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11/12/2020

Torino - Gree Pea, green-washing e green-sfruttamento


Ieri davanti a Green Pea – il nuovo centro commerciale di lusso di Oscar Farinetti inaugurato in pompa magna e in piena pandemia a Torino – alcuni attivisti hanno organizzato un presidio, per denunciare quello che si preannuncia in questo ennesimo parco giochi Farinetti style.

“I racconti dello stesso Farinetti sono una vera e propria operazione di greenwashing con la quale si vuole nascondere la vera realtà dei fatti” lancia l’allarme Noi Restiamo “l’obiettivo rimane sempre il profitto e la trasformazione di Torino in una città vetrina su misura dei turisti, meccanismo che da anni la borghesia piemontese cerca di raggiungere, dopo la deindustrializzazione modello Fiat. Sappiamo bene quali sono gli effetti sociali di questo modello: precarietà, disoccupazione, gentrificazione del quartiere, aumento degli affitti”.

Farinetti promette posti di lavoro e il rilancio dell’economia ma a che prezzo? I lavoratori del commercio sono stretti tra contratti estremamente precari e flessibili, con salari sotto il minimo garantito pre-pandemia e senza alcuna prospettiva di un futuro certo.

Il nuovo progetto speculativo di Farinetti, questa volta in salsa green, oltre ad essere un tentativo di green-washing, ha tutte le caratteristiche per essere un centro per pochi ma soprattutto – come dimostra anche la fallimentare impresa di F. I.C.O. in Emilia Romagna – è il prodotto della speculazione, dello sfruttamento e della precarietà di tanti. L’ennesima cattedrale nel deserto che garantirà solo ed esclusivamente gli interessi di Farinetti e dei suoi “mercanti” del lusso.

Al presidio, presente anche USB, che sulla questione del lavoro non usa mezzi termini. Qui la nostra intervista:


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26/11/2020

Farinetti migra a Nord e ci riprova

Dopo il fallimento del bolognese F.I.CO, Farinetti ci riprova a Torino con Green Pea, un progetto da 15 mila metri quadri che mira a diventare il centro commerciale in salsa green per eccellenza, un luogo in cui secondo il proprietario di Eataly “i prodotti sostenibili non sono un dovere ma un piacere” e, quando ci sarà stancati di svuotarsi le tasche con lo “shopping sostenibile” di prodotti biologici di Eataly, ci si potrà trastullare in nell’apposito spazio “dedicato al benessere e all’ozio”.

Funzionerà questa volta?

È di meno di un mese fa la notizia che F.I.CO, il parco giochi del cibo Made in Italy aperto in uno dei quartieri periferici di Bologna, non più di 3 anni fa, ha chiuso i battenti “per pandemia”. Se la scusa è stata quella della completa assenza di visitatori e di turisti in arrivo nella città del mattone rosso, la verità è che F.I.CO è una “storia nata e già finita”, un progetto speculativo e fallimentare di “10 ettari di solitudine”, che già l’anno scorso aveva registrato una perdita di 3,1 milioni di euro. Con un 2020 così funesto non avrebbe avuto speranze di riprendersi.

Ma nonostante la realtà abbia evidenziato, al di là della crisi pandemica, che l’idea della Bologna turistificata e resa vetrina sia inconsistente (oltre che dannosa per chi ci vive ed estremamente classista), Farinetti non demorde e torna all’attacco, questa volta nell’elegante Torino, dove l’8 dicembre aprirà Green Pea, il parco giochi dello shopping “sostenibile”. Solo per benestanti sia chiaro.

Se in Emilia Romagna il progetto legato all’agroalimentare ha fallito, in Piemonte si prova quindi con l’agroambientale, pensando forse che basti lanciare le parole d’ordine della sostenibilità perché il progetto funzioni e porti profitti.

La propaganda che accompagna l’inaugurazione del terzo progetto speculativo di Farinetti parla dell’edificio “più bello del mondo, punto di riferimento della sostenibilità, a bassissimo impatto ambientale” dove 200 persone potranno trovare lavoro, molto probabilmente con contratti precari e intermittenti come a F.I.CO, e dove la borghesia piemontese potrà giocarsi le proprie carte per provare a non soccombere.

In Emilia Romagna i maggiori azionisti e compartecipanti di F.I.CO erano colossi legati per lo più al sistema PD, come Naturovo, Antica Ardenga, Camst, Parmigiano Reggiano, e l’immancabile Coop Alleanza (rimasta sola, oggi, con Eataly, a lavorare al piano di ristrutturazione del parco giochi, con la bellezza di altri 4 milioni di euro investiti). Green Pea ospiterà i soliti big tra cui FCA, Whirlpool, Unicredit, Samsung, TIM e – immancabile per il fashion sostenibile – Borbonese.

A Torino il centro commerciale di lusso aprirà al Lingotto, quartiere che storicamente ospitava gli uffici della Fiat in grandi edifici che ora, con la crisi e la svendita dell’azienda Marchionne style, sono stati riconvertiti per fiere, congressi e grandi eventi – come il Salone internazionale del libro – oltre a numerose altre attività commerciali.

L’imprenditore del food si inserisce così in questa città replicando lo schema emiliano, alimentando la dinamica di trasformazione di una città tutta volta alla sua mercificazione, a partire soprattutto dall’opera di gentrificazione delle periferie.

Nella città della Mole, questo significherà abbandonare definitivamente la sua vocazione industriale per appendersi al filo del business del turismo (dal futuro oltretutto incertissimo), e dare spazio all’attività di speculatori e palazzinari, con tutti gli effetti sociali che ne conseguono: precarietà del lavoro, disoccupazione e aumento localizzato dei canoni d’affitto.

Al di là della narrazione che Farinetti fa di sé – e che vorrebbe convincerci delle “promettenti ricadute” occupazionali di Green Pea – in realtà rappresenta bene quel prototipo di borghesia predatrice senza nessuna idea di sviluppo a lungo termine, abituata a speculare sul territorio con l’obiettivo di trarre il massimo profitto nel più breve tempo possibile.

