/2023

Sudan - Cominciato, tra lo scetticismo generale, il cessate il fuoco

È cominciato ieri sera in Sudan il cessate il fuoco di sette giorni mediato da Arabia Saudita e Usa che dovrebbe portare le parti in conflitto al negoziato. Tra i sudanesi regna lo scetticismo. Altre tregue sono state violate subito dopo essere state proclamate dallo scorso 15 aprile quando sono cominciati gli scontri tra l’Esercito sudanese agli ordini del generale Abdel Fattah el Burhan e le Forze di supporto rapido (Rsf) del capo miliziano Mohammad Hamdan Dagalo, detto Hemeti.

Combattimenti aspri erano in corso nella notte intorno all’ospedale militare di Omdurman e nella capitale Khartum, con le due parti in lotta che cercavano di guadagnare terreno prima dell’inizio del cessate il fuoco. Scontri sono stati segnalati anche nei pressi della base aerea di Wadi Saeedna, usata dalle forze armate regolari per attaccate le postazioni delle Rsf, e di un piccolo aeroporto nell’area del Nilo Bianco.

Milioni di sudanesi da settimane fanno i conti con privazioni, l’accesso limitato all’acqua potabile e la scarsità di generi di prima necessità. Centinaia di migliaia di civili hanno abbandonato il paese per rifugiarsi in prevalenza nel Ciad e nel Sud Sudan. Gran parte dei cittadini stranieri hanno lasciato il Sudan dopo i primi giorni di guerra.

I mediatori sostengono che a differenza dei precedenti accordi di cessate il fuoco, quest’ultimo raggiunto a Gedda è stato firmato dalle parti e sarà sostenuto da un non meglio precisato meccanismo di monitoraggio Usa, saudita e internazionale. El Burhan afferma di essersi impegnato ad attuare l’accordo, mentre le Rsf non hanno ancora chiarito in modo definitivo la loro posizione.

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03/05/2023

Sudan - Dopo anni di attacchi ai manifestanti, l’esercito e i paramilitari delle RSF l’uno contro l’altro

Più di 500 persone sono state uccise e 4.000 ferite da quando, il 15 aprile, sono scoppiati i combattimenti tra le Forze armate sudanesi (SAF) e le forze paramilitari di supporto rapido (RSF).

Gruppi come il Sindacato dei Medici del Sudan temono che i combattimenti possano intensificarsi dopo l’evacuazione dei cittadini stranieri. Migliaia di persone sono già fuggite dal Paese. Oltre il 69% degli ospedali nelle zone di conflitto e in quelle limitrofe sono inutilizzabili. C’è una grave carenza di medicine, cibo, acqua ed elettricità.

I combattimenti sono l’ultima di una serie di convulsioni politiche da quando le massicce proteste pro-democrazia hanno rovesciato il dittatore di lunga data Omar al-Bashir nell’aprile 2019. Il capo dell’esercito, generale Abdel-Fattah Burhan, che presiede la giunta militare al potere, e il suo vice e capo dell’RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, erano membri chiave del regime di Bashir. La RSF è stata costituita dalle milizie janjaweed, responsabili di uccisioni di massa in Darfur durante il regno di Bashir.

Burhan e Hemeti hanno assunto il controllo de facto dopo la caduta di Bashir e sono stati responsabili del massacro di oltre 100 manifestanti che chiedevano un governo civile in un sit-in a Khartoum nel giugno 2019. In seguito, hanno negoziato con i partiti di destra della coalizione Forze per la libertà e il cambiamento (FFC) e hanno inaugurato un governo di transizione civile-militare ad agosto.

Mentre questo governo aveva un primo ministro civile, Abdalla Hamdok, la difesa, la polizia e la politica estera erano sotto il controllo dell’esercito, con Burhan a capo di un “Consiglio di sovranità”. L’esercito controlla una fetta consistente dell’economia, mentre l’RSF si è ingozzato delle ricchezze minerarie del Darfur.

