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05/04/2023

Finlandia, l’insidia della NATO

L’ingresso ufficiale della Finlandia nella NATO è avvenuto ironicamente solo due giorni dopo la sconfitta elettorale della coalizione di governo di centro-sinistra che ha gestito negli ultimi undici mesi la liquidazione definitiva dello status di neutralità del paese nordico. Praticamente tutta la classe politica finlandese è comunque allineata ai principi del filo-atlantismo, così che il prossimo cambio di governo a Helsinki non farà registrare nessuna variazione di rotta a proposito della crisi russo-ucraina. Il sostanziale consenso della politica e della maggioranza della popolazione all’adesione alla NATO non cancella tuttavia i rischi che questa decisione comporta per la Finlandia, la cui sicurezza diventerà da questa settimana indiscutibilmente più precaria, come hanno già lasciato intendere le inevitabili e del tutto legittime reazioni del governo di Mosca.

Dietro alla retorica che ha accompagnato la cerimonia ufficiale di martedì è facile ipotizzare che almeno in alcuni ambienti della classe dirigente finlandese circoli più di una preoccupazione per la trasformazione del paese nell’avamposto NATO con il più lungo confine condiviso con la Russia. Tra le righe del discorso del presidente, Sauli Niinistö, si intravede ad esempio un certo disagio per avere compromesso la sicurezza della Finlandia. Il messaggio di quest’ultimo è sembrato essere diretto non tanto al segretario Stoltenberg o alla Casa Bianca, quanto al presidente russo Putin. Niinistö ha tenuto cioè a precisare che l’ingresso di Helsinki nella NATO “non è contro nessuno”.

L’affermazione è oggettivamente e ovviamente assurda, ma altamente indicativa dello stato d’animo di una classe politica piegatasi in fretta ai diktat di Washington dopo l’inizio delle operazioni russe in Ucraina nel febbraio dello scorso anno. La rassicurazione del presidente finlandese è stata poi seguita da una precisazione illusoria. A suo dire, l’adesione “non cambia le basi e gli obiettivi della nostra politica estera e della sicurezza”, visto che la Finlandia resterà “un paese scandinavo stabile e prevedibile che si batte per la risoluzione pacifica dei conflitti”.

I cambiamenti, anche se non immediatamente evidenti, ci saranno e risulteranno forse decisivi per l’architettura della sicurezza europea. Per cominciare, a Helsinki e a Bruxelles deve essere sfuggito il fatto che la crisi ucraina era esplosa fondamentalmente per la minaccia dell’ingresso nella NATO di un paese al confine con la Russia e, come rimedio, è stato deciso proprio di allargare il numero dei suoi membri, includendo per l’appunto un altro paese confinante con la Russia. La soluzione non può quindi contribuire ad attenuare le tensioni, bensì a moltiplicarle.

Con la Finlandia, il confine NATO-Russia è più che raddoppiato, passando da 1.233 a 2.572 km. Se si considera che a breve anche la Svezia dovrebbe entrare a farne parte, oltre il 90% del Mar Baltico sarà inoltre controllato da paesi NATO. La flotta baltica russa dovrà quindi tenere in considerazione questa nuova realtà, con riflessi strategici abbastanza ovvi. Uno di questi è il posizionamento di armi nucleari nell’enclave di Kaliningrad. Inoltre, nell’area a est di San Pietroburgo, città situata ad appena 250 km dal confine finlandese, potrebbe essere introdotta da parte della Russia una zona di esclusione aerea, la cui eventuale violazione da parte di velivoli NATO rischierebbe di provocare un serissimo incidente.

Le dichiarazioni degli esponenti del governo di Mosca sono state ad ogni modo minacciose ma tendenti a non incoraggiare un’escalation. Per il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, l’adesione della Finlandia alla NATO rappresenta “una significativa espansione del conflitto” in corso in Ucraina. Il ministero degli Esteri ha a sua volta giudicato gli eventi come “un cambiamento fondamentale della situazione in Europa settentrionale, in precedenza una delle aree più stabili del pianeta”. Le contromisure russe dipenderanno però “dalle specifiche condizioni dell’integrazione della Finlandia nell’Alleanza Atlantica, inclusa la [possibile] creazione sul suo territorio di basi militari NATO e il dispiegamento di armi offensive”.

Martedì, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha abbassato ulteriormente i toni con una dichiarazione ufficiale rilasciata per chiarire le differenze tra la situazione ucraina e quella finlandese. L’allargamento della NATO comporta sì “una violazione degli interessi nazionali russi”, ma, a differenza dell’Ucraina, la Finlandia “non è mai stata anti-russa”, né Mosca “ha mai avuto dispute” con Helsinki.