Appena si sgonfierà la bolla di Green Pea, esattamente come per F.I.CO., resterà solo disoccupazione e un’altra cattedrale nel deserto ereditato dagli Agnelli. Magari stavolta votata alla dea Demetra, con tanto di statue in marmo nell’attico.

Forse l’unica cosa “notevole” di questo progetto è l’”ottimismo” di Oscar Farinetti, che magari pensa di giocare di concerto con la rischiosa riapertura natalizia per favorire i consumi, e per la caparbietà nel progetto di spremitura del profitto dai territori che va ad occupare.

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02/02/2018

Dopo le promesse, Farinetti licenzia. Intervista a Giorgio Cremaschi

La politica nostrana ci ha ormai abituati all’eterna contraddizione tra il dire e il fare, tra le le promesse sbandierate e la reltà che si materializza, infrangendo sistematicamente le promesse.

È il caso di quanto sta avvenendo a Fico, il parco giochi del cibo fortemente voluto da Oscar Farinetti ed inaugurato poco più di due mesi fa in pompa magna da Matteo Renzi e da tutto l’establishment politico-economico legato al Partito Democratico locale e nazionale (leggi qui).

Dopo le grandi promesse occupazionali e di benessere per il territorio annunciate dai fautori di questa immensa opera di speculazione, ecco che arriva la prima notizia che fa tornare coi piedi per terra: 90 lavoratori assunti con contratti interinali disdettati e non rinnovati a nemmeno 6 mesi dall’apertura. La motivazione è legata alle “fluttuazioni degli ingressi”, come hanno a dire i responsabili del parco che da lavoro a più di mille persone e che doveva essere una delle strategie per aumentare l’occupazione nel territorio.

Questi sono probabilmente solo i primi licenziamenti non concordati coi sindacati e che quindi rende già carta straccia il protocollo firmato nel luglio dell’anno scorso tra sindacati e azienda per «la tutela dell’occupazione, la qualità del lavoro e le relazioni sindacali». Protocollo che prevedeva un incontro entro marzo 2018 per verificare la situazione.

Ma si sa, all’epoca del renzismo, del Jobs Act e della politica occupazionale fatta solo di sgravi e incentivi, il potere delle aziende è pressoché totale, finchè davanti si trovano sindacati concertativi e poco inclini a puntare i piedi.

Dunque non è bastato regalare un terreno pubblico immenso a privati per un’enorme opera di speculazione e profitto, non è bastato mettere a disposizione decine di autobus pubblici come navette che fanno costantemente la spola tra la stazione Fs e il Food Park di Farinetti (e, il più delle volte, con non più di cinque persone, autista compreso), così come non basterà promettere un ulteriore collegamento diretto, questa volta con l’aeroporto.

Fatto sta che basta un lieve calo degli ingressi (reale o atteso) che da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, novanta persone si ritrovano senza lavoro.

Questi sono i miracoli economici e sociali promossi e incentivati dal governo Renzi, il quale domani inizierà la sua campagna elettorale proprio a Bologna. Che qualcuno gli stia preparando il comitato di benvenuto?

Di seguito proponiamo un’intervista a Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al Popolo a Bologna e realizzata dalla redazione di Radio Città Aperta, clicca qui e poi clicca sul simbolino “play” sotto il titolo.

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24/11/2017

FICO e Farinetti. Propaganda e business fuori dalla realtà contadina

Il 15 novembre sono state aperte le porte di FICO, un parco dei divertimenti dell’agro alimentare made in Italy. E’ un grande progetto multimilionario animato da EATALY, COOP, società di capitali, istituti finanziari (banche, assicurazioni etc.) e grandi imprese dell’agro-alimentare. E’ un parco di circa 10 ettari alle porte di Bologna che ospiterà oltre un centinaio di aziende, una quarantina di ristoranti, due campi coltivati, serre, capi di bestiame, laboratori di trasformazione e quant’altro necessario per dare vita ad un grande centro commerciale/parco divertimenti/itinerario didattico-divulgativo-promozionale. L’opera, costata oltre 150 mln di euro di investimenti, prende forma in un’area di proprietà pubblica del valore di 55 mln di euro concessa gratuitamente dal comune di Bologna al patron di EATALY Oscar Farinetti e alla società costituita Ad Hoc per la gestione del parco.

Le critiche mosse nei confronti di questa maxi opera in pieno stile e continuità con l’appena conclusa e fallimentare esperienza di EXPO, sono numerose e provengono da diversi fronti.

Noi, contadine e contadini, dell’Associazione Rurale Italiana, oltre ad esprimere piena solidarietà e partecipazione nei confronti di chi in questi giorni ha contestato l’inaugurazione del mega progetto, consideriamo questo progetto inutile, dispendioso e soprattutto assolutamente incapace di dare voce e rappresentazione dell’agricoltura contadina del nostro paese.

Essere contadini e produrre in modo contadino vuol dire valorizzare e promuovere la piccola produzione dei territori, fatta di tradizione e innovazione, conoscenza delle colture e risorse delle diverse aree del nostro paese, significa produrre in maniera solidale, stabilire un prezzo equo dei prodotti che sia rispettoso della dignità delle persone e del lavoro e capace di proporre prodotti di qualità anche per chi subisce più pesantemente la crisi economica. Produzione contadina significa alta intensità di lavoro e non di capitali e implica cura del territorio, delle sue risorse naturali al fine della tutela del patrimonio ecologico-ambientale e della biodiversità agricola. “Solo un incompetente può dire di racchiudere “tutta la meraviglia della biodiversità italiana in un unico luogo” come si legge nella propaganda di FICO, ricorda Roberto, contadino delle montagne piemontesi che recupera alla coltivazioni grani antichi.

Non esiste nessuna Fabbrica Contadina perché le nostre vite ci appartengono e non sono merce che si fabbrica.

I grandi attori nell’agro alimentare italiano (EATALY, COOP, Granarolo) fanno propaganda ed i governi e le istituzioni si mobilitano: vengono messi a disposizione finanziamenti, servizi di supporto, affidamento di beni e patrimonio pubblico a titolo gratuito (come se questi colossi avessero scarsi capitali da impiegare in qualsivoglia iniziativa) e applicate leggi speciali che consentono e supportano l’azione di questi operatori.

