Inizia con un amarcord l’operazione d’un futuro afghano ammantato della retorica del passato. Così dopo The Times, il nostrano Corriere della Sera mostra in prima pagina un Ahmad Massud bambino accanto a papà Shah, il “leone del Panshir”, prima che due falsi giornalisti, di fatto kamikaze qaedisti, lo facessero saltare in aria con la scusa di un’intervista. Si richiama il progetto attuale dell’unico maschio Massud, che ha sei sorelle, è vissuto a Londra, ha studiato nel locale King’s College, ha ottenuto un master in politica internazionale, s’è pure formato nell’Accademia militare di Sandhurst, e dopo diciott’anni è tornato nel Panshir. Si dice che parli ai tajiki delle tribù locali, ponendosi nientemeno che il sogno di diventare un leader per l’intero Afghanistan, magari presentandosi alle presidenziali del prossimo settembre. Se non ci fossero di mezzo il nome e la seconda comunità etnica del Paese, che però non va al di là del 21% della popolazione, l’iniziativa non farebbe notizia. Perché nella realtà il progetto di Massud jr appare impraticabile, non tanto perché fuori dalla cinica agenda detta da Washington, che da oltre un anno patteggia coi talebani i prossimi passi per governare le varie province afghane, ma perché proprio i trascorsi politici di Massud padre, rievocano una doppia metastasi mai risolta che tuttora affligge quella nazione assieme all’occupazione straniera: lo strapotere del tribalismo etnico e dei signori della guerra.
La figura, pur celebratissima, di Shah Massud è divisiva per quel che fece, naturalmente non solo lui, dopo la resistenza alle truppe sovietiche che nel dicembre 1979 entravano a Kabul. Se negli anni della guerriglia si guadagnò gli onori delle cronache umiliando l’Armata Rossa nella nativa valle, accompagnato peraltro da un mujaheddin che i russi temevano ancor più, il dinamitardo Abdul Haq, il mito del cosiddetto “Che Guevara islamico” fu un’invenzione della stampa internazionale. Francese soprattutto, con cui Massud aveva facilità di comunicazione per la conoscenza linguistica, ma anche italiana, basata quest’ultima sui racconti di quell’ottimo narratore che è stato Ettore Mo, proprio sul Corsera. Shan Massud, accogliente, meditativo, acculturato diventava la figura dell’islamista buono; niente a che vedere con la perversione di Hekmatyar, il rude opportunismo di Dostum, i fanatismi opposti di sunniti (Sayyaf) e sciiti (Mazari). Eppure egli stesso era un signore della guerra, che detta così appare un’ovvietà visto che era un mujaheddin, ma egualmente un uomo di potere. L’altra faccia del leone venne fuori durante la guerra civile del quadriennio 1992-96, quando i Warlords per prendere Kabul, massacravano civili a non finire. Incuranti di sangue, lutti, distruzioni, per nulla diversi dagli invasori di ogni epoca. Altro che ideali, altro che Che.
Nel corso d’un reportage di alcuni anni addietro incontrammo testimoni vecchi e meno anziani di quei giorni tremendi. Ci diceva Ubaid Ahmad, membro della locale ong Hawca che si occupa di rifugio per donne abusate “Ero bambino, ma ricordo, ricordo tutto. Di nascosto m’affacciavo fuori di casa. Lo sguardo era calamitato dall’artiglieria che cannoneggiava sul fronte opposto. Sulla montagna occidentale era posizionata quella di Massud che batteva costantemente la spianata sottostante e le alture opposte occupate da Sayyaf e Mazari... Lì vivevamo in centinaia di migliaia. L’assedio durò quattro anni, il numero dei morti non si conoscerà mai. Cifre approssimative li avvicinano a 80.000. Anni addietro, durante gli scavi compiuti nella zona del Politecnico, vennero alla luce fosse comuni dov’erano interrati i cadaveri di probabili prigionieri. Tutti passati per le armi. Da chi non è facile stabilirlo per mancanza di testimonianze certe”. I partiti e le fazioni armate erano i soliti: Jamiat di Massud, Hezb di Hekmatyar, Ittehad di Sayyaf, Hezb di Mazari. Sempre loro, i signori della morte. Per chi volesse sapere anche a ritroso, sebbene da anni la vicenda sia conosciuta, l’Afghan Indipendent Human Rights Commission produsse una “Mappa dei conflitti afghani dal 1978” che elencava nomi e responsabili di decine di migliaia di vittime dall’epoca dell’invasione sovietica sino al 2001.