L’accordo di transizione avrebbe dovuto aprire la strada a un governo civile. Invece, nell’ottobre 2021, Burhan e Hemeti hanno preso il controllo completo con un colpo di Stato.

Negli anni successivi al colpo di Stato, i manifestanti sono scesi in piazza, spesso a centinaia di migliaia, rifiutando qualsiasi compromesso con la giunta e chiedendo una vera democrazia e il controllo civile delle forze armate.

Le proteste sono state guidate dai Comitati di Resistenza (RC), una rete di oltre 5.000 organizzazioni di quartiere. Anche le forze di sinistra, tra cui il Partito Comunista Sudanese, sono state una forza fondamentale. Oltre 120 persone sono state uccise negli attacchi alle manifestazioni nei mesi successivi al colpo di Stato dell’ottobre 2021.

Incurante del sentimento popolare contrario a qualsiasi negoziato con la giunta, la comunità internazionale – ONU, Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea, Unione Africana e l’Autorità intergovernativa regionale per lo sviluppo – ha sostenuto la ripresa dei colloqui tra la giunta e la FFC.

Questi negoziati hanno portato all’Accordo quadro nel dicembre 2022, che doveva concludersi con un accordo politico finale che avrebbe portato alla formazione di un altro governo congiunto con i civili l’11 aprile 2023.

Questo piano non si è concretizzato perché il SAF e l’RSF si sono rivoltati l’uno contro l’altro dopo essersi trovati in disaccordo sui tempi di integrazione del secondo nel primo.

Il Partito Comunista Sudanese ha ribadito il suo rifiuto di qualsiasi compromesso con la giunta. Afferma che il sostegno internazionale a un altro compromesso per la condivisione del potere dopo il colpo di Stato di ottobre è servito a legittimare la giunta, che alla fine ha portato a questa lotta intestina.

Fonte

25/04/2023

Sudan - La guerra e le responsabilità occidentali

I principali responsabili della situazione che si è venuta a creare dal 15 aprile in Sudan sono l’Occidente i suoi alleati nella penisola araba.

In sintesi, sono responsabili tutti i soggetti particolarmente interessati a “sabotare” il processo di ricomposizione dei conflitti nella regione, che sta avvenendo grazie all’opera diplomatica di Cina, Russia ed Algeria. Per interessi diversi, certo, non per “bontà”. Ma nella politica internazionale questo è il principio-base.

La lotta “senza quartiere” scatenatasi dal 15 aprile tra il generale Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan, alla testa dell’esercito del Paese (le Forze Armate Sudanesi), ed il suo “vice” – il generale Mohamed Hamdan Dagalo, “Hemeti”, capo delle RSF (note anche come janjāwīd) – è il prodotto sia del mancato processo di transizione (“congelato” dalla sete di potere dei due alti ufficiali e dei paesi con i quali hanno intrecciato i loro legami), sia delle necessità di realpolitik delle cancellerie occidentali per ipotecare il futuro del Sudan ai propri progetti neo-coloniali, o dei piani dei vari attori regionali.

Di fatto il regime di Al-Bashir si è perpetuato anche dopo la sua defenestrazione, nell’aprile del 2019, mantenendo come perni gli apparati di potere che ne erano stati – fino all’insurrezione popolare iniziata alla fine del 2018 – la maggiore assicurazione sulla vita.

Si è passati da un regime dittatoriale di matrice ‘fondamentalista islamica’ ad una dittatura militare travestita da incubatrice della ‘transizione democratica’, senza che alcun problema venisse realmente risolto.

Il casus belli – che non è la sola ragione del conflitto – è stato offerto dalla difficile integrazione delle RSF (tra gli 80 ed i 120 mila uomini) nelle FSA (l’esercito definito “regolare”, tra 140 e 250 mila effettivi), i cui quadri sono prosperati in tutti i sensi durante il regime precedente: “islamisti” convinti che sono sono stati addestrati all’Accademia Militare di Khartoum e provengono dalle regioni settentrionali del paese.

Al-Burhan aspira ad essere l’Al-Sisi del Sudan, ed ha un legame particolare con il regime egiziano (e non solo), che peraltro ritiene il Paese niente più più che una estensione del proprio territorio.

