Un punto di vista non usuale sulla "guerra monetaria" che si va
addensando all'orizzonte, da parte di un membro della segreteria del
Partito Comunista del Canton Ticino.
A partire dal 1971, con l’annullamento degli accordi di
Bretton Woods del 1945 e la conseguente sottoscrizione del cosiddetto
Smithsonian Agreement, il panorama monetario è profondamente cambiato.
Venne infatti determinato il passaggio dal Gold Exchange Standard –
sistema nel quale il solo dollaro era convertibile in oro, al prezzo
fisso di 35 dollari l’oncia, mentre tutte le altre valute erano a loro
volta convertibili in dollari – all’attuale Dollar Standard, sistema
monetario che ha invece al suo centro la sola valuta a stelle e strisce.
Attraverso questo epocale passaggio si è eliminato qualsiasi
riferimento aureo della moneta e quindi il valore intrinseco che essa
rappresentava, dando così il via libera a una mastodontica produzione di
capitale fittizio, ovvero il derivante da un processo improduttivo di
ricchezza. È importante ricordare che il capitale fittizio non nasce in
questo particolare momento storico, in quanto è presente sin dai primi
momenti di affermazione del sistema proto-capitalistico e non a caso
venne già analizzato da Karl Marx e Friedrich Engels
nel terzo libro de “Il Capitale” nel 1894. Nella storia non ha però
certamente mai potuto trovare un terreno fertile come quello servitogli
negli ultimi quarant’anni dall’evoluzione del sistema capitalistico, e
in particolar modo dal concretizzarsi del corrente periodo monetario.
Non avendo più un reale valore, la moneta – e in particolar modo la
valuta internazionale di riferimento, che nel caso della storia recente è
il dollaro – può essere facilmente stampata, a patto che essa possa
venire scambiata all’estero in cambio di beni derivanti da un processo
realmente produttivo della ricchezza, e pertanto internazionalizzata.
Il
vigente sistema occidentale, che potremmo chiamare capitalismo
finanziario di stato, si fonda appunto sulla capacità del dollaro, e in
seconda battuta pure dell’euro e di altre valute, di essere accettato
dalle economie estere. Proprio per questo motivo un default degli Stati
Uniti – i quali sono attualmente alle prese con un pressante problema di
superamento del tetto del debito, dietro al quale non ci sono soltanto
considerazioni meramente economico-matematiche ma anche e soprattutto
politiche e geostrategiche – non potrà avvenire come diretta conseguenza
di calcoli numerici, in quanto la Federal Reserve (Fed) ha la
possibilità di stampare valuta illimitatamente, ma solo e soltanto senza
rifiuto di terzi di accettare quella che oggettivamente potrebbe anche
essere considerata come carta straccia. Nella storia recente di questi
rifiuti se ne sono visti – giusto a ricordare che non è certo una
qualsivoglia legge divina a determinare il fatto che al centro del
sistema monetario ci debba essere solo e soltanto il dollaro, anche
perché come abbiamo visto, in passato sono stati espressi sistemi
monetari profondamente diversi (dal bimetallismo al Gold Standard) – e
gli USA sono stati in grado di contrastarli con la forza militare,
mettendo in gioco la teoria del binomio nave-moneta, coniata nel 1901
dall’ammiraglio della flotta britannica Lord Selborn. Esempio in questo senso è l’attacco all’Iraq nel 2003, conseguente al fatto che Saddam Hussein
aveva minacciato di vendere il petrolio in euro, creando grande
apprensione nella classe dirigente degli Stati Uniti, che non avrebbe
più potuto garantirsi il privilegio di produrre moneta liberamente.
Dalla fine del 2007, con la crisi – che è soprattutto statunitense e
del capitale fittizio, e soltanto di riflesso di Eurolandia, la quale
vive comunque problematiche legate alla struttura contraddittoria della
moneta unica e dell’Unione Europea – è però aumentato il numero di
coloro che hanno cominciato a rifiutare il dollaro. In primis vi è la
Cina, attualmente ancora il principale acquirente estero dei titoli di
debito provenienti dagli Stati Uniti, la quale si rifiutò di contribuire
al finanziamento di Fannie Mae e Freddie Mac, le due imprese
parastatali figlie del New Deal e fatte a immagine e somiglianza
dell’Opera Nazionale Combattenti del fascismo italiano, le quali sono
attive nel mercato dei crediti ipotecari e quindi alla base della crisi
dei subprime da cui partì l’inferno che si sta riversando ora
sull’Occidente. Evidentemente un attacco militare ai danni della Cina
non sarebbe paragonabile a quanto fatto in Iraq. A ciò va aggiunto il
fatto che, parallelamente ad un progredire delle difficoltà del paese
detentore della valuta internazionale di riferimento a mantenere
l’internazionalizzazione della proprie moneta, vi è la crescente
complicazione nel trovare i finanziamenti per mantenere completamente
operante l’esercito, ovvero il garante ultimo della penetrazione
economica all’estero. A confermare ciò, c’è ad esempio il fatto che
attualmente gli USA stanno facendo pressione sulle ex repubbliche
sovietiche asiatiche, per fare in modo che queste acquistino parte
dell’armamentario della US Army utilizzato attualmente in Afghanistan.