Nero su bianco c’erano i nomi di cinquecento uomini ai vertici della catena di comando, fra cui il ‘compianto’ Massud, Dostum (attuale vicepresidente di Ghani), due vicepresidenti dell’era Karzai: Fahim e Khalili e altri. Il rapporto finì nel dimenticatoio, il curatore Nader Nadery, rischiò la pelle. Venne allontanato da Karzai dopo che il vicepresidente Fahim in un incontro pubblico così lo accoglieva: “Dovremmo semplicemente crivellargli la faccia con trenta colpi”. Signori della guerra vecchi e rinnovati, niente di più. Accanto alle loro storie ci piacerebbe leggere sui grandi media quelle dell’oscuro lavoro di attivisti democratici che da anni, chiedono giustizia per gli orrori trascorsi e cercano un reale domani per la massa degli oppressi. Nei giorni di permanenza a Kabul nel 2013 visitammo la sede del Saajs (Social Association Afghanistan Justice Seekers). Raccontava la presidente Weeda Ahmad: “Il Saajs è nato nel 2007, dopo una grande manifestazione che i familiari delle vittime dei Warlords tennero nella capitale. Da anni raccogliamo testimonianze dei sopravvissuti alle stragi, abbiamo iniziato a Kabul e proseguito a Herat, ampliando il lavoro nelle province di Nangarhar, Parwan, Paktiya, Balkh, Bamyan. Non è stato facile, la gente non ci conosceva e non si fidava, temevano ritorsioni. Poi l’aiuto di abitanti, come il signor Esatollah, ci ha aperto molte più porte di quanto pensassimo. La gente chiede giustizia, ma la geopolitica internazionale frena, vanificando il lavoro svolto anche in collaborazione con Onu e Unama”. La geopolitica ripropone vecchi schemi, si chiamino taliban, Massud o attori di ripetute stragi (come l’ultima rivendicata dallo Stato islamico, con 63 vittime, 200 feriti durante un banchetto matrimoniale nella comunità hazara) di cui giunge notizia mentre scriviamo...
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29/03/2017
Galassia talebana: i taliban uzbeki
Le trasformazioni in corso in seno alla famiglia dei taliban afghani possono aiutare a comprendere le tattiche e la strategia da loro attuate nell’ultimo biennio. Un periodo in cui questi particolari signori della guerra hanno ammesso la dipartita del mitico mullah Omar, celata per due anni, si sono riuniti per eleggere un successore, si sono divisi e contrastati. Hanno trovato la quadratura del cerchio nella nomina d’un nuovo leader (Akhtar Mansour), hanno risubìto una menomazione con la sua uccisione tramite un drone, con molti sospetti su possibili fughe di notizie verso la Cia che ha commissionato quell’eliminazione. Un supporto probabilmente giunto dall’Intellegence pakistana, imbeccata dai turbanti pakistani dissidenti. Comunque il fronte talib non s’è perso d’animo. Velocemente ha nominato un nuovo capo (Haibatullah Akhundzada), proseguendo quella campagna d’attacco contro l’Afghan National Force per dimostrarne l’inconsistenza militare, smentendo coi fatti la narrazione occidentale sulla presunta normalizzazione del Paese e avanzando le proprie pretese politiche. I successivi passi di Ghani, che già dal 2015 aveva riavviato colloqui con la Shura di Quetta per una “pacificazione nazionale”, hanno cercato un’ancora nel fondamentalista Hekmatyar affinché fungesse da mediatore verso i colleghi islamisti.
Quest’ultimi, però, puntano a far pesare nell’eventuale trattativa la logica del più forte; il loro controllo del territorio è una realtà con la quale le Istituzioni che cercano il dialogo devono fare i conti. In più si nota un altro interessante fenomeno: la scomparsa dell’unicità pashtun che fra gli studenti coranici del jihad produceva un’egemonia indiscussa. In realtà per un lungo periodo quell’etnìa ha nutrito il movimento dalle roccaforti meridionali (Kandahar su tutte), ma già dalla fine dell’esperienza dell’Emirato (2001) e dall’inizio della resistenza contro l’invasione delle truppe statunitensi e della Nato la tendenza stava cambiando. Col lancio della controffensiva, sempre crescente dal 2008 e la ricostruzione delle unità combattenti da nord a sud, il fattore multietnico è diventato una condizione nuova con cui i governi fantoccio (prima Karzai, poi Ghani) devono fare i conti. Interessante è lo studio compiuto dai soliti ricercatori locali sulla situazione di alcune province del nord a fitta presenza talebana: Faryab, Sar-e Pol, Jowzjan, Balkh, Kunduz. Aree dove i governatori che dovrebbero rendere conto ai palazzi di Kabul, possono ben poco, surclassati come sono dallo spettro dei governatori fantasma, ovviamente di marca talebana.