Burhan è stato l’artefice, nell’ottobre del 2020, della possibile “normalizzazione” dei rapporti diplomatici con Israele all’interno degli accordi di Abramo, patrocinati di Washington, che dovranno essere ratificati da un – per ora inesistente – parlamento sudanese.

Le RSF, invece, dopo la loro creazione nel 2013 dagli ex “janjaweed” (ovvero “demoni a cavallo”, provenienti da alcuni clan del Darfur), e il successivo consolidamento in funzione contro-insurrezionale – prima in Darfur e poi nel resto del Paese – sono divenute vere e proprie milizie mercenarie usate nel conflitto yemenita ed in quello libico.

Il Sudan aveva così giocato a tutto tondo un ruolo di primo piano nella coalizione a guida saudita che ha fatto la guerra ai ribelli “Houthi” in Yemen, una delle tante proxy war contro la mezza luna sciita a guida iraniana.

Dagalo “Hemmeti”, l’uomo più ricco del paese, è un abile predone che ha fatto dei rapporti clanici, delle ricchezze saccheggiate (l’oro sudanese) e del business della guerra la sua fonte di potere. Vicino ai sauditi e agli Emirati, cui ha fornito “la fanteria” per la guerra in Yemen, ma utilizzato anche dalla UE, che gli ha conferito sin dai tempi del regime di Al Bashir il ruolo gendarme dei flussi di immigrati dagli altri paesi più a sud.

Ora il conflitto armato potrebbe estendersi anche in Darfur e nel Kordofan, come nel Nilo Blu, visto che di fatto non era stato avviato nessun reale processo di pace con le formazioni che avevano guidato la lotta armata contro il precedente regime.

Un particolare di non poco conto, per il terzo paese africano per estensione, con una popolazione di 45 milioni di abitanti, è l’essere collocato in in una zona geostrategica di “cerniera” tra Sahel, Mar Rosso e Corno d’Africa, confinando con sette paesi di cui almeno tre soffrono di una grande instabilità: Libia, Sud Sudan, Repubblica Centro-africana.

Inoltre, il Sudan confina con il Ciad, il pivot dell’influenza francese nella regione – più volte attraversato dall’emergere di ribellioni di provenienza sudanese – che ha dispute territoriali con l’Etiopia nel triangolo di Al-Fashaga, di cui il Sudan (approfittando della guerra civile con il Tigray) ha occupato il 95% dei 250 km quadrati delle terre fertili comprese tra il fiume Setti e Atbara.

Non ultimo, il Sudan ha un contenzioso per le risorse idriche del Nilo, sia con l’Etiopia che con l’Egitto.

In sintesi, vi sono tutti gli elementi affinché la guerra in corso in Sudan si trasformi in un conflitto regionale.

Le forze vive della rivoluzione sudanese che avevano contribuito all’abbattimento dell’anziano dittatore hanno sempre denunciato, e si sono sempre mobilitate, contro lo status quo.

Tale situazione di stallo, in una fase di rottura degli equilibri geopolitici per l’escalation bellica in Ucraina dello scorso anno, per il consolidamento della divisione per sfere d’influenza in Libia e la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran, non poteva che generare l’attuale scontro tra due contendenti che aspirano al controllo del paese – molto probabilmente anche “per conto terzi” – qualunque sia il prezzo che le popolazioni dovranno pagare.

Ma non è detto che questa guerra tra antagonisti speculari, protagonisti del golpe congiunto del 2021, non si risolva con la rovina di entrambi.

Gli occidentali – anche coloro che hanno cercato di alleviare le condizioni di esistenza della popolazione – e non solo, sono intanto costretti a fuggire dal Sudan.

Così come è successo in Afghanistan, l’imperialismo dell’Occidente appare incapace di avere un minimo di presa sugli avvenimenti di un Paese al collasso, dopo essere stato il tutor di un finto e fragile processo di transizione.

Gli altri attori sovranazionali regionali, e la stessa ONU, sembrano per ora relativamente impotenti.