Ecco quindi che il dialettico rapporto che intercorre tra la forza
economica e quella militare viene messo in crisi, riducendo la forza
imperialistica statunitense.
La crisi sistemica che sta colpendo
l’attuale regime capitalistico, vede quindi il dollaro pian piano – ma
non troppo – abbandonare il suo comodo posto sul trono imperiale,
ponendolo nelle condizioni di dover scontare una grave svalutazione, la
quale potrebbe anche essere preventivamente adottata dagli Stati Uniti
stessi. Un simile scenario sarebbe da considerare come un attacco alla
Cina e agli altri paesi dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India,
Cina e Sud Africa), ed è attuabile con un ritorno ad una base aurea del
sistema monetario, tema discusso durante la campagna elettorale
statunitense e portato avanti dal repubblicano Mitt Romney, ma certamente non così facilmente archiviabile con la semplice rielezione di Barack Obama. Di questo tema ho approfondito i particolari in un recente articolo (“Dal Gold Standard al salvataggio di UBS e Credit Suisse“,
pubblicato dal Corriere del Ticino in una sua versione ridotta e in due
distinte parti, venerdì 2 e sabato 3 novembre 2012; pubblicato
integralmente da Sinistra.ch
il 4 novembre 2012), nel quale si prende in considerazione la
possibilità che un’eventuale iper-svalutazione del dollaro possa di
riflesso portare a un’enorme rivalutazione del franco svizzero, mettendo
in ginocchio le principali banche del Paese, le quali, possedendo molti
dollari – o effettivi direttamente commutabili in essi –
necessiterebbero di un massiccio salvataggio con soldi pubblici. Sempre
partendo dalla considerazione di una possibile svalutazione del dollaro,
occorre ragionare su quali sono le possibilità per la Svizzera di
mantenere la propria autonomia monetaria, nel caso in cui la fuga del
dollaro dovesse realmente tramutarsi in pericoloso apprezzamento del
franco.
Con il proseguo di questa crisi di sovrapproduzione
del capitale fittizio, ogni giorno che passa il dollaro riduce
sempre più il suo valore, a causa dell’immissione continua di ingente
massa monetaria, resasi più che mai indispensabile per far fronte a un
economia che dal 2008 ha un auto consumo della moneta stampata dalla Fed
almeno del 61%. Che una forte svalutazione del dollaro proseguirà nel
corso dell’attuale contesto internazionale non è quindi in discussione,
anche perché la Fed ha recentemente dichiarato esplicitamente – per la
prima volta – che un po’ di deflazione potrebbe essere un bene per gli
Stati Uniti. La scommessa quindi è riuscire a capire quali siano le
tempistiche con le quali la valuta statunitense arriverà a valori tali
da creare un peggioramento della crisi che stiamo vivendo.
Verosimilmente gli scenari possibili dovrebbero essere due. La prima
ipotesi è una svalutazione continua e tutto sommato regolare, la quale
potrebbe procrastinarsi per qualche anno. In un simile contesto ci
sarebbe la possibilità di passare progressivamente a una situazione,
fortemente voluta dalla Cina, che veda al centro del sistema monetario
internazionale un paniere di monete, con il quale si potrebbe portare un
po’ più di stabilità a medio termine. La condizione base per una simile
situazione è l’accettazione da parte degli USA del fatto che dovranno
man mano abbandonare il ruolo di prima potenza mondiale, ma considerando
come si sono svolti i precedenti passaggi da un detentore di una valuta
internazionale di riferimento a un altro – in particolar modo va
considerato l’estremo tentativo della Gran Bretagna di mantenere il
controllo sull’economia mondiale con il blocco di tutti i pagamenti, che
portò a una settimana di cosiddetta vacanza bancaria nell’agosto 1914 e
poi allo scoppio della prima Guerra Mondiale – e osservando come gli
USA hanno sino ad ora affrontato questi anni particolarmente difficili
per il loro Impero (il riferimento è alla guerra economica con la Cina,
partita esplicitamente con il pilotato fallimento della Lehman
Brothers), non è da escludere un’ipotesi più drastica. Questo scenario
si collega al fatto che gli Stati Uniti potrebbero voler preventivamente
attuare una rapida svalutazione del dollaro – la quale potrebbe essere
attuata da qui a qualche mese – con la quale metterebbero,
nell’immediato, in grossa difficoltà la Cina e tutti i grandi detentori
di dollari, che si dovrebbero confrontare con un’enorme diminuzione
delle proprie ricchezze. La possibilità di questa svalutazione, come
detto in apertura del presente articolo, è data dal ritorno a un tallone
aureo della moneta.