Voce alla loro propaganda d’opposizione al governo collaborazionista con gli invasori occidentali, la offrono anche gli imam che incoraggiano le famiglie a spedire i figli nelle madrase dove istruzione e predicazione sono ampiamente favorevoli al Jihad. Per quei ragazzi il futuro ha strade obbligate, dirette verso la religione o la militanza combattente. Nei casi osservati si nota che le province sono in buona percentuale (che non scende mai sotto il 50%) controllate da milizie talebane, composte da uzbeki, tajiki, pashtun. Il reclutamento è continuo, esistono campi d’addestramento al combattimento corpo a corpo, con armi leggere e anche all’uso di esplosivi. Sul tema vengono confezionati video promozionali. Anche quando alcuni di questi governatori-ombra sono fermati e arrestati con operazioni repressive (sostenute dai marines statunitensi), il reclutamento non si blocca né diminuisce. I giovani miliziani d’etnìa uzbeka ostentano l’appartenenza e impegnano la propria fedeltà al nuovo emiro e ai suoi rappresentanti locali, una battaglia contro cui l’attuale governo ha provato a schierare anche un pezzo da novanta delle storiche guerre interne: il generale uzbeko Dostum, dal 2014 vicepresidente afghano.
Uomo sopravvissuto a ogni stagione e bandiera: nel 1980 combatté per il governo filo sovietico, venne poi foraggiato dagli Stati Uniti, durante la guerra civile (1992-96) contribuì a distruggere Kabul. Ha guerreggiato contro mujaheddin e taliban ma, come altri warlords soprattutto per se stesso, non ha disdegnato esecuzioni sommarie e fosse comuni per i prigionieri islamisti. Nonostante la non verde età (ora ha 63 anni) è tornato a usare nomea e carisma militari al fine di spezzare l’uzbekizzazione dell’insorgenza in quelle province del nord, anche con le consolidate maniere spicce, tanto che alcuni degli abusi sui civili menzionati dall’Unama nel 2015 sono ascrivibili alle sue truppe. L’amministrazione Ghani ovviamente nasconde le malefatte, figurarsi la Casa Bianca... Di fatto l’utilizzo del vecchio arnese della guerra per bande ha solo rinfocolato la sua forza e la sua boria, l’esercito afghano non ne ha tratto beneficio tecnico né d’immagine mentre le giovani generazioni uzbeke non hanno ceduto granché al fascino del vecchio combattente. Chi può fugge attraverso l’Iran verso i confini turchi e oltre, chi resta può scegliere fra i mercenari del vicepresidente o i miliziani di Akhundzada. Forse c’è diversità di trattamento economico, ma i taliban gettano sul piatto i temi della fede e una non secondaria ipoteca sul potere. A tutt’oggi quest’ultimi sembrano pagare.
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Quest’ultimi, però, puntano a far pesare nell’eventuale trattativa la logica del più forte; il loro controllo del territorio è una realtà con la quale le Istituzioni che cercano il dialogo devono fare i conti. In più si nota un altro interessante fenomeno: la scomparsa dell’unicità pashtun che fra gli studenti coranici del jihad produceva un’egemonia indiscussa. In realtà per un lungo periodo quell’etnìa ha nutrito il movimento dalle roccaforti meridionali (Kandahar su tutte), ma già dalla fine dell’esperienza dell’Emirato (2001) e dall’inizio della resistenza contro l’invasione delle truppe statunitensi e della Nato la tendenza stava cambiando. Col lancio della controffensiva, sempre crescente dal 2008 e la ricostruzione delle unità combattenti da nord a sud, il fattore multietnico è diventato una condizione nuova con cui i governi fantoccio (prima Karzai, poi Ghani) devono fare i conti. Interessante è lo studio compiuto dai soliti ricercatori locali sulla situazione di alcune province del nord a fitta presenza talebana: Faryab, Sar-e Pol, Jowzjan, Balkh, Kunduz. Aree dove i governatori che dovrebbero rendere conto ai palazzi di Kabul, possono ben poco, surclassati come sono dallo spettro dei governatori fantasma, ovviamente di marca talebana.