Da anni migliaia di veri contadini di questo paese, quelli che fanno vivere oltre 700.000 aziende di piccola dimensione, attendono l’approvazione di una legge che riconosca la loro specificità, la loro funzione sociale, i loro diritti e che legittimi, riconosca e valorizzi il lavoro sia di produzione agricola che di cura del territorio, in accordo con quanto previsto dalla Costituzione Italiana.

FICO, per noi di Associazione Rurale Italiana, è solo un’altra trovata propagandistica di chi, governando le istituzioni, si ostina a non voler conoscere e riconoscere il ruolo di veri protagonisti ad una classe, quella contadina, che nonostante i sacrifici e le vessazioni subite non si presta alla strumentalizzazione di quanti coinvolti in queste grandi opere di menzogna.

Lanciamo la sfida ai nostri governanti presenti e futuri: se volete veramente tutelare e promuovere l’agricoltura contadina fatevi avanti per l’approvazione della legge sull’agricoltura contadina, frutto di una partecipata campagna nazionale e che giace da diversi anni in commissione agricoltura del Parlamento e riconoscere così i diritti di chi davvero in questo paese – e nel resto del Pianeta – produce la quasi totalità di quello che finisce in tavola. Una sfida che non costa soldi ma richiede solo un gesto di rispetto per la dignità di donne e uomini che sono ancora il motore più efficace di una delle grandi agricolture del mondo.

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15/11/2017

Apre “Fico”, dal modello Expo alla green economy

Il gran giorno è arrivato! Oggi pomeriggio il premier Gentiloni, e alcuni ministri tra cui Poletti (Lavoro), Franceschini (Cultura) Martina (Politiche Agricole) e Galletti (Ambiente) inaugurerà a Bologna il FICO (Fabbrica Italiana Contadina), l’ultimo progetto di Oscar Farinetti per mettere a valore “anche il cibo scaduto”.

Un progetto fortemente voluto da Andrea Segrè, professore di economia e politica agraria che ha costruito la sua carriera sulla gestione degli aiuti pubblici allo sviluppo agricolo nei paesi in via di sviluppo e sulla riconversione dei sistemi agricoli dei paesi ex sovietici e balcanici a sistemi di mercato, per poi cimentarsi sul Last Minute Market e sulle politiche contro lo spreco alimentare, diventando così presidente del CAAB e della Fondazione FICO.

Segrè si è buttato a capofitto su questo progetto, cavalcando l’onda del cibo sano, del riuso delle risorse, e dell’immagine bucolica che in molti oggi hanno del mondo contadino. Farinetti ha accolto a piene mani l’idea, e con la compiacenza del comune di Bologna, il gioco è stato facile.

Inaugura così oggi la più grande fiera italiana del cibo, confezionata in un progetto “smart” sul modello expo, che di smart ha davvero tutto, per dirla ironicamente, a partire dall’acronimo.

FICO allude al mondo contadino, tradizionale e autorganizzato, dove un suolo di qualità corrisponde ad assicurare cibo di qualità, ma come tutti i colossi di questo genere, si traduce in un enorme mercato dove tutto quello che si mette in mostra, è la capacità delle aziende di competere per avere un posto al FICO, una bella immagine, e mostrare un mondo inesistente e surreale, dove l’innovazione tecnologica pare a portata di tutti, dove la sperimentazione pare davvero libera, il cibo, l’aria e la terra davvero sani e sfruttati in modo “sostenibile”.

FICO nasce su un area di 100.000 m3, fino ad oggi dedicata al mercato CAAB (centro agroalimentare Bolognese) di proprietà quasi interamente pubblica. Farinetti è stato talmente smart che nella trattativa per la costruzione di questo polo dell’agroalimentare d’eccellenza, ha ottenuto questo enorme spazio gratuitamente, impegnando la Regione a fornire un comodissimo servizio navetta dalla stazione alla modica cifra di 5e a corsa, e a rivedere parte della viabilità del quartiere su cui verte FICO. Con Trenitalia invece, l’accordo è stato siglato pochi giorni fa, e mira a portare a Bologna 6 milioni di turisti nei prossimi 3 anni.

Si tratta di un progetto talmente smart, che la città stessa si presta ad accogliere trasformandosi in bomboniera, e in aree gentrificate in periferia. FICO sorge in un area periferica di Bologna, il quartiere Pilastro, che grazie a FICO sta subendo un processo di gentrificazione accelerata, dove al posto delle case popolari si costruiranno nuovi quartieri residenziali, e dove al posto dei progetti di inclusione, saranno promosse attività che mirino a fare bello il quartiere, come una pista ciclabile che finisce sul nulla e una nuova viabilità (in quasi totale funzione di FICO).

Il progetto si inserisce in quella che ormai è conosciuta come “Eatalyworld, la Disneyland del cibo made in Italy”, e vede la partecipazione tra le tante, della giunta Merola, coop adriatica, CAAB, e ovviamente Eataly. Includerà due ettari di campi, 40 fabbriche, 45 ristoranti, 12 aule didattiche, un teatro, un cinema, un centro congressi da mille posti e sei giostre.

Sarà uno spazio smart per promuovere il territorio forse, e forse anche attività di carattere ambientale che male non fanno di certo, ma ciò che è palese ad oggi, è quanto è costato alle casse pubbliche (50 milioni di valore immobiliare solo per fare un esempio), di quanto ha già fatto guadagnare ai costruttori come Coop, Cmb e Melegari, e di quanto guadagneranno banche e fondazioni in termini non solo di immagine. In sintesi un progetto che fa della green economy la base per enormi profitti e speculazioni.

Un progetto super smart, dove i lavoratori verranno pagati “8 euro l’ora”, come sta a cuore a Farinetti, ma con contratti precari e senza speranza di aumenti salariali. Previste inoltre oltre 300mila ore di alternanza scuola-lavoro per circa 20mila studenti di 200 scuole sparse sull’intero territorio italiano. Con la collaborazione di Randstad, Farinetti “lo smart” lancia il progetto “un giorno da Fico”, che dovrebbe servire a “sensibilizzare gli studenti ai temi dell’innovazione e della filiera agroalimentare made in Italy, preparare i giovani ai nuovi scenari del mercato del lavoro, promuovendo il superamento degli stereotipi di genere, gli studi scientifico-tecnologici e la formazione terziaria”, ma che in altre parole, dovrebbe servire ad avere forza lavoro gratuita e non sindacalizzata.