Prendendo in analisi questa seconda e più
dolorosa opzione, i risvolti sarebbero fortissimi anche in Svizzera, la
quale si troverebbe letteralmente bombardata dalle valanghe di dollari –
ormai privi di valore – provenienti dai facoltosi statunitensi e in
particolar modo dalla Cina, i quali cercherebbero di sostituire le
banconote verdi con una valuta ritenuta più sicura come il franco, che
peraltro ha anche una discreta copertura aurea (1040 tonnellate, la
settima più estesa del mondo in termini assoluti). Un paese piccolo come
la Svizzera non sarebbe evidentemente in grado di reggere il
contraccolpo di un tale riversamento di moneta verso le nostre banche,
facendo valutare il franco tanto da non poterne calcolare la reale
entità. La recente rivalutazione della nostra moneta nei confronti
dell’euro, che ha portato alla decisione della Banca Nazionale Svizzera
(BNS) di fissar un cambio minimo con la valuta europea, è di un peso
quasi nullo rispetto a quanto potrebbe accadere con lo scenario
considerato. Inoltre va detto che il nostro legame con l’euro potrebbe
diventare una doppia mannaia, perché oltre al problema del bombardamento
di dollari, dovremmo continuare a far fronte all’ingente acquisto della
divisa europea, anch’essa soggetta a una deriva deflazionista. Se da un
anno a questa parte la posizione del franco preoccupa alcuni soggetti
economici, politici e sindacali in termini di difficoltà
nell’esportazione, un possibile bombardamento di dollari renderebbe
questo esercizio impossibile, con evidenti ripercussioni sulla vita
economica, sociale e politica della Confederazione.
Probabilmente nessuno è interessato a tornare a una situazione analoga a
quella che si presentava prima degli importanti sviluppi del
Dopoguerra, ovvero un’economia prevalentemente basata sull’agricoltura e
una Svizzera che concedeva poco più di fame e fatica, spingendo molte
persone ad emigrare. Un simile quadro rischierebbe inoltre di scadere
abbastanza facilmente nella costruzione di una società tendenzialmente
autarchica, per la quale in Svizzera non ci sono basi concrete, con
derive repressive. Considerando ciò preoccupa la mobilitazione generale
dimostrativa dell’esercito del 5 dicembre (con tanto di fittizia
reintroduzione della legge marziale, comprendente – tra le altre
nefandezze – la pena di morte), la quale è ufficialmente fatta per
mostrare le presunte grandi forze del nostro esercito, da sfoderare nel
caso cui l’immigrazione e i sommovimenti sociali dei paesi europei,
derivanti dalla crisi, richiedessero l’intervento dei nostri militi. È
però ipotizzabile che i nostri uomini in grigioverde si preparino a
mobilitarsi contro il loro stesso popolo, qualora questo dovesseintraprendere importanti proteste causate dalla nostra declinante
situazione. Questo è del resto quello che sempre l’esercito svizzero ha
fatto quando è stato chiamato in causa: lo insegnano la repressione nel
sangue dello sciopero generale a Zurigo e Ginevra nel 1918 (a cui fece
tra l’altro seguito la pace del lavoro, che – visto il contesto
d’attuazione – ricorda molto le modalità della pax romana) e, sempre a Ginevra, sulla grande manifestazione antifascista del 1932, guidata da Léon Nicole (leggi articolo su Sinistra.ch).
L’emigrazione non sarebbe inoltre più questa volta rivolta agli Stati
Uniti, vero centro di questa crisi sistemica, ma verosimilmente dovremmo
andare a cercare lavoro nei paesi emergenti dell’Asia e dell’Africa,
senza dimenticare che questo comporterebbe un esercizio psicologico e
culturale non indifferente, visto che ci toccherebbe bussare alla porta
di coloro che – fino a ieri – sono stati colonizzati, schiavizzati,
sfruttati e purtroppo anche uccisi dalle necessità imperialistiche
nostre e dal resto dell’Occidente. A qualcuno potrà sembrare strano
questo capovolgimento dei rapporti di forza economici e geopolitici
internazionali, per cui vale la pena far presente che in Angola – ex
colonia portoghese – si stanno costruendo città, con il contributo
attivo cinese, volte proprio ad accogliere sia i figli degli angolani
emigrati nel secolo scorso, sia portoghesi alla ricerca di una vita che
il Vecchio Continente non è più in grado di offrire, soprattutto in quei
paesi mediterranei piegati dalla crisi internazionale.
