di Antonio Tricarico, pubblicato su Il Manifesto del 9 gennaio 2013
Mentre il dibattito elettorale nostrano non approfondisce affatto la questione del debito pubblico, dando quasi per assodato che uno spread più
docile rispetto ai Bund tedeschi sia sostenibile – si tratterebbe
“soltanto” di 50 miliardi di Euro da pagare in interessi ogni anno nel
lungo periodo – all’estero la questione della risoluzione del debito
pubblico degli Stati sovrani domina l’agenda politica.
Negli Usa si è schivato il cosiddetto baratro fiscale con un accordo di austerità all’europea.
Ovvero più tasse per ricchi e fasce medie e tagli lineari alla spesa in
ogni caso, fattori che potrebbe rallentare la ripresina dell’economia a
stelle e strisce. Ma oltre Oceano il vero tema rimane il tetto massimo
possibile per il debito pubblico, su cui il Congresso dovrebbe
deliberare entro marzo.
Per aggirare i veti dei repubblicani il Tesoro Usa potrebbe usare una
vecchia clausola costituzionale che permetterebbe di coniare “monetone”
in platino per alcuni trilioni di dollari e così finanziare la spesa
pubblica. Storie da Paperone e banda bassotti, a quanto pare prese sul
serio da commentatori e think tank vicini ai democratici.
Ancora più realistico sembra il dibattito che è rinato nel
Fondo monetario internazionale sulla necessità di creare un meccanismo
per la ristrutturazione del debito sovrano – in acronimo Sdrm. Nel 2002, in seguito al drammatico default dell’Argentina, il vice direttore del Fondo Anne Krueger propose la creazione di questo nuovo meccanismo di arbitrato.
Uno strumento che avrebbe dato potere al singolo paese
insolvente di azionare unilateralmente una clausola di moratoria e
convocare un tavolo paritario con tutti i creditori, pubblici e privati,
per rinegoziare il debito. Allo stesso tempo, lo Stato in difficoltà
avrebbe potuto continuare a beneficiare dell’accesso al credito dalle
istituzioni internazionali.
Di fatto tale meccanismo, seppur ancora sbilanciato e criticabile
nella versione proposta dall’Fmi, avrebbe creato un diritto pubblico
fallimentare internazionale, che oggi manca. Il tutto sulla base del
modello del famoso “capitolo 11” del diritto fallimentare statunitense,
che prevede già un meccanismo di bancarotta ordinata per gli enti locali
nell’ambito del sistema federale.
La recente crisi in Grecia, l’esperienza virtuosa islandese
di rinegoziazione sostenuta dallo stesso Fmi e il risorgere del problema
del debito argentino con i creditori privati (dopo che fondi
avvoltoi si sono ripresentati a distanza di 10 anni per richiedere un
pagamento del debito pregresso e già ristrutturato) hanno mostrato che
la bocciatura dell’Sdrm nel 2002 in seguito alle pressioni delle banche
americane e del veto di Bush va riconsiderata.
In particolare, le “clausole di azione collettive” inserite nei
contratti di acquisto dei titoli di Stato non sono state sempre
sufficienti a garantire l’attuazione del negoziato di ristrutturazione
per tutti i creditori, anche quelli dissenzienti seppur in minoranza.
Rispetto a dieci anni fa sono cambiati anche gli equilibri
geopolitici a livello globale e forse vedremo nuove dinamiche,
soprattutto perché la crisi europea è ben lontana dall’essere risolta.
Un tema che forse i paesi del Sud Europa dovrebbero da subito fare
loro, imparando da chi nel Sud globale ha avuto il coraggio di sfidare
il diktat del pagamento del debito.
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