Questa vistosa incapacità occidentale di esercitare una egemonia in questo caso si risolve per ora in una tragedia di cui la diplomazia euro-atlantica è la maggior responsabile, considerato che aveva preferito appoggiarsi ai due militari fortemente collusi con il passato regime genocida, piuttosto che alla volontà di riscatto delle popolazioni.

Era preferibile per l’Occidente fare questo, per non vedere diminuito il proprio peso diplomatico. I risultati di queste scelte sono ora sotto gli occhi di tutti.

Queste popolazioni, come abbiamo ostinatamente documentato sul nostro giornale, volevano dare al paese un futuro differente, proseguendo con la lotta quella traiettoria emancipatrice iniziata con la lotta vittoriosa contro il dominio anglo-egiziano nel 1956 e continuata con le altrettanto fortunate battaglie contro i regimi più o meno duraturi, emersi da colpi di Stato militare e abbattuti da rivoluzioni popolari per ben tre volte (1958-64, 1968-1985 ed infine 1989-2019).

Ci uniamo a tutti i membri della diaspora sudanese che chiedono l’immediata cessazione delle ostilità, consci che non saranno gli “apprendisti stregoni” euro-atlantici e le loro pedine a creare le condizioni per una pace duratura ed un reale processo di transizione nel paese.

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Per una migliore comprensione di ciò che sta avvenendo rimandiamo a: “Tempesta di Sabbia. Dossier Sudan” prodotto dalla Rete dei Comunisti.

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23/04/2023

Sudan - Combattimenti nonostante la tregua. Gli occidentali evacuano

In Sudan sono in corso ormai dallo scorso 15 aprile intensi combattimenti tra l’esercito regolare sudanese e le Forze di supporto rapido (Rsf), i paramilitari guidati dal generale Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo.

I due generali oggi in conflitto tra loro, Mohamed Hamdan Dagalo e Abdelfatah al Burhan, furono il braccio e la mente del colpo di stato del 2021. Al Burhan 62 anni, è divenuto presidente del Consiglio sovrano di Transizione, l’organo esecutivo del Paese.

Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), dall’avvio dei combattimenti si contano ad oggi oltre 400 morti e 3.500 feriti nel Paese. A partire dal 21 aprile, le parti hanno concordato una tregua umanitaria per un periodo di 72 ore durante le celebrazioni dell’Eid al Fitr, la festa che sancisce la fine del mese sacro del Ramadan. La misura è stata tuttavia ignorata dalle parti in conflitto e nella capitale continuano a registrarsi esplosioni e colpi di armi da fuoco.

Le Rsf sono un esercito di circa 100mila uomini erede della milizia araba dei Janjaweed (ovvero “demoni a cavallo”) particolarmente violenti contro i ribelli del Darfur venti anni fa.

Le Forze di supporto rapido (Rsf) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, hanno smentito di ricevere sostegno dal gruppo di mercenari russi Wagner, come annunciato in un’esclusiva della televisione statunitense CNN.

“Respingiamo categoricamente le accuse circa un nostro coinvolgimento con il gruppo Wagner nell’attuale conflitto in Sudan”, recita un comunicato diffuso dall’account Twitter ufficiale delle Rsf. Gli uomini del generale Dagalo accusano invece le Forze armate sudanesi (Saf) del generale Abdel Fattah al Burhan di essere sostenute da potenze straniere.

Anche il capo della compagnia russa Wagner Evgenij Prigozhin ha affermato di non sostenere nessuno dei partecipanti. “Sottolineo ancora una volta che la compagnia Wagner non partecipa in alcun modo al conflitto sudanese, e le domande di tutti i media riguardanti qualsiasi aiuto ad Abdel Fattah al-Burhan oppure al capo delle Forze di supporto rapido Mohamed Dagalo, o altre persone nel territorio del Sudan, non sono altro che un tentativo di provocazione”, ha affermato Prigozhin.