Un grande incubatore di sperimentazione, sulle nuove tecniche di sfruttamento del lavoro, dell’immagine e del territorio.

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23/06/2017

Guai a parlar male dei padroni in Rai. Farinetti querela Marta Fana, il Pd minaccia


Mercoledì sera alla Rai va in onda “Carta Bianca” il talk show curato da Bianca Berlinguer. Ospite in studio “patron Farinetti”, quello dell’ottimismo quando possedeva Unieuro e quello che ha fatto rubamazzo all’Expo e in giro nelle città italiane inventandosi Eataly.

Ma in studio c’è anche Marta Fana, economista e giovane ricercatrice italiana all’estero che ha curato numerosi e dettagliati rapporti sugli orrori nel mercato del lavoro in Italia. Dopo aver avuto il coraggio di denunciare in diretta tv le condizioni di lavoro all’interno di Eataly e l’opacità del sistema degli appalti in situazioni come l’EXPO e FICO, è stata minacciata di querela dal patron di Eataly Oscar Farinetti. Lo strumento della querela per zittire il dissenso e la denuncia è un’arma facile per i padroni, che hanno dalla loro il denaro e l’arroganza.


In soccorso di Farinetti sono arrivati subito parlamentari del Pd come Michele Anzaldi, segretario della Commissione di vigilanza sulla Rai che in una nota ha attaccato addirittura la trasmissione “Carta Bianca” per aver consentito che si criticasse un imprenditore come Farinetti.

Ma sono arrivati anche centinaia di messaggi di solidarietà a Marta Fana, a cui aggiungiamo volentieri quello della nostra redazione. Una reazione genuina che dimostra come sempre più persone siano stanche della retorica di “prenditori” come Farinetti e dei tanti altri ideologi renziani, di fronte ad una realtà fatta invece di disoccupazione, precariato o emigrazione.

Nel caso specifico di Eataly, il nostro giornale se ne è occupato in passato, vedi il nuovo contratto integrativo di Eataly

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05/08/2015

L'industria della felicità

I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l'anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche.

Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell'impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l'industria della felicità.

Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese, sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l'economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell'ultima fase della crisi capitalistica.

E' interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de La Repubblica, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo.

Il saggio del sociologo britannico William Davis, descrive come
“le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d'occhio”. 
In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E' stata istituita la figura dirigenziale dell'addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro.

Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone, è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys.

A fare dell'ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l'uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all'insegna dell'ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull'ottimismo iniziano nel 2001.

Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall'abolizione dell'art.18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto Sblocca Italia alla destrutturazione dell'amministrazione pubblica.

Declinare in ogni conferenza stampa, twitter o dichiarazione che “le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede” – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c'è anche se non si può vedere.

Ma se poi la gente non ci crede perché non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l'ottimismo non devono più essere categoria dell'anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.

Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Iannacci:
“e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!”
Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l'anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne.

La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali.

Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato.

Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.

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15/11/2014

La mia domenica è un lunedì. Lettera per un lavoratore delle cucine

Daniele è un ragazzo giovane, ha ancora 22 anni, 23 il prossimo dicembre. Ha lasciato la scuola a 18 anni, per cominciare una vita di lavoro tra hotel, ristoranti, sia in Italia, sia all’estero.
Dopo aver lavorato per tanto tempo, aver fatto la “gavetta” ed imparato il mestiere, tra sudore, fornelli, e scottature, è tornato nella sua Firenze, la città dove è nato. Ha trovato lavoro in un ristorante, per farsi una vita nella sua città.

Peccato però che lì al lavoro le cose non vanno come devono andare: già conosce cosa vuol dire lavorare sotto padrone, ma questa volta è un po’ diverso. “Va bene, ci racconta, mi è capitato di ricevere gli stipendi un po’ in ritardo, con i tempi che corrono…”. Ma in questo ristorante è peggio, perché Daniele, oltre a non essere più nuovo, ha anche un po’ di esperienza. Il padrone lo umilia davanti ad altra gente, gli lancia insulti pesantissimi, conditi da minacce dirette a lui, alla sua ragazza, alla famiglia. Soprattutto, il padrone minaccia di non pagarlo, e questo, per uno costretto a rinunciare a una parte consistente della propria giornata, è come un colpo di pistola, una frustata in volto. Sì perché al lavoro si è fatta dura: si lavorano ore extra, in doppia battuta (dalle 11.00 alle 22.30) senza nemmeno usufruire di due pasti. Per di più, a decidere cosa, mangiare e cosa no ci pensa il padrone: solo la pasta e solo come dico io!

Daniele decide di autotutelarsi e di rivolgersi ai sindacati. Ne trova uno di quelli confederali, che hanno un apparato grosso e possono permettersi di mettere sportelli in ogni dove. Solo che il sindacato non lo aiuta, perché di sindacalisti seri che si sentono parte della propria classe ce ne sono pochi, e lui ha trovato quelli sbagliati, quelli che pensano di offrire un servizio ad un cliente, un servizio che come tutti i servizi in una società capitalistica deve risolversi in fretta e nel più breve tempo possibile: non contempla il conflitto, lo scontro, la lotta, ma solo la mediazione, l’utilizzo di meccanismi legali sicuri e oleati, anche se lenti e macchinosi. Così Daniele viene respinto anche da chi dovrebbe fare i suoi interessi e si ritrova solo. Non si fa scrupoli, se il capo lo insulta risponde a testa alta. Ma Daniele ha un contratto a tempo determinato, il tempo di aver maturato i giorni e viene messo in ferie forzate il 15 settembre, in attesa di venire licenziato, anzi, “non rinnovato”, il 20 ottobre successivo.