Proprio
perché di volontari per questo esercizio in Svizzera non se ne
troveranno facilmente – anche considerando che noi non stiamo ancora
subendo le gravi conseguenze della crisi, ma ingenuamente non ci stiamo
accorgendo che il pavimento della torre d’avorio in cui viviamo ci sta
scappando da sotto i piedi – per cui è verosimile che la nostra classe
dirigente proponga un’alternativa che sul breve termine è certamente più
rosea: l’entrata nell’euro. Il già citato bombardamento di dollari non
risparmierà certo l’Eurozona, ma questa, essendo più grande della
Svizzera e quindi dell’area d’incidenza del franco, ha una maggiore
resistenza nei confronti di un afflusso rapido e ingente di massa
monetaria. In questo senso un’adesione all’euro permetterebbe di
renderci meno attrattivi nei confronti del riversamento di dollari, e ci
darebbe la possibilità di spalmare lo stesso su un’area economica molto
più grande. La differenza che intercorre tra l’essere o non essere
nell’Eurozona nel momento del bombardamento, è come quella di trovarsi
dentro o fuori le mura del castello durante l’assedio di un esercito
nemico: da una parte c’è una possibilità di sopravvivere, dall’altra
morte certa.
Non è comunque un mistero che l’adesione all’Euro
si tramuterebbe, per la Svizzera, nella totale perdita di autonomia
sulla politica monetaria e una conseguente sottomissione della BNS al
dictat della Banca Centrale Europea (BCE). In fin dei conti però la
nostra sarebbe una mera adesione de jure all’euro, in quanto de facto
ci siamo già entrati, come ho già cercato di spiegare in un articolo di
critica alla politica della fissazione di un cambio minimo portata
avanti dalla BNS (“La Svizzera entra nell’euro“, pubblicato dal Corriere del Ticino nel novembre 2011 e da Sinistra.ch).
Con l’introduzione di un cambio minimo, la Svizzera ha ufficiosamente
già aderito ai trattati di Maastricht del 1992, nei quali venne
dichiarato che l’euro è una valuta fondata sulla fissazione del cambio
tra l’euro stesso e le varie valute nazionali. Di conseguenza si capisce
che l’avere o meno l’euro realmente tra le mani è una convenzione di
comodità commerciale non indispensabile, utile semplicemente a
velocizzare gli scambi intraeuropei. Proprio a causa della situazione
corrente in cui ci ha portato la BNS, la Svizzera subisce già la diretta
influenza della BCE e la nostra banca nazionale ne è già praticamente
diventata una succursale. In quest’ottica un’adesione all’euro non
porterebbe grandi cambiamenti negativi, se non una grandissima
difficoltà nel fare poi un passo indietro per riacquistare la totale
indipendenza politica, economica e soprattutto monetaria. La mia
visione, così come quella di tutto il movimento comunista ticinese, non è
certo quella di particolare simpatia nei confronti dell’Unione Europea e
tanto meno di apertura verso un’adesione del franco all’euro, la quale
sarebbe però oggettivamente una situazione migliore rispetto a quella
più catastrofica precedentemente descritta.
Esiste ad ogni modo
una terza via, che quasi sicuramente non sarà nemmeno presa in
considerazione dai nostri governanti: l’inconvertibilità della moneta.
Questa è una misura mai adottata nella storia recente dell’economia
Occidentale, e quindi non propriamente confacente alla formazione di
coloro che oggi si occupano di studiare e dirigere politicamente ed
economicamente il Paese, ma non per questo priva di valore, anzi.
L’inconvertibilità della moneta permetterebbe di avere una totale
indipendenza sulla sovranità monetaria, consentendo di dirigere
politicamente le scelte strategiche che si potrebbero adottare
all’interno di un simile schema. Conditio sine qua non per concretizzare
l’inconvertibilità della moneta, sarebbe idealmente l’adozione del
monopolio statale del mercato con l’estero, ma sarebbe comunque
possibile mantenere delle fette di mercato in mano ai privati, entro
però determinati piani di sviluppo economici, i quali andrebbero
preparati dall’intellighenzia economica sotto la supervisione del
Consiglio Federale, e successivamente ratificati dalle Camere federali.
Con ogni probabilità l’attuale classe dirigente elvetica farebbe fatica
a gestire una simile situazione, non avendola mai né studiata né tanto
meno presa in considerazione, a differenza invece dei comunisti, che
hanno interiorizzato queste opzioni sull’esperienza sovietica e in
particolar modo quella attualmente presente in Cina. Visto però i
possibili sviluppi della crisi sistemica in corso, o entriamo nell’euro,
oppure i soliti noti farebbero bene a tornare a studiare.
Mattia Tagliaferri, Dipartimento di Politica nazionale del Partito Comunista
Fonte
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