di Chiara Cruciati - il Manifesto
Il fantasma di Khashoggi aleggia sulla testa di Mohammed bin Salman e spacca i repubblicani Usa.
Dopo la sospensione della vendita di armi all’Arabia Saudita da parte
di Germania, Danimarca, Olanda e Finlandia a seguito del brutale
omicidio del giornalista dissidente nel consolato saudita di Istanbul,
anche l’alleanza con gli Stati Uniti rischia. Non tanto quella ribadita
pochi giorni fa dal presidente Trump (omicidio o no, ha detto, i legami
con Riyadh non sono in dubbio), ma quella del Congresso.
A sfidarla ieri è stato il Senato, chiamato a votare una
proposta dei senatori Bernie Sanders e Mike Lee per l’interruzione del
sostegno Usa alla campagna contro lo Yemen, «fiore
all’occhiello» del bellicismo Saud. E stavolta, a differenza dello
scorso marzo quando la proposta fu bocciata con 55 no e 44 sì, la
mozione per votare il ruolo Usa nella guerra è passata. Con senatori sia
democratici che repubblicani – che otto mesi fa votarono contro lo stop
della fornitura di intelligence e logistica all’esercito saudita – che
hanno cambiato idea, il voto si è concluso 63 a 37 a favore
della proposta di Sanders. Khashoggi fa miracoli, a differenza dei
50mila morti yemeniti degli ultimi tre anni e mezzo.
Ieri il segretario di Stato Pompeo e quello alla Difesa Mattis hanno
avviato il dibattito in aula, a porte chiuse, senza servizi segreti:
esclusi la direttrice della Cia Gina Haspel (mandata un mese fa a
Istanbul per incontrare gli investigatori turchi) e il direttore della
National Intelligence Dan Coats. La Casa bianca nega di averli lasciati
fuori dalla porta, ma il dubbio ai senatori è venuto e alcuni di loro
hanno pubblicamente protestato per l’assenza: è stata la Cia a
dirsi certa, prove alla mano, del ruolo di mandante del principe
ereditario Mohammed bin Salman nel delitto Khashoggi.
L’amministrazione Trump sta facendo pressioni sui senatori
repubblicani perché sostengano la politica Usa in Medio Oriente, che ha
in Riyadh una delle sue colonne: «Ridurre di grado i rapporti
tra Usa e sauditi sarebbe un grave errore per la sicurezza nazionale
nostra e degli alleati», aveva scritto Pompeo sul Wall Street Journal alla vigilia della riunione a porte chiuse.
Ieri, invece, ha tirato in ballo il solito capro espiatorio, l’Iran:
«Se gli Usa non fossero coinvolti in Yemen – ha detto al Senato – la
guerra sarebbe peggiore. La coalizione a guida saudita non beneficerebbe
dei nostri consigli e del nostro addestramento, e i più civili
morirebbero. Quello che otterremmo è un Iran più forte e Isis e al Qaeda
rinvigoriti nella Penisola arabica».
Bernie Sanders ha risposto in aula rivolgendosi direttamente al
presidente: «Il messaggio che il Senato degli Stati Uniti dovrebbe
mandare al governo saudita e a tutto il mondo è che non continueremo a
sostenere una guerra catastrofica guidata da un regime dispotico che ha
una politica militare pericolosa, distruttiva e irresponsabile. Il
Congresso non ha autorizzato questa guerra, è incostituzionale».
E siccome le brutte notizie non vengono mai sole, Mohammed bin Salman ha lasciato la Tunisia – dove ha concluso il suo tour mediorientale – con un’indagine preliminare aperta.
Secondo l’agenzia online Tunis Webdo, che cita il sindacato dei
giornalisti Snjt, il pubblico ministero del tribunale di primo grado di
Tunisi ha aperto un’indagine contro MbS per i crimini commessi in Yemen,
dietro denuncia dello stesso sindacato. Che festeggia: «Un’altra
vittoria per la magistratura tunisina», scrive su Facebook il Snjt che
nella denuncia chiedeva «un’inchiesta sulla violazione dei diritti umani
in Yemen e il lancio di misure legali per inviare il file alla Corte
penale internazionale».
I tunisini non mollano MbS nonostante la felice accoglienza che gli aveva riservato il presidente Essebsi.
Con il principe ha discusso di «economia e finanza, promozione di
investimenti e cooperazione militare e di intelligence», mentre fuori
risuonavano le grida dei manifestanti: «Il popolo vuole che bin Salman
sia giudicato».
Mentre il mondo inizia a muoversi, in Yemen si continua a combattere. Ieri il governo del presidente Hadi, alleato saudita, si è detto contrario a cedere il porto di Hodeidah,
città sulla costa del Mar Rosso e principale scalo del paese insieme ad
Aden, al controllo delle Nazioni unite, ipotesi sul tavolo che dovrebbe
aprirsi in Svezia a dicembre. “La consegna del porto a un’entità che
non sia il governo legittimo – ha detto il ministro Al Amiri – è una
violazione di sovranità e in contrasto con il diritto internazionale”.
Come se Hodeidah fosse un luogo qualsiasi: teatro dei durissimi
scontri tra ribelli Houthi e coalizione a guida saudita, probabile
chiave di volta del conflitto per la sua posizione strategica, è lo scalo a cui arriva il 70% degli aiuti umanitari fondamentali a non far morire l’intero popolo yemenita di fame.
Di aiuti ne arrivano già pochissimi, a causa del blocco navale e aereo
imposto da Riyadh, e ieri l’Onu ha lanciato un nuovo allarme: il poco
che arriva è diventato quasi niente, con le importazioni di grano calate
di quasi il 50% nelle ultime due settimane.
Le compagnie marittime finora operative nel porto non intendono farlo
più per ragioni di sicurezza (la città è oggetto dei bombardamenti
sauditi). Il World Food Programme, che fornisce cibo a 8 milioni di
persone, non nasconde la preoccupazione: la carestia non farà che
dilagare.
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