Poi un giorno va su internet, e scopre un video in cui si parla di cuochi e camerieri come lui, dipendenti di Eataly Firenze, che si sono ribellati al proprio padrone ed alla propria azienda. Lui pensava che da Eataly si lavorasse bene, di sicuro molto meglio che dove si trovava prima. Decide di intervenire. Perché se da un lato comprende le difficoltà e la lotta di questi ragazzi, d’altro lato gli sembra esagerato che lavoratori che stanno un po’ meglio di lui (privilegiati si sente dire oggi), trovino tutto questo spazio sui media, nel sindacato ed una considerazione che lui meriterebbe molto di più. 
Ha inviato una lettera al nostro indirizzo e-mail (cityworkers@gmail.com), dentro la quale c’era la rabbia per la propria condizione, ma anche tante di quelle barriere che dividono i lavoratori dai lavoratori, per cui un proletario che sta un po’ meglio diventa un privilegiato, ed uno che sta un po’ peggio un poveretto o uno sfigato. Ci siamo confrontati su queste categorie con Daniele, che ha voluto raccontarci la sua piccola vicenda e ci ha permesso di scrivere la lettera che pubblichiamo (in parte tagliata) di seguito.

Ci piace pensare che la vicenda Eataly, per tanti lavoratori e tante lavoratrici delle cucine come lui, sia stata come un piccolo sasso lanciato nello stagno, che abbia smosso le acque torbide dell’ideologia dominante ed introdotto un dibattito destinato a crescere e a farsi azione, lotta, organizzazione.


Questa risposta, scritta da un nostro compagno che nelle cucine ci lavora, è per tutti loro.


Ciao Daniele,
[…] quello che sto per dirti non cambierebbe di una virgola se fossi un impiegato, un operaio di fabbrica, un semplice studente, ma si dà il caso che anche io, come te, lavori nelle cucine, da circa sei anni per la precisione. Ho fatto di tutto, dallo sguattero allo chef, lavato pile di piatti, con e senza contratto, fatto la battuta e la doppia battuta, preso i soldi in busta, e i tanti fuori busta. Mai visto uno straordinario, una maggiorazione per le innumerevoli ore di lavoro supplementare. Ho servito a pranzo e a cena chi si divertiva e la mia domenica è spesso stata un lunedì.
Spesso, troppo spesso, ho avuto la tua stessa sensazione di impotenza. Nelle cucine purtroppo il padrone te lo ritrovi alla cassa o al tuo fianco ai fornelli, oppure i colleghi sono troppo divisi, pochi e impauriti per controbattere. Mi dicevano “bisogna ringraziare che c’abbiamo il lavoro!”, oppure “lavora, lavora, ruba con gli occhi e diventerai chef!”. A me sembrava solo di rubare a me stesso, di scavarmi dentro con un cucchiaino a tal punto che se mai fossi diventato chef sarei stato un manichino, un simulacro d’uomo.

Però, ecco, a casa mia mi hanno insegnato che agli schiaffi si risponde, sarà che alcuni dei miei parenti erano cattolici un po’ così, per i casi della Storia, e altri invece ad un falso perdono non ci credevano per niente. Sta di fatto che, quando ho iniziato a capire che non ci sono cucine migliori e cucine peggiori, e che di schiaffi ne avevo presi troppi su entrambe le guance, ho provato a reagire. Lo so, non è semplice, soprattutto nella ristorazione, dove si lavora anche 60 ore a settimana, ed i diritti di noi lavoratori sono adagiati talmente in fondo al pozzo che a guardare in alto a stento si percepisce la luce. Ma qualcosa si deve pur fare, mi dicevo! John Reed, che era un giornalista statunitense, inviato a San Pietroburgo durante i giorni della rivoluzione russa, scriveva, nelle sue memorie, di manifesti affissi alle pareti dei ristoranti dagli stessi lavoratori. In alcuni di essi c’era scritto “si rifiutano le mance!” e ancora “Se un uomo deve guadagnarsi da vivere servendo a un tavolo non c’è ragione di insultarlo offrendogli la mancia!”. Dovevo trovare anche io quella dignità, dentro di me, lo sentivo come un dovere.

Ho iniziato a leggere il Contratto Nazionale Turismo e Pubblici Esercizi, le leggi sul lavoro, a parlare con i miei colleghi. Forse non ho ottenuto niente di rivoluzionario, i tempi non lo permettono, ma credo che solo a parlarne e a chiedere con forza, le mie condizioni siano parecchio migliorate. Ho iniziato ad autotutelarmi. A sentirmi una persona e non un robot e a lottare per i miei diritti. Insieme ad altri lavoratori come me abbiamo messo su un collettivo Clash City Workers anche qui a Firenze (siamo anche a Napoli, Milano, Roma, Padova, Trieste, Torino e collaboriamo con diverse realtà ed organizzazioni che si muovono come noi in tutta la penisola, e non solo), per sostenere le lotte di altri lavoratori, rubando tempo al tempo libero, alle domeniche (e ai lunedì) pur di contribuire ad accrescere il nostro potere contrattuale e apportare nuova linfa all’albero della nostra coscienza generale. […]

È stato così che abbiamo conosciuto i lavoratori di Eataly che vedi nel video, si sono rivolti allo sportello legale del sindacato per avviare una vertenza contro un’azienda che non rispettava il CCNL e richiedeva una totale disponibilità alle loro vite. Io credo che il loro ragionamento non sia stato tanto dissimile dal mio: hanno preso il loro coraggio nelle mani per pretendere migliori condizioni di lavoro. Tutte queste cose non le sentirai mai in un servizio giornalistico. Perché vedi, quel video che abbiamo montato lo abbiamo ripreso tale e quale da un programma televisivo di Mediaset, che li aveva intervistati. Ai giornalisti interessa lo scoop, accarezzare la superficie delle cose, ed invece per carpire la profondità di quello che è successo bisogna conoscere tutta la loro storia. Non avrei esitato a raccontartela, ma per mia fortuna le vicissitudini della lotta – una lotta iniziata molto prima che i giornalisti se ne interessassero – mi hanno risparmiato parecchia fatica, perché questi lavoratori hanno fatto da sé, scrivendo un’inchiesta interna al loro posto di lavoro (la trovi qui). Ti consiglio di leggerla, dentro ci sono tanti elementi che riguardano anche te, e me, in prima persona.

