Per capire quale sia la reale vicinanza di questo Governo alle sorti dei lavoratori basta guardare alla vicenda dei riders, riempiti di promesse dal neoministro del lavoro e dello sviluppo economico Luigi Di Maio a poche ore dal suo insediamento e poi rapidamente abbandonati a se stessi nella giungla della precarietà. Per intenderci, i riders sono i lavoratori (attualmente circa 10mila in Italia) che, in bicicletta, si occupano della consegna dei cibi a domicilio. Questi non sono direttamente alle dipendenze dei ristoranti, ma lavorano per conto di grandi imprese che hanno fatto delle consegne a domicilio il loro business. Il meccanismo è piuttosto semplice: il fattorino ritira il cibo al ristorante e lo consegna presso il domicilio di chi l’ha ordinato; per questo servizio, il ristorante paga un corrispettivo alla ditta che gestisce la consegna (e nessuno vieta al ristoratore di caricare il costo della consegna sul prezzo finale imposto al cliente); la ditta delle consegne paga il fattorino per il lavoro effettuato.
Questo tipo di mansioni si inserisce all’interno di quella che viene definita “gig economy”. Dal lato dei lavoratori si tratta, in linea di principio, di tutte quelle attività che vengono spesso effettuate in modo saltuario per integrare il proprio reddito, senza specifici contratti e sotto forma di lavoro autonomo. Se da un lato i candidati “naturali” a svolgere questi pseudo-lavori sarebbero soggetti quali giovani studenti che vogliono mantenersi agli studi, una decade di crisi e disoccupazione galoppante ha catturato in questa rete anche adulti che, in mancanza di meglio, sono costretti a preferire l’iper-precarietà della “gig economy” al niente della disoccupazione e dell’assenza di reddito.
Si potrebbe obiettare che questi lavoretti sono sempre esistiti (le ripetizioni private, le baby-sitter, etc.). Tuttavia, queste attività stanno prendendo una connotazione ben diversa, perché organizzate su base sistematica e non occasionale e gestite da imprese che operano principalmente tramite piattaforme on-line (Uber, che fa della tua auto un taxi, o Airbnb, che fa della tua casa un albergo, etc.). Tecnologia al servizio dello sfruttamento dei lavoratori: spesso si tratta infatti di modelli di business fondati su paghe da fame e sull’abbattimento dei costi previdenziali, assicurativi e di sicurezza sul lavoro. Con il paradosso che questi lavoratori autonomi non hanno in realtà alcuna autonomia organizzativa, dal momento che il business ruota attorno alle piattaforme on-line gestite da pochi giganti del settore.
Proprio in virtù della saltuarietà dei rapporti di lavoro, non è facile stimare quanti lavoratori siano coinvolti nella gig economy. Il dato che meglio approssima il fenomeno è quello fornito dell’Istat sul “lavoro accessorio”, ovvero tutte quelle mansioni retribuite tramite voucher: i lavoratori coinvolti erano meno di 100.000 nel 2010, passati a 215.000 nel 2011 e giunti addirittura ad 1 milione e 800.000 nel 2016.
Tornando ai riders, fulgido esempio dello sfruttamento ai tempi delle app, la loro questione è recentemente tornata alla ribalta dopo mesi di silenzio: il prossimo tavolo di confronto tra Governo, rappresentanti sindacali dei ciclo-fattorini e responsabili delle piattaforme di consegna a domicilio del cibo (Foodora, Deliveroo e compagnia cantante) è previsto per domani, 7 novembre 2018. Si tratta dell’ennesimo capitolo di una querelle che va avanti da tempo: i fattorini chiedono maggiori tutele in termini di condizioni e sicurezza sul lavoro, in primis l’eliminazione del lavoro a cottimo (spesso vengono pagati in base al numero delle consegne) e l’ottenimento di una paga oraria, oltre alla copertura previdenziale e assicurativa per eventuali infortuni sul lavoro. Il cottimo costringe il fattorino ad intensificare le consegne oltre ogni limite, trasformando quello che doveva essere un lavoretto in lavoro usurante e mettendo a rischio la sicurezza di chi sfreccia ogni giorno nel traffico delle grandi metropoli. La richiesta dei lavoratori è precisa: vogliono essere riconosciuti come subordinati, ipotesi che le aziende non intendono considerare.