Voce alla loro propaganda d’opposizione al governo collaborazionista con gli invasori occidentali, la offrono anche gli imam che incoraggiano le famiglie a spedire i figli nelle madrase dove istruzione e predicazione sono ampiamente favorevoli al Jihad. Per quei ragazzi il futuro ha strade obbligate, dirette verso la religione o la militanza combattente. Nei casi osservati si nota che le province sono in buona percentuale (che non scende mai sotto il 50%) controllate da milizie talebane, composte da uzbeki, tajiki, pashtun. Il reclutamento è continuo, esistono campi d’addestramento al combattimento corpo a corpo, con armi leggere e anche all’uso di esplosivi. Sul tema vengono confezionati video promozionali. Anche quando alcuni di questi governatori-ombra sono fermati e arrestati con operazioni repressive (sostenute dai marines statunitensi), il reclutamento non si blocca né diminuisce. I giovani miliziani d’etnìa uzbeka ostentano l’appartenenza e impegnano la propria fedeltà al nuovo emiro e ai suoi rappresentanti locali, una battaglia contro cui l’attuale governo ha provato a schierare anche un pezzo da novanta delle storiche guerre interne: il generale uzbeko Dostum, dal 2014 vicepresidente afghano.
Uomo sopravvissuto a ogni stagione e bandiera: nel 1980 combatté per il governo filo sovietico, venne poi foraggiato dagli Stati Uniti, durante la guerra civile (1992-96) contribuì a distruggere Kabul. Ha guerreggiato contro mujaheddin e taliban ma, come altri warlords soprattutto per se stesso, non ha disdegnato esecuzioni sommarie e fosse comuni per i prigionieri islamisti. Nonostante la non verde età (ora ha 63 anni) è tornato a usare nomea e carisma militari al fine di spezzare l’uzbekizzazione dell’insorgenza in quelle province del nord, anche con le consolidate maniere spicce, tanto che alcuni degli abusi sui civili menzionati dall’Unama nel 2015 sono ascrivibili alle sue truppe. L’amministrazione Ghani ovviamente nasconde le malefatte, figurarsi la Casa Bianca... Di fatto l’utilizzo del vecchio arnese della guerra per bande ha solo rinfocolato la sua forza e la sua boria, l’esercito afghano non ne ha tratto beneficio tecnico né d’immagine mentre le giovani generazioni uzbeke non hanno ceduto granché al fascino del vecchio combattente. Chi può fugge attraverso l’Iran verso i confini turchi e oltre, chi resta può scegliere fra i mercenari del vicepresidente o i miliziani di Akhundzada. Forse c’è diversità di trattamento economico, ma i taliban gettano sul piatto i temi della fede e una non secondaria ipoteca sul potere. A tutt’oggi quest’ultimi sembrano pagare.
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24/02/2017
Afghanistan, jihadisti di lotta e di governo
Il caso Hekmatyar è emblematico non solo per la vociferata amnistia di cui dovrebbe godere uno dei più noti warlord mediorientali, da più parti accusato di crimini contro l’umanità, ma per il suo ingresso con tutti gli onori nel quadro istituzionale del Paese. Certo la strada dell’oblìo verso le nefandezze del recente passato della storia afghana aveva già avuto precedenti, seppure meno illustri, con l’amministrazione Karzai. Anni addietro alcuni signori della guerra come Khalili e Fahim erano stati perdonati ed elevati al rango di vicepresidenti, Sayyaf medesimo era, ed è, presente nella Loya Jirga. I criminali Rabbani e Massud furono il primo presidente, l’altro osannato come eroe. In quest’ottica, dunque, non ci sono state sostanziali trasformazioni da trent’anni a questa parte; l’ultimo esempio è Dostum, vicepresidente in carica, voluto da Ghani. Ultimamente il generale buono per ogni stagione è un po’ in difficoltà per storie di stupri compiuti da alcune sue guardie del corpo verso donne uzbeke di clan rivali ed è stato invitato dal presidente a farsi da parte. Non è detto che obbedirà, perché i suoi kalashnikov hanno un peso nei conciliaboli. Ghani lo sa: l’ha coptato per questa qualità. I boss della guerriglia hanno fatto da padroni e sono rimasti sulla breccia anche grazie alle continue ingerenze esterne nel territorio afghano compiute prima dai sovietici poi dalla Nato. Tantoché i mujaheddin, e ora i taliban, battono e ribattono sul tasto della resistenza allo straniero per sostenere le proprie azioni armate e fare proseliti fra una popolazione stremata e confusa.