Questa storia spiega l’attenzione da essi ricevuta? In parte. Devi sapere che Farinetti ha puntato molto sull’immagine, ha agganci politici molto forti, e per questo te lo ritrovi in edifici storici di immenso valore, nelle prime pagine di tutti i giornali, sia come opinionista, sia come oggetto pubblicitario. Ha sponsorizzato Renzi, e per questo è stato largamente ricompensato. Questa sovraesposizione dell’immagine di Eataly è diventata però una lama a doppio taglio, perché quando qualcuno dall’interno di quella realtà ha avuto qualcosa da ridire, ha trovato una tribuna gremita di fronte a sé. A Samuele ed agli altri non interessa infangare l’immagine dell’azienda in cui lavoravano (ed in cui ancora qualcuno del gruppo di scioperanti lavora): essi vogliono migliori condizioni di lavoro, e sono stati disposti a tutto pur di ottenerle. Ad esempio, raccontare la verità. Grazie al nostro lavoro, infatti, siamo riusciti ad organizzare due giorni di sciopero, presidi, volantinaggi, a dare visibilità alla loro lotta, a metterli in contatto con altri loro colleghi di Eataly. È quello che facciamo con tutti i lavoratori che si rivolgono a noi, né più né meno, come potrai notare dando una scorsa al nostro sito internet. Ma, come ti accennavo, colpire un’azienda come Eataly vuol dire salire su un palcoscenico, ed invece di tirarci indietro abbiamo sfruttato fino in fondo questa particolarità per piegarla ai fini della lotta. La tribuna mediatica, infatti, ci ha dato la possibilità di far arrivare l’inchiesta ai lavoratori degli altri store, di aprire un dibattito, per quanto sempre risucchiato dentro schemi riduttivi, a livello nazionale. Abbiamo dimostrato che dentro Eataly si lavora con contratti illegali, e Farinetti si è talmente spaventato che ha dovuto firmare, il 4 settembre passato, un accordo con la CGIL fiorentina, e sta procedendo a stabilizzare (ma solo in parte, sia chiaro!), i dipendenti degli altri negozi. Un risultato non da poco, ti pare?

Nonostante questa piccola vittoria, a noi quell’accordo continua a non piacere. Perché vedi, a differenza di quanto traspare da quel servizio, la CGIL, te lo posso assicurare, finora ha fatto gli interessi dell’azienda. In una parola, quando Farinetti si è trovato in difficoltà, gli è bastato ricevere due funzionari sindacali per rimettersi in piedi, un po’ ammaccato, e ripartire a spremere i suoi dipendenti. Le stabilizzazioni, nonostante le falsità che in questi giorni l’azienda sta spargendo in giro, copriranno infatti solo il 40% dei dipendenti. Gli altri resteranno precari, con contratti di apprendistato, a termine o interinali. Non mi stupisce il fatto che la CGIL, alla quale pure tu ti sei rivolto, ti abbia “rimbalzato” indietro, è una cosa comune, perché negli anni le dirigenze dei sindacati confederali si sono adagiate nell’andar a braccetto con le aziende, tanto che a volte fanno la spia, fanno gli accordi senza sentire i lavoratori… in una parola, sono dei cani da guardia. Sia chiaro, questo non vale per tutti i sindacalisti, perché c’è ancora chi, prima di considerarsi tale, si sente membro della classe dei lavoratori e considera il sindacato come un sostegno alla lotta, e non come un soggetto che può sostituirsi ad essa.

Qui forse potrei chiudere questa risposta, però c’è dell’altro, e tu ne sei la dimostrazione lampante. Mi sto impegnando tanto nella questione, e lo sai perché? Perché il fatto che la lotta Eataly sia salita su un piedistallo, ne fa un simbolo. Essa sta diventando un simbolo contro lo sfruttamento, un simbolo contro la precarietà, la dimostrazione plateale, se uno sa leggerla correttamente, che lottare per il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro è possibile! Renzi fa del modello Eataly un canovaccio per la sua riforma del lavoro? E noi facciamo vedere ai lavoratori italiani cosa li aspetta! Certo, molti, troppi giornalisti, commentatori, lo stesso Farinetti, stanno dipingendo questa lotta come un attacco personale nei sui confronti, mosso da motivi politici di basso grado, come le piccole schermaglie tra centro destra e centro sinistra per chi sarà più bravo a mettercelo in tasca. Ma la realtà è che questa di Eataly è la lotta di un gruppo di lavoratori contro situazioni di lavoro miserevoli, e contro chi tenta quotidianamente di imporcele, che sia un Ministro del lavoro, un padrone, o i suoi lacchè armati di penna. Ed è una lotta che, anche se non si può vedere, sta vincendo già ora. Non ci credi? Ti faccio un esempio. Due colleghe di Samuele, dopo 10 mesi di lavoro, sono giunte a scadenza contratto. Al momento del rinnovo, Eataly ha deciso di rinnovarle, sì, ma con un contratto di apprendistato. Ebbene, se la lotta non ci fosse stata, le ragazze avrebbero abbassato la testa e sarebbero tornate a lavorare con un altro contratto a termine, beffate, perché dopo 10 mesi di lavoro cos’altro avrebbero dovuto “apprendere”? E invece no, la lotta c’è stata, ha avuto risonanza, e le ragazze, sfruttando i rapporti di forza rinnovati, hanno preteso un contratto a tempo indeterminato. L’azienda, per paura di scatenare una reazione, si è adeguata immediatamente, e si è trovata costretta a rispettare il CCNL. Certo, ha dovuto rinunciare a una piccola fetta dei suoi 400 mln di profitti annui. Ma ce ne torna qualcosa in tasca a noi, di quei profitti?