L’ingresso nella NATO della Finlandia è ad ogni modo la logica conclusione di un percorso di avvicinamento iniziato almeno dalla metà degli anni Novanta, quando Helsinki sottoscrisse con l’Alleanza la cosiddetta Partnership per la Pace, aprendo la strada alla partecipazione alle “missioni” in Kosovo, Afghanistan e Iraq. Le forze armate finlandesi si sarebbero così progressivamente adeguate agli standard NATO, mentre gli alti ufficiali hanno iniziato a prendere parte alle riunioni del Patto Atlantico. Soprattutto, Helsinki ha staccato ordini importanti per armamenti di produzione americana, tra cui, recentemente, missili Stinger e altri ordigni per quasi 400 milioni di dollari a fine novembre e, qualche mese prima, ben 64 caccia F-35 per un valore di oltre 9 miliardi.

La richiesta ufficiale di adesione era stata alla fine presentata il 18 maggio scorso assieme alla Svezia. Nel vertice NATO di Madrid il successivo 4 luglio i negoziati furono poi completati, ma la ratifica di tutti e 30 i membri sarebbe stata più difficoltosa. Per meglio dire, Turchia e Ungheria hanno ritardato fino a pochi giorni fa l’approvazione da parte dei rispettivi parlamenti, lasciando però per il momento in sospeso la candidatura della Svezia.

L’impulso alla militarizzazione e l’ingresso nella NATO sono dunque l’eredità tossica del governo uscente della premier Sanna Marin, autentica icona della finta sinistra occidentale. La coalizione guidata dal suo Partito Social Democratico ha riconosciuto la sconfitta nelle elezioni di domenica, anche se è stata in realtà determinante la flessione dei partner minori: i Verdi, l’Alleanza di Sinistra e il Partito di Centro. I socialdemocratici hanno infatti ottenuto tre seggi in più rispetto alla precedente tornata, ma sono stati superati sia dal Partito di Coalizione Nazionale conservatore sia dall’estrema destra dei Veri Finlandesi.

Il leader del Partito di Coalizione Nazionale, Petteri Orpo, proverà a mettere assieme una nuova maggioranza di governo, anche se un’eventuale accordo con il Partito Social Democratico o con i Veri Finlandesi non sarà comunque sufficiente. Almeno un altro partito dovrà essere convinto ad appoggiare l’esecutivo e tutta da verificare sarà l’eventuale disponibilità a far parte di una coalizione che potrebbe essere composta da un partito legato all’estremismo di destra.

Qualunque sia la composizione del futuro governo di Helsinki, i prossimi mesi vedranno il consolidamento della Finlandia come stato di frontiera NATO al servizio degli interessi americani. Nemmeno i Veri Finlandesi, a differenza di altri partiti dell’ultra-destra europea, auspicano un approccio più cauto alla crisi russo-ucraina, avendo da parte loro già espresso da tempo opinione favorevole all’ingresso nel Patto Atlantico. Sul fronte interno, un possibile governo guidato da Orpo opererà invece un netto ridimensionamento della spesa pubblica, come conferma l’impegno a tagliare circa sei miliardi di euro nei prossimi quattro anni.

L’uscita di scena di Sanna Marin, dimessasi mercoledì da segretario del suo partito, segna così una nuova imbarazzante sconfitta per quegli ambienti “liberal” occidentali che intendono costruirsi credenziali pseudo-progressiste attorno alle questioni di genere o ai temi ambientali, mostrando un disinteresse quasi totale per le questioni di classe e le crescenti disparità economiche che caratterizzano le società occidentali. L’altro elemento centrale è l’attitudine guerrafondaia e l’isteria anti-russa, che ha fatto appunto della premier finlandese uscente una delle voci più convinte nel sostenere il regime di Zelensky.

Una scelta di campo per l’ex neutrale Finlandia che potrebbe costare carissima in termini di sicurezza, ma non solo. L’ingresso nella NATO avrà infatti conseguenze negative anche in ambito economico. La perdita già consistente di un mercato importante per le esportazioni finlandesi, come quello russo, rischia di diventare definitiva, mentre resteranno un miraggio i possibili benefici derivanti dallo status di neutralità e da un approccio equilibrato alla crisi, simile a quello scelto finora dalla Turchia.

Come ha riassunto efficacemente in un post sul suo canale Telgram il docente russo di scienze politiche Dmitry Evstafiev, “l’inerzia delle politiche russofobe ha prevalso su tutte le considerazioni razionali” a Helsinki. La classe politica finlandese “ha a un certo punto creduto troppo nell’imminente collasso della Russia”, assecondando l’offensiva occidentale e scegliendo l’opzione NATO, fino a che “è diventato ormai tardi per [provare a] invertire la rotta”.

Fonte

28/08/2020

Finlandia - Deflazione salariale vs. riduzione dell'orario di lavoro

Il 19 agosto del 2019, in occasione del festeggiamento del 120° anniversario del Partito socialdemocratico finlandese (SPD), l’allora Ministra dei Trasporti Sanna Marin, avanzò la proposta di una settimana lavorativa di 4 giorni e 24 ore complessive.

