di Michele Giorgio – Il Manifesto
La fragile tregua tra
Israele e Hamas, causa della fine del governo Netanyahu, non ha tenuto i
palestinesi di Gaza lontano dalle barriere di demarcazione con lo Stato
ebraico. Anche ieri, 34esimo venerdì della Marcia del Ritorno, migliaia
di manifestanti hanno affollato i campi di tende nella fascia orientale
di Gaza e almeno 40 di loro sono stati feriti o intossicati dai
proiettili e dai gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani. La
partita tra Israele e Hamas non è certo finita e la campagna per il
voto anticipato, con i leader politici israeliani che agiteranno il
pugno di ferro pur di guadagnare consensi, potrebbe indurre il premier
Netanyahu a dare luce verde all’offensiva militare contro Gaza, che ha bloccato nei giorni scorsi, spingendo alle dimissioni il ministro della difesa Lieberman desideroso di andare in guerra.
Netanyahu continua a difendere la sua decisione. L’ha fatto anche
ieri rifiutando di nominare nuovo ministro della difesa
l’ultranazionalista Naftali Bennett che ha reagito annunciando il favore
del suo partito, Casa ebraica, ago della bilancia della maggioranza,
per le elezioni anticipate. Netanyahu non è diventato pacifista.
Intorno al futuro di Gaza e dei suoi sfortunati, a dir poco, due
milioni di abitanti si giocano interessi di eccezionale importanza. A
differenza di Lieberman, Netanyahu ha uno sguardo strategico, sa
che una tregua a lungo termine con Hamas, ottenuta escludendo dalla
trattativa l’Anp a Ramallah, finirebbe per allargare la frattura interna
palestinese e per allontanare ulteriormente Gaza e Cisgiordania. La
Striscia rischierebbe di diventare lo staterello palestinese senza
sovranità che il premier ha in mente, lasciando tutta la Cisgiordania a
Israele. Intorno al tavolo da gioco però non c’è solo Netanyahu.
Lo status di Gaza e la riconciliazione tante volte annunciata e mai finalizzata tra Hamas e Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, sono terreni di scontro tra Qatar e Arabia Saudita,
ai ferri corti da giugno 2017 dopo una ventina d’anni di scricchiolii,
che si combattono su molti fronti, attraverso le cosiddette “proxy wars”
(guerre per procura) ma mai frontalmente. Qualche giorno fa
alla conferenza sulla Libia a Palermo è emersa evidente la connessione
anti-Qatar esistente fra Arabia Saudita, Egitto, Emirati e l’uomo forte
libico, il generale Khalifa Haftar. Quest’ultimo, appoggiato
dal Cairo e Abu Dhabi, alleate di Riyadh, ha minacciato di dare forfait
perché era stato invitato anche il Qatar che appoggia i Fratelli
musulmani e il quasi scomparso Libyan Fighting Group, vicino ad al
Qaida, che il generale ritiene ancora attivo a Tripoli. Doha appoggia anche Hamas,
ramo della Fratellanza e pertanto nemico dell’Arabia Saudita e del
presidente egiziano al-Sisi oltre che del leader palestinese Abu Mazen.
Negli ultimi anni il Qatar ha garantito aiuti finanziari di emergenza al movimento islamico palestinese
e di recente ha messo a disposizione decine di milioni di dollari per
comprare il carburante per la centrale elettrica di Gaza e per pagare
una parte dei salari dei dipendenti dei ministeri che fanno capo al
governo di Hamas. «Tutte le volte che gli egiziani sembrano vicini a
portare Israele e Hamas alla tregua a lungo termine interviene
il Qatar, con l’appoggio della Turchia, che offre aiuti e risorse
finanziarie per spingere Hamas a prendere tempo e a resistere alle
pressioni egiziane», ci spiega Sami Abu Omar, un operatore sociale e analista politico di Gaza. «Allo stesso tempo – aggiunge – Riyadh è impegnata a puntellare l’Anp, con donazioni e appoggi politici, ogni volta che viene messo in atto un tentativo di isolare Abu Mazen a vantaggio di Hamas».
Se il Qatar usa le sue immense risorse finanziarie per la sua
politica a Gaza, l’Arabia saudita e i suoi alleati si concentrano
sull’influenza politica e diplomatica. L’obiettivo è anche prendere la gestione della Spianata della moschea di al Aqsa di Gerusalemme (oggi affidata alla Giordania) con il favore di Israele che in cambio otterrebbe il riconoscimento della sua autorità su tutta Gerusalemme.
Arabia Saudita ed Emirati, secondo le indiscrezioni, hanno già
acquistato appartamenti adiacenti alla Spianata delle moschee. Ad
ostacolare queste manovre a Gerusalemme c’è la Turchia di Erdogan,
alleata del Qatar e avversaria di Riyadh.
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