Tu dici di stare peggio. Lo credo, anche io sto peggio, perché ho la sfortuna di lavorare in piccole aziende, dove le condizioni di lavoro sono basse, nessuno, benché meno i sindacati, si occupano di entrarvi, ed i lavoratori sono in troppo pochi per organizzarsi. Ma non credi che trincerarci dietro barriere inconsistenti ci porti solo un grande danno? Se arriviamo a considerare un lavoratore che sta peggio di noi come uno “sfigato”, ed uno che sta meglio come “un privilegiato”, come faremo ad unirci per reclamare i nostri diritti come hanno fatto i ragazzi di Eataly?

Ti voglio dire una cosa. Io mi sto buttando a capofitto nell’aiutare questi ragazzi, passo ore davanti al computer, leggo tutti gli articoli sulla questione, e dedico molto più tempo a loro che ai miei problemi sindacali e lo sai perché? Perché se loro vincono, vinciamo tutti. Se loro vincono avranno – avrò – dimostrato con i fatti, ai miei colleghi e ai tanti come te e come me, che conoscendo i propri diritti ed organizzandosi per reclamarli si può atterrare il più grosso dei Golia, ad esempio una multinazionale come Eataly. Alcune aziende sembrano dei giganti, ma sono giganti dai piedi d’argilla, perché a sostenerli ci siamo irrimediabilmente noi, noi che lavoriamo, noi che produciamo realmente, con le mani ed i nervi, la ricchezza sociale.
[…]
Spero di averti dato un punto di vista su cui riflettere. Scusa per la lunga mail, ma ci sono cose che non possono essere dette con due frasi buttate là. Vieni pure a trovarci in sede: se e quando vorrai passare, ci troverai là.

Con affetto e solidarietà
L. per i Clash City Workers

07/09/2014

Eataly: lo squalo Farinetti manda il delfino. Analisi del linguaggio padronale

L’affaire Eataly, inaspettatamente salito agli altari delle cronache locali, e perfino nazionali, per lo sciopero tenutosi nelle giornate di sabato e domenica, è prontamente rientrato. Difficile del resto aspettarsi un epilogo diverso. Premesso questo, ci sembra che la vicenda concorra ad avvalorare la bontà di due aspetti sui quali battiamo ormai da qualche mese. Da un lato, vi è infatti l’esigenza di giungere ad una nuova, stabile, e combattiva forma di organizzazione di tutti coloro che quotidianamente sono costretti a vendere la propria forza-lavoro. Dall’altro, vi è invece la correlata necessità di perseguire tale finalità su base territoriale, piuttosto che aziendale. Tuttavia, questi due aspetti non vogliono essere il focus del nostro articolo. Come, parimenti, non ci dedicheremo allo smascheramento del ruolo giocato dalla CGIL nella vertenza. Al contrario, queste poche righe vorrebbero essere un’analisi del nuovo linguaggio padronale. Ci sembra infatti che Francesco Farinetti abbia mostrato buone qualità in questo campo.

Il giovane rampollo della famiglia, nonché amministratore delegato del gruppo Eataly, ha concesso nella mattinata di mercoledì una breve intervista ad un giornalista de il Fatto Quotidiano.


A partire dal look esibito (distinto, ma non elegante; sobrio, ma non sciatto) tutto concorre a fare dei tre brevissimi minuti del video un moderno manifesto di abilità e capacità comunicativa. L’atteggiamento generale mostrato da Francesco Farinetti si situa a metà strada tra l’instabile frenesia di stampo positivista che ama esibire Andrea Della Valle, presidente onorario della squadra viola, e la finzione della presenza-ascolto alla quale segue il presunto diritto-dovere di scegliere, espressione del renzismo dilagante. L’empatia che l’ascoltatore prova nei confronti dell’intervistato è immediata, aiutata peraltro dalla capacità di Farinetti di non presentare se stesso e l’azienda come infallibili, seppur sempre animati da un’incrollabile fede nel lavoro, nel progresso, e nel quotidiano miglioramento. Il primo duplice obiettivo di Farinetti è quello di demistificare quanto detto dai lavoratori licenziati e di limitarne l’autorevolezza politica e personale. Il rischio che corre è ovviamente quello di apparire semplicemente come una delle due parti in causa, con l’aggravante dell’innegabilità dei tre licenziamenti avvenuti. In altri termini, quando alcuni tuoi coetanei sono appena stati maldestramente buttati fuori dall’azienda che dirigi esclusivamente per meriti dinastici, appare evidente che la possibilità di attrarsi una buona dose di antipatia sia alta. Al contrario però, l’amministratore delegato schiva abilmente il suddetto pericolo evitando sia la contrapposizione frontale con i lavoratori, sia apparentemente abdicando al desiderio di fornire la propria versione dei fatti, limitandosi invece a quella che appare una semplice ricostruzione di quanto successo per il nobile ed alto fine della verità dei fatti. L’elemento determinante qui è quella straordinaria, orribile, geniale espressione i nostri ragazzi. Vi è tutto qui. In primo luogo, vi è la retrocessione degli uomini e delle donne a ragazzi, garzoni di bottega con qualifica limitata e soggetti per loro natura immaturi, acerbi, dotati di straordinari slanci positivi, ma anche di incomprensibili amnesie ed errori banali. Secondariamente, si nega a questi un’alterità rispetto all’azienda. Nello specifico, questa è la diretta ed esplicita applicazione del pensiero di Oscar Farinetti, il padre dell’intervistato, quando immagina i sindacati come novecentesche creature ormai superate. Inutili perché nel modello neo-corporativo il conflitto non è più tra dipendenti e proprietario all’interno dell’azienda, ma tra imprese che competono nel presunto libero mercato. Questo richiede unità e coesione interna e presuppone un modello paternalistico di attenzione verso i propri dipendenti, fintamente rappresentati come figli adottivi da educare alle ferree leggi della concorrenza globale.