Eppure le narrazioni mainstream sull’Afghanistan – magari non tutte ma quelle filogovernative sì – si sono basate su informazioni di comodo finalizzate ad avallare il disegno statunitense di esportazione di “democrazia”. Le presidenze post talebane di Karzai e Ghani, eletti e rieletti grazie a brogli elettorali, non hanno pacificato la vita interna, né migliorato le condizioni sociali, sperperando i fondi della comunità internazionale con speculazioni gestite da potentati locali, molti dei quali sono per l’appunto signori della guerra, trasformati caso per caso in signori degli affari. Quelle narrazioni non dicono che costoro occupano posti di potere e con la propria violenza e il fondamentalismo ideologico impediscono il processo di trasformazione promesso con tanto di convention e assisi organizzate per il mondo dal governo locale e dai protettori occidentali. L’inserimento istituzionale di Hekmatyar, che potrebbe fare il pontiere con la componente talebana dialogante, s’accompagna a un avvicinamento della diarchia Ghani-Abdullah al partito Hezb-e Islami, utile al piano di pacificazione. Dallo scorso autunno questo partito ha ripreso una meticolosa propaganda nelle aree dov’è storicamente radicato (Herat, Kunduz) e, chi ne segue da anni il percorso politico, pensa che giocherà con l’attuale governo uno scambio su due questioni: prigionieri e rifugiati. Tuttora un pezzo della militanza combattente di Hezb è carcerata. Secondo l’agenzia Onu che su quei territori elabora statistiche (Unama) una parte di costoro è computata come talebani. Sarebbero oltre cinquemila combattenti.
I rifugiati sono in maggioranza raccolti nel campo di Peshawar, sfuggono però a ogni censimento. Possono essere migliaia o decine di migliaia, mancano dati certi. Si conosce, invece, la presa che sulla popolazione hanno alcuni personaggi: il comandante Sarwar Faryadi, rientrato tempo addietro da oltre un decennio di carcerazione in Gran Bretagna, venne accolto con festeggiamenti all’aeroporto di Kabul. Quella struttura è controllata giorno e notte dall’Army National Afghan Forces, l’esercito che da sei anni gli Stati Uniti finanziano e addestrano con scarsissimi risultati, che in quel caso non ha mosso un dito per impedire le manifestazioni di giubilo. I corteggiamenti rivolti all’Hezb-e Islami non sono nuovi. Nel 2005 Karzai, da poco presidente, ammise il partito d’impianto fondamentalista sulla scena politica e promosse un suo membro, Hadi Arghandiwal, a ministro dell’economia. Karzai sosteneva che tale corrente fosse diversa dall’antico gruppo dell’Hezb restato fedele a Hekmatyar e alle sue smanie stragiste verso taluni gruppi etnici, gli hazara su tutti. Invece il partito islamista appare unito e durante l’anno passato, quando il piano di pacificazione è diventato di pubblico dominio, Arghandiwal ha in più circostanze dichiarato come Kekmatyar sia l’emiro del gruppo con cui vorrà lavorare. Altre entità fondamentaliste: l’Hezb-e Muttahed-e Islami-ye Afghanistan e l’Alliance of Hezb-e Islami Councils, anziché competere fra loro sono orientate a una collaborazione col gruppo storico di Hekmatyar.
Da notare che la prima delle due sigle è registrata nell’Afghanistan “democratico” della missione Isaf dal 2006 e tutte hanno ondeggiato fra Karzai e Ghani, quando costoro si facevano paladini della lotta al fondamentalismo. Perciò i posizionamenti delle fazioni islamiste radicali, in vicinanza o appoggio al governo, sono avvenuti ben prima del progetto di pacificazione che coinvolge Hekmatyar. Accadeva per ragioni di potere, per ricavarne vantaggi e benefici personali e di clan, per business nelle varie province. Ora si pensa di utilizzare la sua figura bonificandola dalle macchie criminali, che non son poche, e puntando sulla mitologia che circola attorno al suo passato. Ricordi indubbiamente funerei che possono, comunque, avere la capacità di congelare e controllare i comportamenti di altri signori della guerra, seppure col trascorrere del tempo la categoria ne abbia perso più d’uno. L’impatto di real politik che questo leader può imprimere può tornar sempre vantaggioso, sempre che età e salute lo sorreggano. Con lui, storico elemento del primo Jihad afghano contro l’invasione del Paese, si riunirebbero tessere restate finora frammentarie: controllo militare di alcune province, rapporto con l’intellighenzia islamica interna ed estera, presenza nelle istituzioni. Fattori utili per cercare d’attrarre giovani leve che sono i veri mattoni di cui ha bisogno il movimento islamista per la costruzione dell’Emirato d’Afghanistan. Entità che può risultare un’altra versione di quella inseguita dai talebani. O magari la stessa.