Andiamo con ordine e proviamo a ricostruire le tappe di una vicenda che, come vedremo, fa emergere con chiarezza tutta l’ipocrisia del Governo sul tema del lavoro, oltre che le specificità dell’attuale assetto istituzionale che finisce sistematicamente per favorire le esigenze del capitale rispetto a quelle dei lavoratori. La campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è stata contrassegnata da vari leitmotiv, tra i quali la lotta al lavoro instabile e non tutelato. Nei primi mesi di insediamento del nuovo esecutivo, lo stesso Di Maio, che ha solennemente dichiarato guerra al precariato, ha deciso di confrontarsi con i riders: al primo incontro del suo mandato, li ha definiti il “simbolo di una generazione abbandonata”. Dall’incontro con i rappresentanti sindacali dei lavoratori del food delivery affiorano tante belle parole, sintetizzabili in una apparentemente manifesta volontà del governo di riconoscere maggiori tutele ai ciclo-fattorini: Di Maio sembra intenzionato addirittura ad inserire il caso dei riders all’interno del “Decreto Dignità”, che sarà emanato a luglio.
Qualcosa, però, va storto. A dire la verità, qualche segnale di timidezza c’era già stato: in quell’incontro di giugno, facendo attenzione alle parole esatte a latere dei proclami propagandistici, Di Maio aveva detto che sarebbe stato compito del Governo quello di favorire “il confronto tra grandi gruppi internazionali e magari ragazzi di vent’anni o trent’anni che lavorano ogni giorno e chiedono diritti minimi”. In altre parole, Di Maio stava già facendo i conti con le possibili reticenze dei datori di lavoro: Foodora & company non avrebbero certamente visto di buon occhio un benché minimo provvedimento del Governo a favore dei riders, sul cui lavoro fanno profitto senza essere neanche disposti a riconoscere lo status di subordinati. Tant’è che il 18 giugno, proprio presso il Ministero del Lavoro, si è svolto un altro incontro sul tema, che stavolta ha però coinvolto Di Maio e i rappresentanti delle principali aziende che impiegano i ciclo-fattorini per le consegne a domicilio (nella fattispecie, Foodora, Deliveroo, JustEat, Glovo e Domino’s Pizza). Circola, nel frattempo, la prima bozza di un eventuale provvedimento sul tema. Si arriva, tra queste voci, al 3 luglio, data per cui è previsto un tavolo di concertazione che coinvolga tutte le parti in gioco: dalle grandi multinazionali a quelle emergenti, insieme a tutte le organizzazioni sindacali e alle nuove forme di rappresentanza di categoria. Quel tavolo, tuttavia, partorisce un radicale cambio di rotta: non più l’inserimento della questione dei riders all’interno Decreto Dignità, ma l’annuncio da parte di Di Maio della necessità di raggiungere un accordo tra parti sociali che avrebbe portato a qualcosa di ‘avveniristico’, ossia al primo contratto nazionale di settore d’Europa. Di Maio, a parole, sembra rilanciare in favore dei ciclo-fattorini: in realtà, nessun provvedimento viene al momento adottato. Da cosa nasce questo dietrofront? Perché la questione dei riders non può essere affrontata subito nel Decreto Dignità, ma viene di fatto rimandata a data da destinarsi? Alle multinazionali, quel disegno di legge non era ovviamente piaciuto: le multinazionali del food delivery che si erano sedute al tavolo del 18 giugno, quei giganti internazionali a cui Di Maio faceva riferimento mentre sviolinava proclami a favore dei riders, stavano iniziando a borbottare all’unisono. A testimonianza del malumore delle aziende potenzialmente coinvolte, il più scontento tra gli operatori, Foodora, arriva addirittura a paventare pubblicamente l’abbandono del mercato italiano qualora si fosse dato seguito alla bozza di testo legislativo (proprio Foodora, che era già stata coinvolta nel contenzioso che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei riders e che è stata recentemente acquistata da un altro gigante del settore, la spagnola Glovo). Di Maio riconosce pubblicamente, tramite la sua pagina Facebook, che “il managing director di Foodora Italia ha criticato alcuni punti della bozza del Decreto Dignità che riguarda proprio i riders”. In realtà, le piattaforme di food delivery stavano ben più minacciosamente dichiarando di essere disposte a lasciare l’Italia qualora fossero state attuate quelle misure a favore dei riders: in un’intervista al Corriere della Sera, il CEO di Foodora ha dichiarato, senza mezzi termini, che “se fossero vere le anticipazioni del Decreto Dignità che il ministro Di Maio ha fornito alle delegazioni di riders incontrate, dovrei concludere che il nuovo governo ha un solo obiettivo: fare in modo che le piattaforme digitali lascino l’Italia”.