Le capacità comunicative di Francesco Farinetti contagiano anche il giornalista. Questi, non solamente si accoda al linguaggio imposto dal suo intervistato (in uno straordinario ribaltamento dei ruoli) definendo ragazzi i lavoratori dipendenti, ma incentra le proprie domande su elementi secondari, mancando completamente il bersaglio principale, quello attorno al quale ruota l’intera vicenda (al riguardo si potrebbe anche avanzare sospetti di scarsa abilità giornalistica oppure di aperta malafede). Infatti, la prima e semplice domanda sarebbe dovuta essere: per quale ragione sono stati licenziati i tre lavoratori? Questo è infatti il motivo che ha portato alla proclamazione dello sciopero. Ancora più grave, il giornalista non mette in dubbio la bontà di quanto affermato dal rampollo Farinetti, accogliendo, ad esempio, come normale e logica un’ampia variazione di organico in un’attività che, al netto dei picchi dicembrini e natalizi (peraltro comuni alla quasi totalità delle attività commerciali), è certamente a-stagionale e florida in tutti i periodi dell’anno. Molto banalmente chiediamo, cosa dovrebbero fare le circa quaranta persone presenti in organico la vigilia di Natale ma senza lavoro in altri periodi? I bagnini a San Vincenzo durante la stagione estiva?

Detto questo, alla strategia messa in campo da Farinetti, e dalla classe padronale in generale, è comunque possibile reagire attraverso un costante smascheramento delle loro tecniche comunicative ed attivando un’infaticabile opera di decriptazione della realtà. Infatti, se non è certamente possibile impedire al finto interessato rampollo di utilizzare espressioni che sottolineano la sua propensione al dialogo, è sempre lecito riconoscerne l’assoluta strumentalità e falsità; se non possiamo ovviamente zittirlo quando appella i dipendenti come i nostri ragazzi, possiamo rispondere rimarcando i confini che separano un proprietario da un dipendente, s-personalizzando il più possibile la controparte, che ambirebbe invece ad essere chiamata con il nome di battesimo, attraverso l’utilizzo della qualifica professionale: l’amministratore delegato. Questo infatti è ciò che Francesco Farinetti rimane: un grigio figlio-di dedito esclusivamente alla massimizzazione del profitto familiare.

Per la stesura dell’articolo rivolgiamo un ringraziamento speciale a Silvia.

16/04/2014

Un tortellino ci seppellirà? Il modello Bologna nella macina della crisi

Un pezzo storicamente importante dell’economia locale è il settore fieristico: tra la gestione diretta degli eventi e l’ampio indotto determina molto nel tessuto produttivo e dei servizi. Dopotutto è la seconda fiera in Italia dopo quella di Milano, coordina altre fiere regionali e si è agganciata, nei limiti del possibile, al mercato internazionale (con una preferenza per la Cina).

Per questo ogni scossone, ogni perdita dell’azienda fieristica (a capitale misto pubblico e privato) è un buon punto di osservazione per le dinamiche di ristrutturazione non solo locali ma nazionali.

Per questo sottolineiamo che la sempre più accesa competizione con la fiera di Milano, in vista dell’Expo, raffigura quel processo di accentramento e di concentrazione che caratterizza in generale le situazioni di crisi ma nel nostro caso anche l’accentuarsi delle contraddizioni nel procedere della nuova divisione internazionale del lavoro nei nostri territori come conseguenza del processo costituente dell’Europolo.

Lo scippo del grande evento di “Linea Pelle” (che insieme a Cersaie, Eima è un pezzo di quel made in Italy tanto caro al renzismo) da parte dell’expo di Milano è un segnale importante che segue la perdita di altri grandi eventi come il SAIE e il Motor show.

Da una parte abbiamo chiaro che come sempre il padronato si sposta e si accentra dove meglio vede garantiti i propri profitti, e l’ambiente dell’Expo 2015 è stato ben preparato fino agli ultimi accordi sindacali che prevedono lavoro gratuito e schiavitù. In deroga ai contratti nazionali infatti, i sindacati complici hanno firmato accordi che abbatteranno pesantemente i livelli salariali di chi sarà impiegato in questo progetto megagalattico, e che immetteranno ulteriori forme di precarietà lavorative.

Dall’altra non possiamo sottovalutare che l’Expo 2015 farà ovviamente da apripista per tutte le esposizioni fieristiche, e non ha che il significato di preparare il Paese alla sua vocazione di manodopera e di servizi a basso costo nel nuovo costituente polo imperialista europeo. Per i lavoratori del settore e dell’indotto, non solo a Bologna, si prepara una nuova difficile stagione.

In questo contesto si staglia la rappresentazione del teatrino della politica locale, a partire dal Sindaco PD Virginio Merola, con prese di posizione campanilistiche ma senza strategie e impegni di sviluppo concreti; alla cose vere o che sembrano più vere sono delegati i vari manager rampanti interessati a come e per quali profitti utilizzare il futuro spazio metropolitano di Bologna.

È il caso di Andrea Segrè, presidente del Centro Agro Alimentare di Bologna e Oscar Farinetti (creatore e fondatore di Eataly e renziano doc) con il faraonico progetto di fare di Bologna una “Disneyworld del cibo”. Un progetto faraonico quello di F.I.CO. (Fabbrica Italiana Contadina), un nuovo polo d’eccellenza per l’agroalimentare, che vede il Comune regalare centinaia di ettari ai privati per la costruzione della struttura e dove si metterà in produzione un esercito di precari, mal pagati e poveri, che nelle idee dello stesso guru Farinetti dovrebbero campare con 500 euro al mese.

Ed è da gente come loro che vengono le “direttive” giuste o sbagliate sul posizionamento produttivo di una metropoli e di una regione, e nel caso di BolognaFiere quella di riposizionarsi come expo complementare alla “riscoperta vocazione” agro-alimentare-gastronomica bolognese.

Altro che biotecnologie e meccanica di precisione: tortellini, ragù e borlenghi nel futuro metropolitano? Certo che il futuro del nostro paese non si discosta molto dal mito del “giardino d’Europa” ora con un nuovo “angolo degustazione”.

Le politiche fatte di privatizzazioni, precarizzazione, condite con speculazioni sul territorio e sui lavoratori ormai sono cosa nota, è sempre più chiaro come la “politica” non abbia alcun ruolo vero di direzione di questi processi, ma solo quello di mero amministratore e regolatore (quando va bene) delle scelte imposte dal padronato, nello scenario che si sta ridisegnando con la macina della crisi e con le dinamiche imposte dall’Unione Europea.

Fonte