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Eppure le narrazioni mainstream sull’Afghanistan – magari non tutte ma quelle filogovernative sì – si sono basate su informazioni di comodo finalizzate ad avallare il disegno statunitense di esportazione di “democrazia”. Le presidenze post talebane di Karzai e Ghani, eletti e rieletti grazie a brogli elettorali, non hanno pacificato la vita interna, né migliorato le condizioni sociali, sperperando i fondi della comunità internazionale con speculazioni gestite da potentati locali, molti dei quali sono per l’appunto signori della guerra, trasformati caso per caso in signori degli affari. Quelle narrazioni non dicono che costoro occupano posti di potere e con la propria violenza e il fondamentalismo ideologico impediscono il processo di trasformazione promesso con tanto di convention e assisi organizzate per il mondo dal governo locale e dai protettori occidentali. L’inserimento istituzionale di Hekmatyar, che potrebbe fare il pontiere con la componente talebana dialogante, s’accompagna a un avvicinamento della diarchia Ghani-Abdullah al partito Hezb-e Islami, utile al piano di pacificazione. Dallo scorso autunno questo partito ha ripreso una meticolosa propaganda nelle aree dov’è storicamente radicato (Herat, Kunduz) e, chi ne segue da anni il percorso politico, pensa che giocherà con l’attuale governo uno scambio su due questioni: prigionieri e rifugiati. Tuttora un pezzo della militanza combattente di Hezb è carcerata. Secondo l’agenzia Onu che su quei territori elabora statistiche (Unama) una parte di costoro è computata come talebani. Sarebbero oltre cinquemila combattenti.
I rifugiati sono in maggioranza raccolti nel campo di Peshawar, sfuggono però a ogni censimento. Possono essere migliaia o decine di migliaia, mancano dati certi. Si conosce, invece, la presa che sulla popolazione hanno alcuni personaggi: il comandante Sarwar Faryadi, rientrato tempo addietro da oltre un decennio di carcerazione in Gran Bretagna, venne accolto con festeggiamenti all’aeroporto di Kabul. Quella struttura è controllata giorno e notte dall’Army National Afghan Forces, l’esercito che da sei anni gli Stati Uniti finanziano e addestrano con scarsissimi risultati, che in quel caso non ha mosso un dito per impedire le manifestazioni di giubilo. I corteggiamenti rivolti all’Hezb-e Islami non sono nuovi. Nel 2005 Karzai, da poco presidente, ammise il partito d’impianto fondamentalista sulla scena politica e promosse un suo membro, Hadi Arghandiwal, a ministro dell’economia. Karzai sosteneva che tale corrente fosse diversa dall’antico gruppo dell’Hezb restato fedele a Hekmatyar e alle sue smanie stragiste verso taluni gruppi etnici, gli hazara su tutti. Invece il partito islamista appare unito e durante l’anno passato, quando il piano di pacificazione è diventato di pubblico dominio, Arghandiwal ha in più circostanze dichiarato come Kekmatyar sia l’emiro del gruppo con cui vorrà lavorare. Altre entità fondamentaliste: l’Hezb-e Muttahed-e Islami-ye Afghanistan e l’Alliance of Hezb-e Islami Councils, anziché competere fra loro sono orientate a una collaborazione col gruppo storico di Hekmatyar.
Da notare che la prima delle due sigle è registrata nell’Afghanistan “democratico” della missione Isaf dal 2006 e tutte hanno ondeggiato fra Karzai e Ghani, quando costoro si facevano paladini della lotta al fondamentalismo. Perciò i posizionamenti delle fazioni islamiste radicali, in vicinanza o appoggio al governo, sono avvenuti ben prima del progetto di pacificazione che coinvolge Hekmatyar. Accadeva per ragioni di potere, per ricavarne vantaggi e benefici personali e di clan, per business nelle varie province. Ora si pensa di utilizzare la sua figura bonificandola dalle macchie criminali, che non son poche, e puntando sulla mitologia che circola attorno al suo passato. Ricordi indubbiamente funerei che possono, comunque, avere la capacità di congelare e controllare i comportamenti di altri signori della guerra, seppure col trascorrere del tempo la categoria ne abbia perso più d’uno. L’impatto di real politik che questo leader può imprimere può tornar sempre vantaggioso, sempre che età e salute lo sorreggano. Con lui, storico elemento del primo Jihad afghano contro l’invasione del Paese, si riunirebbero tessere restate finora frammentarie: controllo militare di alcune province, rapporto con l’intellighenzia islamica interna ed estera, presenza nelle istituzioni. Fattori utili per cercare d’attrarre giovani leve che sono i veri mattoni di cui ha bisogno il movimento islamista per la costruzione dell’Emirato d’Afghanistan. Entità che può risultare un’altra versione di quella inseguita dai talebani. O magari la stessa.