Secondo alcuni osservatori il conflitto in Sudan tra l’esercito di Abdel Fattah al Burhan e le milizie di Dagalo potrebbe estendersi prima o poi anche alla Libia. Una fonte libica ha riferito ad Agenzia Nova che sarebbe fallito “un tentativo di stabilire un ponte aereo diretto tra il sud della Libia e il Sudan”, dopo che i ribelli hanno perso il controllo di alcune basi militari sudanesi. In particolare, secondo la fonte, “ci sono stati tre voli, tra domenica e martedì, non per andare in Sudan ma per scaricare armi e munizioni a Kufra, nel sud-est della Libia, che sono state poi trasportate via terra oltre il confine”.

La 128esima Brigata dell’Lna del generale Haftar, uomo forte della Cirenaica, “ha da tempo assunto il controllo di alcune aree precedentemente presidiate dalle Brigate Subul Al Salam”, a loro volta guidate dal salafita radicale Abdul Rahman Hashem, “a ridosso del confine sudanese e del triangolo tra Ciad, Sudan e Libia”, ha detto l’analista libico Emadeddine Badi ad Agenzia Nova.

“Ci sono dei collegamenti tra Hemeti e Haftar”, ha confermato Badi. Secondo il quotidiano statunitense Wall Street Journal, i due generali si sono già aiutati a vicenda in passato. In particolare, il generale sudanese ha inviato combattenti per aiutare Haftar durante il tentativo, fallito, di impadronirsi della capitale libica Tripoli nel 2019. Ancora oggi, i miliziani sudanesi affiliati al generale Dagalo svolgono funzioni di guardia nelle strutture militari dell’Lna. Haftar e Hemedti sono, inoltre, alleati con gli Emirati Arabi Uniti, Paese che ha sostenuto Haftar militarmente in Libia e che avrebbe reclutato gli uomini di Hemeti per combattere in Yemen, teatro di un conflitto civile dal 2014.

L’Egitto, invece, ha allacciato legami molto stretti con il Consiglio sovrano del generale al Burhan, effettuando frequenti esercitazioni militari congiunte, l’ultima delle quali a inizio aprile presso la base navale di Port Sudan. “Non credo che gli egiziani controllino ciò che Haftar può fare”, riferisce Badi, spiegando anzi come l’Egitto dipenda sempre più da Haftar per la difesa del suo fianco occidentale. “Il suo sostegno (di Haftar) alle Rsf è probabilmente orchestrato in modo indipendente, oppure fatto per conto o in coordinamento con gli Emirati Arabi Uniti”, ha concluso l’esperto.

Nel frattempo, ci sarebbe un francese ferito durante le operazioni di evacuazione dell’ambasciata di Parigi. Secondo la ricostruzione il convoglio francese sarebbe stato attaccato da aerei durante l’evacuazione questa mattina, lungo la strada da Bahri a Omdurman. La Francia ha iniziato una “rapida operazione di evacuazione” dei suoi cittadini e del suo personale diplomatico in Sudan. Lo riferisce oggi il ministero degli Esteri, secondo cui l’operazione includerà cittadini di “Paesi europei e alleati”.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha confermato l’evacuazione del personale diplomatico dell’ambasciata Usa in Sudan, a causa dei violenti combattimenti in corso nella capitale, Khartoum portando il personale dell’ambasciata alla base militare di Camp Lemonnier, in Gibuti.

Anche l’Italia sta predisponendo un piano per il rientro degli italiani che si trovano in Sudan. Ad annunciarlo è il sottosegretario agli Esteri, Maria Tripodi.

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18/04/2023

Sudan, la guerra dei generali

Gli scontri a fuoco tra le due principali fazioni delle forze armate sudanesi sono proseguiti nella giornata di lunedì causando un numero di vittime civili che, secondo alcune stime, sfiora ormai quota duecento. Il conflitto mette di fronte l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido (RSF), ai cui vertici siedono rispettivamente il numero uno e il numero due del regime militare uscito dal doppio colpo di stato del 2019 e del 2021. A loro volta, nonostante le ragioni di ordine interno alla base della disputa armata, le due parti sono appoggiate da diverse potenze straniere che da tempo competono per esercitare il maggior controllo possibile sul paese strategicamente posizionato sulle sponde del Mar Rosso.