Ecco spiegato il voltafaccia del Governo: nessun obbligo di assunzione per i ciclo-fattorini nel ‘Decreto Dignità’, bensì l’avvio della ‘strada della concertazione’ tra le parti. In altri termini, nessun provvedimento, fatta eccezione per una carta dei valori (nemmeno firmata da tutti gli operatori) che non ha alcun valore legale e si limita ad elencare alcuni possibili paletti entro cui potrà muoversi l’eventuale contrattualizzazione. Come se non bastasse l’arrendevolezza dei 5 Stelle, nella vicenda si inserisce la Lega, che sostiene di star lavorando ad una specifica normativa regionale sul tema e non gradisce che la materia diventi di competenza nazionale. La Lega, che sta cercando di portare avanti un blando provvedimento ad hoc attuabile per la regione Lombardia, si avvale addirittura di un giuslavorista per esprimere la propria posizione sul tema. L’avvocato Rotondi, consulente giuridico della Lega, asserisce: “Va tenuto fuori da questo ambito ciò che è previdenziale, altrimenti il business delle aziende non regge più. Questo non è un lavoro che può portarti alla pensione e che può essere incasellato nella classica distinzione tra autonomi e subordinati. Se si vogliono mantenere questi lavoretti, non si può aumentare troppo il costo del lavoro”. Parole sfacciate che, ancora una volta, ci permettono di capire chiaramente il posizionamento di classe della Lega, sempre e solo agli ordini del padrun.
In questo quadro desolante per i riders, ha luogo un altro incontro l’11 settembre 2018, che finisce con la promessa di rivedersi da lì a fine mese. Tuttavia, nessuna convocazione a stretto giro: ennesimo tavolo fissato per il 7 novembre, con i ciclo-fattorini sul piede di guerra: il soggetto politico che li aveva, a parole, presi in considerazione durante la campagna elettorale ed i primi mesi di mandato, ha di fatto voltato loro le spalle di fronte ai primi strepiti del grande capitale internazionale, a cui è bastato paventare la possibilità di lasciare l’Italia.
Questa vicenda, che verosimilmente si concluderà con un nulla di fatto, ci permette di giungere a due considerazioni. In primis, riscontriamo che ancora una volta il Movimento 5 Stelle si è limitato a fare propaganda sulla pelle dei più fragili. La strategia è ormai consolidata: quando si tratta di difendere i lavoratori, lo stato sociale, l’ambiente, i diritti, prima si promette (e si prova a capitalizzare il consenso), poi non si agisce di conseguenza. Questa non è che l’ennesima testimonianza della nulla volontà politica di agire a favore della collettività, soppiantata dalla propensione a piegarsi alle prime lamentele del nemico di classe.
In secondo luogo, la saga dei riders è la riprova di quanto siano attualmente sbilanciati i rapporti di forza tra capitale e lavoro: sotto la minaccia di abbandonare l’Italia con il loro business, le multinazionali delle consegne a domicilio hanno stoppato sul nascere anche la minima richiesta di considerazione da parte dei fattorini che attualmente sgobbano con paghe da fame e tutele praticamente azzerate.
Se il primo punto non fa altro che confermare quanto ormai dovrebbe risultare chiaro, ossia che il Governo penta-leghista non rappresenta in alcun modo una possibilità emancipativa per le classi subalterne, il secondo punto ci impone un’ulteriore riflessione sulle ragioni dell’attuale squilibrio nei rapporti sociali. Come insegna la vicenda dei riders, a tale sbilanciamento concorre con forza la possibilità del capitale di spostarsi agevolmente oltre le frontiere di un Paese, al fine di stabilirsi laddove le condizioni di contesto favoriscano la realizzazione del profitto. È la libertà assoluta di movimento dei capitali, uno dei principi su cui è stata fondata l’Unione Europea, che fornisce alle imprese l’arma di ricatto più affilata per piegare le aspirazioni a un salario dignitoso e al riconoscimento dei diritti basilari dei lavoratori: come dimostra Foodora, anche solo la minaccia di chiudere i battenti rappresenta una formidabile freccia all’arco del capitale nella lotta per la distribuzione del reddito.
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