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26/10/2016
Afghanistan – Dostum minaccia Ghani
Da ieri il presidente afghano Ghani non dormirà sonni tranquilli. Il vice che si è scelto, il signore della guerra d’origini uzbeke Rashid Dostum, ha parlato fuori dai denti e l’ha avvertito: guai a non rispettare il suo ruolo e la sua etnia. Nel farlo pubblicamente, in una conferenza stampa, ha sfoggiato tutta la prosopopea possibile, compreso l’aggressivo look del guerriero, come fosse un capitano di ventura rinascimentale. Di quella tipologia il generale ha tutti i geni. Pochi come lui possono vantare una versatilità nel trasformismo politico-militare che attraversa quarant’anni di storia afghana: due invasioni di eserciti stranieri, una sanguinosa guerra civile e ogni dopoguerra. Dostum è stato coi sovietici e coi governi “amici” voluti da Mosca e con la Cia che, dopo aver organizzato i mujaheddin contro i russi, li ha foraggiati anche contro i talebani, a loro volta sostenuti tramite gli alleati sauditi e pakistani. Tutto ciò è più che storia, diventa letteratura della storia del popolo afghano sottoposto al Grande gioco delle potenze mondiali dal XIX secolo a oggi.
Dostum è finito al fianco di Ghani, ultimo fantoccio del progetto statunitense di controllare l’Afghanistan, per garantire al presidente voluto dalla Casa Bianca un’incolumità di fronte al pericolo, nient’affatto teorico, che dopo le elezioni presidenziali del 2014 i gruppi stretti attorno alla candidatura sua e di Abdullah prendessero le armi, gli uni contro gli altri. L’exit strategy (mai compiuta del tutto) doveva concludersi e la recita della democratizzazione del Paese, cui contribuisce anche l’Unione Europea, necessitava di nuovi attori. Così i contendenti, e i signori della guerra che gli stavano attorno, trovarono il compromesso: Ghani presidente, Abdullah premier, Dostum vicepresidente, Sayyaf presente nel sottobosco parlamentare oltre che di governo. Contro questo disegno, che per reggersi non può dimenticare il pashtunwali e tutte le regole fra clan tribali, Dostum ha iniziato a scalpitare perché le etnie pashtun, cui appartiene Ghani, e tajika, riferimento familiare di Abdullah, la fanno da padrone.
Il generale uzbeko, che vive la politica dei palazzi come un noioso ingombro di cui farebbe a meno a favore delle maniere spicce e forti, non gradisce l’attuale presente con cui Ghani trama con suoi antichi nemici. Il più noto e tuttora potente è Galbuddin Hekmatyar, contro cui Dostum si scontrò apertamente nel triennio 1992-94. I reciproci cannoneggiamenti di Kabul fecero ottantamila vittime civili. Beh, con Hekmatyar, Ghani ha di recente stretto un patto di collaborazione, per l’intento non velato di utilizzarlo quale ambasciatore verso quei talebani che potrebbero stabilire colloqui di non belligeranza col governo. Una mossa che è comunque un terreno minato, perché gran parte dei clan talebani hanno invece scelto di attaccare in ogni angolo la sempre più debole amministrazione statale afghana. I talib sentono di poter imporre scelte e non sono propensi a trattare oppure lo faranno alla loro maniera. In più, a seguito dei frazionamenti già avvenuti, per non perdere militanti a favore della propaganda jihadista dell’Isis continuano ad attaccare l’esercito afghano.