Erano settimane che le tensioni stavano aumentando, principalmente in concomitanza con la stipula di un accordo politico per la creazione di un governo civile di transizione in grado di mettere fine alla situazione di crisi attuale. In assenza però di un’intesa tra i due gruppi armati, già a inizio aprile i rappresentanti dei movimenti di opposizione della società civile, riuniti nelle Forze per la Libertà e il Cambiamento, avevano annunciato un rinvio, preannunciando in qualche modo l’imminente escalation dello scontro.

Le forze armate e le RSF divergono sostanzialmente sulle modalità dell’integrazione di queste ultime nelle prime, come prevede una delle condizioni chiave dell’accordo definitivo per il superamento dello scenario post-golpe. Le RSF temono che l’assorbimento nell’esercito regolare possa portare a un’erosione della loro influenza nelle vicende del paese. Sempre legato a questioni di potere è anche il mancato accordo sull’identità del comandante supremo delle forze armate nel periodo di transizione che dovrebbe iniziare. Le RSF chiedono che il controllo sia esercitato dal capo dello stato civile che verrà nominato, mentre questa ipotesi è respinta dai militari.

La crisi sudanese ha origine nel colpo di stato “preventivo” portato a termine nel 2019 contro il regime del presidente Omar al-Bashir, oggetto nei mesi precedenti di massicce proteste popolari. Le forze armate, guidate dall’attuale comandante e capo di fatto dello stato, generale Abdel Fattah al-Burhan, intendevano in questo modo preservare l’architettura di un sistema sul quale esse stesse detengono un ampio controllo, incluso l'ambito economico. In seguito, i militari avrebbero commesso svariati massacri nel tentativo di reprimere le manifestazioni popolari di protesta, fino a che il raggruppamento di partiti di opposizione e svariate associazioni sindacali avevano negoziato un percorso politico per il ritorno dello stato sotto il controllo di un governo guidato da civili.

La carica di primo ministro era stata così assegnata all’economista Abdalla Hamdock, ma il vero potere continuava a risiedere in un organo denominato “Consiglio Sovrano” e guidato dal generale Burhan. Questo precario equilibrio sarebbe durato poco più di due anni. I militari non avevano infatti nessuna intenzione di cedere realmente il potere e consideravano il dispositivo creato in collaborazione con la società civile sudanese come un mezzo per ottenere la rimozione delle sanzioni occidentali grazie alla facciata della transizione democratica.

Nell’ottobre del 2021, le forze armate e le RSF rovesciarono il governo civile, introducendo lo stato di emergenza e trasferendo nuovamente tutto il potere nelle mani del Consiglio Sovrano, sempre dominato da Burhan. Seguirono poi nuove proteste e il reinsediamento del primo ministro Hamdok il mese successivo. La crisi non sarebbe stata tuttavia risolta e quest’ultimo avrebbe alla fine rassegnato le dimissioni il 2 gennaio del 2022.

Burhan condivide ora il potere con il numero uno delle RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti”. La convivenza si è fatta progressivamente più complicata, fino appunto all’esplosione di un conflitto aperto nel fine settimana. La situazione era iniziata a precipitare giovedì scorso, con le forze armate sudanesi che avevano dichiarato illegale il dispiegamento di uomini delle RSF a Khartoum e in altre città del paese. Fiutando il pericolo, le forze paramilitari di Dagalo avevano allora avviato un’operazione per cercare di occupare alcune strutture strategiche, come l’aeroporto della capitale e la base aerea della città settentrionale di Merowe.