“Credo che le persone meritino di trascorrere più tempo con le loro famiglie, i loro cari, gli hobby e altri aspetti della vita, come la cultura. Questo potrebbe essere il prossimo passo per noi nella vita lavorativa” – ha affermato la Ministra (helsinkitimes.fi).

A questa proposta, manco a dirlo, i conservatori del Partito della coalizione nazionale (NCP) hanno risposto che l’estensione dell’orario di lavoro (e non la sua riduzione), in questi ultimi anni si è dimostrata la misura più efficace per promuovere l’aumento dei posti di lavoro.

Secondo i dati resi noti dall’Istituto di ricerca sull’economia finlandese (Etla), dati sbattuti in faccia all’SPD da Arto Satonen dell’NCP, il “patto di competitività”, che ha introdotto un congelamento dei salari per il 2017, ha ridotto i salari dei dipendenti del settore pubblico, trasferito alcuni contributi previdenziali dai datori di lavoro ai dipendenti, e prolungato l’orario di lavoro annuale di 24 ore, senza compensi aggiuntivi, e ha creato 45.000 nuovi posti di lavoro.

Un altro aumento dell’orario di lavoro potrebbe creare tra gli 8.000-16.000 nuovi posti di lavoro entro il 2022.

Lo studio dell’Etla è stato commissionato dalle industrie tecnologiche finlandesi, dalla federazione dell’industria chimica finlandese e dalle industrie forestali finlandesi. I dati prodotti sono trasparenti.

Ma ciò che essi non dicono è che insieme a maggiori quantità di legno e prodotti dell’industria chimica la Finlandia ha esportato in tutta Europa e nel mondo deflazione salariale e disoccupazione, che i dati positivi bilanciano esattamente le perdite registrate da altri Stati in Europa e nel mondo.

Se volete sapere di più sull’esportazione della deflazione salariale da uno Stato all’altro dell’Europa vi consiglio il libro di Pasquale Cicalese, di prossima pubblicazione per le edizioni dell’Antidiplomatico.

In effetti nel 2017, dopo tre anni di recessione e un anno di crescita quasi nulla, il PIL finlandese è cresciuto nel 2016 del 2,8 e nel 2017 addirittura del 3,3%, salvo scendere, nel 2019, all’1,1%, segno che i diretti competitori avevano imparato la lezione e applicato la stessa ricetta finlandese.

In una competizione giocata con queste regole alla fine, a perderci, saranno tutti, lavoratori e imprese. Al contrario, scegliere di competere su una riduzione dell’orario di lavoro è una soluzione che vedrebbe tutti vincenti – o quasi.

Il 25 agosto scorso, Sanna Marin, nel frattempo diventata Prima Ministra e presidente dell’SPD, è tornata all’attacco. Ha confermato che la riduzione dell’orario di lavoro sarà uno degli obiettivi del suo mandato come Presidente dei socialdemocratici.

In un discorso programmatico tenuto lunedì scorso ai suoi compagni di partito ha ribadito che il governo deve creare una visione chiara e una tabella di marcia concreta per procedere verso giornate lavorative più brevi e una migliore vita lavorativa in Finlandia (helsinkitimes.fi).

“La riduzione dell’orario di lavoro”, ha dichiarato, “non è in conflitto con l’aumento dell’occupazione. Bisogna impegnarsi per aumentare la produttività del lavoro”.

Sanna Marin ha anche prodotto una serie di studi e dati che mostrano che la riduzione dell’orario di lavoro può migliorare la produttività, consentendo così ai datori di lavoro di pagare otto ore di salario per sei ore di lavoro.

Infine ha detto che la pandemia ha spinto molta gente a valutare veramente ciò che apprezza e considera significativo nella vita. “La salute, il benessere dei propri cari e l’importanza della vita quotidiana”, ha detto, “sono cose che non stimiamo abbastanza. Quando tutto ciò comincia a essere messo in pericolo, nasce il desiderio di cominciare a guardare alla nostre vite da un nuovo punto di vista”.

Sperando che la Finlandia riesca nel suo obiettivo di ridurre la giornata lavorativa, e diventare un faro per tutta l’Europa, mi sento di fare un piccolo appunto.

Anche in Italia, durante l’emergenza, si è discusso di riduzione dell’orario del lavoro. Spesso questa discussione si è intrecciata col tema dello Smart Working e dell’aumento della produttività (aumento vero o presunto) causato da questa forma inedita di organizzazione del lavoro.

È stato detto che l’aumento della produttività del lavoro non deve assolutamente trasformarsi in disoccupazione, e che l’unico modo per impedirlo è ridurre l’orario di lavoro.

Qui bisogna chiarire che, in prima battuta, la riduzione dell’orario deve essere messa in relazione diretta con l’aumento della produttività. Ma in secondo luogo, va messo in evidenza come una maggiore produttività significa, per le imprese, una minore capacità di valorizzare il capitale.

L’idea che il capitalismo possa funzionare in modo automatico, ovvero senza lavoro, è un’idea farlocca. La riduzione del lavoro è un sintomo del malessere del capitalismo.

Fonte