Ma quest’ultimo non potrà mai opporsi adeguatamente alle milizie dei turbanti se continua a essere organizzato da personaggi come Mohammad Stanekzai. Questi è il capo dell’Intelligence insediato da Ghani e, a detta di Dostum, ha simpatie talebane tanto che la struttura che dirige fa acqua da tutte le parti. Stanekzai – tuona il vicepresidente – è l’esempio più sciagurato dei doppiogiochisti che contornano Ghani, che in fondo sono come lui: per curare interessi personali cercano di stare coi piedi su più staffe. Questi faccendieri e corrotti provocherebbero un danno doppio, mostrando ai sottoposti una totale assenza di posizioni e – afferma Dostum – senza un disegno, un’unica linea di condotta, un senso d’appartenenza chi lavora per la nazione non crede a quel che fa. Certo il pulpito da cui vengono simili riflessioni non è irreprensibile né immacolato, ma può far meditare il destinatario visto che Dostum non rinnega i percorsi di vita e li ripropone. Per ribadire il concetto, facendo riferimento a Najibullah (politico manovrato dai sovietici, prima difeso quindi abbandonato al suo destino dal signore della guerra uzbeko) ha detto: “Certe persone le ho fatte saltare in aria politicamente e militarmente”. Il futuro per Ghani diventa un incubo.
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Dostum è finito al fianco di Ghani, ultimo fantoccio del progetto statunitense di controllare l’Afghanistan, per garantire al presidente voluto dalla Casa Bianca un’incolumità di fronte al pericolo, nient’affatto teorico, che dopo le elezioni presidenziali del 2014 i gruppi stretti attorno alla candidatura sua e di Abdullah prendessero le armi, gli uni contro gli altri. L’exit strategy (mai compiuta del tutto) doveva concludersi e la recita della democratizzazione del Paese, cui contribuisce anche l’Unione Europea, necessitava di nuovi attori. Così i contendenti, e i signori della guerra che gli stavano attorno, trovarono il compromesso: Ghani presidente, Abdullah premier, Dostum vicepresidente, Sayyaf presente nel sottobosco parlamentare oltre che di governo. Contro questo disegno, che per reggersi non può dimenticare il pashtunwali e tutte le regole fra clan tribali, Dostum ha iniziato a scalpitare perché le etnie pashtun, cui appartiene Ghani, e tajika, riferimento familiare di Abdullah, la fanno da padrone.
Il generale uzbeko, che vive la politica dei palazzi come un noioso ingombro di cui farebbe a meno a favore delle maniere spicce e forti, non gradisce l’attuale presente con cui Ghani trama con suoi antichi nemici. Il più noto e tuttora potente è Galbuddin Hekmatyar, contro cui Dostum si scontrò apertamente nel triennio 1992-94. I reciproci cannoneggiamenti di Kabul fecero ottantamila vittime civili. Beh, con Hekmatyar, Ghani ha di recente stretto un patto di collaborazione, per l’intento non velato di utilizzarlo quale ambasciatore verso quei talebani che potrebbero stabilire colloqui di non belligeranza col governo. Una mossa che è comunque un terreno minato, perché gran parte dei clan talebani hanno invece scelto di attaccare in ogni angolo la sempre più debole amministrazione statale afghana. I talib sentono di poter imporre scelte e non sono propensi a trattare oppure lo faranno alla loro maniera. In più, a seguito dei frazionamenti già avvenuti, per non perdere militanti a favore della propaganda jihadista dell’Isis continuano ad attaccare l’esercito afghano.
Ma quest’ultimo non potrà mai opporsi adeguatamente alle milizie dei turbanti se continua a essere organizzato da personaggi come Mohammad Stanekzai. Questi è il capo dell’Intelligence insediato da Ghani e, a detta di Dostum, ha simpatie talebane tanto che la struttura che dirige fa acqua da tutte le parti. Stanekzai – tuona il vicepresidente – è l’esempio più sciagurato dei doppiogiochisti che contornano Ghani, che in fondo sono come lui: per curare interessi personali cercano di stare coi piedi su più staffe. Questi faccendieri e corrotti provocherebbero un danno doppio, mostrando ai sottoposti una totale assenza di posizioni e – afferma Dostum – senza un disegno, un’unica linea di condotta, un senso d’appartenenza chi lavora per la nazione non crede a quel che fa. Certo il pulpito da cui vengono simili riflessioni non è irreprensibile né immacolato, ma può far meditare il destinatario visto che Dostum non rinnega i percorsi di vita e li ripropone. Per ribadire il concetto, facendo riferimento a Najibullah (politico manovrato dai sovietici, prima difeso quindi abbandonato al suo destino dal signore della guerra uzbeko) ha detto: “Certe persone le ho fatte saltare in aria politicamente e militarmente”. Il futuro per Ghani diventa un incubo.
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