Sabato mattina, le notizie che sono arrivate dal Sudan descrivevano una situazione di guerra aperta. Scontri a fuoco si sono registrati in molte città del paese, mentre le forze armate regolari hanno bombardato le postazioni delle RSF. Entrambe le parti avevano a un certo punto rivendicato il controllo di edifici chiave, a cominciare dal palazzo presidenziale a Khartoum, ma la stampa internazionale non è stata in grado di confermare queste notizie. La gravità della spaccatura tra l’esercito e le Forze di Supporto Rapido era apparsa chiara dalle parole del generale Burhan, che aveva dichiarato l’ex alleato e rivale Dagalo un “criminale ricercato” e le RSF una “milizia ribelle”. Dagalo, da parte sua, aveva definito Burhan un “criminale” e un “bugiardo” nel corso di un’intervista ad Al Jazeera.

Nel pomeriggio di domenica era stata concordata una tregua “umanitaria” della durata di tre ore per consentire ai civili di abbandonare gli edifici teatro delle violenze. Anche durante questo breve periodo gli scontri a fuoco sono continuati, per poi riprendere con la massima intensità appena scaduto il cessate il fuoco. Oltre ai civili sudanesi rimasti uccisi finora, tra le vittime si segnalano tre funzionati del Programma Alimentare Mondiale ONU impegnati nella provincia del Darfur Settentrionale.

Tra domenica e lunedì sono arrivati inviti al dialogo da praticamente tutti i governi dei paesi coinvolti nella crisi sudanese. Le organizzazioni africane regionali si sono invece mobilitate per inviare proprie delegazioni a Khartoum, nel tentativo di fermare l’escalation. Le Forze di Supporto Rapido, anche se considerate una sorta di milizia paramilitare, sono composte da circa 100 mila uomini e, secondo alcuni analisti, avrebbero maggiori capacità di combattimento rispetto all’esercito regolare. Quest’ultimo ha però il vantaggio delle forze aeree, sfruttate infatti immediatamente per colpire le basi delle RSF.

Le Forze di Supporto Rapido derivano dalle famigerate milizie Janjaweed, responsabili, secondo le associazioni umanitarie, delle peggiori atrocità durante la guerra nel Darfur, dove peraltro si era messo in mostra lo stesso generale Burhan. Le due forze rivali avevano ricevuto l’appoggio di diversi governi stranieri al momento della caduta del regime di Bashir, diventandone i rispettivi riferimenti al fine di mantenere una qualche influenza sul Sudan. L’esercito regolare e il generale Burhan sono sostenuti dall’Egitto, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Europa. Le RSF di Dagalo appaiono invece vicine ad Arabia Saudita, Emirati Arabi e Russia, impegnata a negoziare la creazione di una base militare a Port Sudan, località strategica sul Mar Rosso.

L’intreccio di interessi stranieri è il primo fattore che ostacola una transizione verso un governo civile in Sudan. Washington, da dove era già stata progettata la secessione del Sud Sudan, punta in particolare a sganciare il regime di Khartoum dalla Russia, ma anche dalla Cina, e di attrarre stabilmente il paese nella propria orbita attraverso incentivi di carattere soprattutto economico. Il Sudan è infatti uno dei paesi a maggioranza musulmana ad avere aderito ai cosiddetti “Accordi di Abramo”, lanciati dagli Stati Uniti per normalizzare le relazioni con Israele.

Per quanto riguarda Mosca, l’intesa per la costruzione di una base militare a Port Sudan risale a qualche anno fa, ma il precipitare della crisi interna e gli eventi legati al COVID-19 avevano provocato uno stallo del progetto. Il Cremlino ritiene di estrema importanza questa struttura, visto che risulterebbe decisiva per la penetrazione nel continente africano e, in particolare, nell’area sub-sahariana e del Sahel, dove operano sia contingenti della compagnia di “sicurezza” privata Wagner sia compagnie del settore estrattivo.

Tutti i paesi interessati al Sudan temono comunque che il paese possa scivolare in una vera e propria guerra civile e per questa ragione spingono per una de-escalation delle tensioni e una rapida stabilizzazione. Sono tuttavia proprio le influenze esterne ad avere inasprito i conflitti etnici e politici, accentuati da povertà dilagante e corruzione, complicando una crisi che sembra allontanare sempre di più qualsiasi prospettiva di transizione anche solo formalmente democratica sotto la guida di un governo civile.

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